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Fuggire al di là dell’acqua

di Francesco M. Cataluccio

Postfazione a Trans-Atlantico di Witold Gombrowicz appena uscito nelle librerie edito da Il Saggiatore 

“Salpate Compatriotti verso la Nazione vostra! Verso la vostra Nazione Santa, ma fors’anche Maledetta! Navigate verso questo Santo Mostro Oscuro che da secoli tenta di crepare ma non ci riesce! (….) Che il Martirio suo martirizzi voi, i Figli vostri e le mogli, fino alla Morte, all’Agonia, affinché lei stessa agonizzando nell’agonia della propria Demenza vi renda Dementi e Indemoniati” (p.17).

Raramente, nel Novecento, è stato scritto un romanzo così antinazionalista, antipatriottico e, allo stesso tempo, liberamente scandaloso, come Trans-Atlantico di Witold Gombrowicz. Un libro gioioso, sclerotico, barocco, assurdo, pieno di sarcasmo e risentimento verso i Padri che soffocano i Figli; contro la Forma che ci costringe a comportarci come gli altri si aspettano e ci rende schiavi delle convenzioni più assurde.

Dal punto di vista letterario, Trans Atlantico è un romanzo sorprendentemente sperimentale costruito su un’ossatura di frasi che affermano e negano allo stesso tempo; filastrocche senza senso ma piene di saggezza; l’insistenza ossessiva su formule ossequiose e vetuste, come “caddi in ginocchio”; un uso smodato delle maiuscole “a significare il turgore e la spocchia della società che deride”, come notò Angelo Maria Ripellino[1]. Una cavalcata di avventure narrate come in un racconto, spesso con uno stile orale, tradizionale polacco, scritte in una lingua desueta e spesso inventata di sana pianta per marcare ulteriormente l’inadeguatezza della Polonia al mondo moderno.

L’Argentina, dove Gombrowicz si è stabilito da pochi anni, appare, per contrasto con la Polonia, una terra vergine, goffamente libera, politicamente ridicola e sessualmente sfrenata: più giovane, naturale, anticonvenzionale e amorale, almeno nella parte non contaminata dalle elité europee (prima fra tutte quella dell’emigrazione polacca) e dalla prepotenza americana.

Quando Trans-Atlantico, fu pubblicato, nel 1952, a Parigi, presso le edizioni dell’emigrazione polacca Instytut Literacki, nello stesso volume con il dramma teatrale Ślub (Il matrimonio)[2], Gombrowicz aveva 46 anni e abitava ormai da 13 anni a Buenos Aires. Per la prima volta il protagonista di un suo romanzo si chiama anche lui Witold e il contenuto è smaccatamente autobiografico, anche se, nella Prefazione alla prima edizione, pubblicata in Polonia nel 1957, Gombrowicz, prudentemente (l’anziana madre e la bigotta sorella Irena erano ancora vive!), si premurò di avvertire: “Aggiungo, per amore dell’ordine, anche se forse non ce n’è bisogno: Trans-Atlantico è una fantasia. Tutto è inventato e ha legami molto blandi con l’Argentina vera e con la vera colonia polacca a Buenos Aires…”.

La parola “Trans-Atlantico” allude a due aspetti. Il primo, ingannevole fino a un certo punto, che ha indotto spesso a scriverla come una parola sola, è l’allusione alla nave passeggeri polacca, costruita in Danimarca, “Chrobry” (Valoroso) che inaugurò la rotta Gdynia-Buenos Aires tra il 29 luglio e il 20 agosto con a bordo un Ministro, un ambasciatore, un senatore e varie personalità dell’economia e della cultura polacca, tra i quali lo scrittore e radiocronista (l’unico che comparirà nel romanzo con il suo vero nome) Czesław Straszewicz che aveva aiutato Gombrowicz a imbarcarsi:

“Un giorno, al caffé Zodiak di Varsavia, incontro uno scrittore mio coetaneo, Czesław Straszewicz, che mi dice: ‘Vado in America del Sud’. ‘Come sarebbe a dire?’ ‘Tra un mese c’è un viaggio inaugurale del transatlantico polacco Chrobry per Buenos Aires. Mi hanno invitato come scrittore per fare qualche servizio sui giornali’. ‘Davvero? E non potrebbero invitare anche a me?’ ‘Provi a fare domanda. Se vuole posso provare a proporre la sua candidatura, chissà che non riesca a ottenerla. In due si viaggia meglio’ (…) Ogni tanto mi capita di leggere sui giornali che sarei fuggito in Argentina per evitare la guerra. In realtà mi preparai a quel viaggio con tanta indifferenza che fu un puro caso (un caso?) se non rimasi in Polonia. (…) Tutta quella storia della partenza fu come se una grossa mano mi avesse afferrato per la collottola, prelevato dalla Polonia e deposto su quella terra sperduta nell’oceano, eppure europea…”[3].

I due scrittori non fecero in tempo a sbarcare che la Polonia venne invasa dalla Germania. Alcuni importanti passeggeri ritornarono precipitosamente in Europa per combattere (il transatlantico “Chrobry” ripartì alla volta della Gran Bretagna dove fu trasformato in una nave da trasporto militare e affondato dall’aviazione tedesca nel 1940).

Gombrowicz ha sempre sostenuto ufficialmente di essersi subito presentato volontariamente all‘Ambasciata polacca di Buenos Aires per arruolarsi, ma di esser stato “scartato”. In realtà si era imbarcato per l’Argentina proprio perché era certo che la “catastrofe” fosse imminente e non aveva nessuna voglia di mettersi a combattere, come ha testimoniato anche lo scrittore Gustaw Herling (1919-2000), autore di Un mondo a parte, che considerava Gombrowicz una specie di “maestro”, ammirandolo per il suo talento e anticonformismo. A Varsavia, Herling lo frequentava, assieme ad altri giovani nel Caffè Zodiak, dietro l’Università. Proprio lì, agli inizi di luglio del 1939, ricevette da Gombrowicz, durante una solitaria partita a biliardo, una confidenza sul fosco futuro della Polonia e sulla necessità di andarsene al più presto in America Latina ad “allevare tori”. Herling ha raccontato varie volte che quella chiacchierata[4] che allora lo sconvolse, soprattutto perché lui, come la maggior parte dei polacchi, erano convinti di poter fermare trionfalmente l’esercito tedesco (in Trans-Atlantico il Ministro polacco dice: “Signori miei, ciò che ora è importante, è che questo nostro Ardimento non scompaia nel nulla, ma anche che sia strombazzato ai quattro venti, alla maggior gloria del nome nostro, proprio mentre noi si marcia su Berlino, su Berlino, fra poco nostra sarà Berlino! (pag. 83).

Il viaggio in Argentina fu quindi una premeditata fuga dalla pazzia nazionalista e guerrafondaia dell’Europa e Gombrowicz non aveva nessuna intenzione di tornare in Polonia. Nel suo diario privato Kronos, Gombrowicz annotò, nella seconda metà del settembre 1939: “I russi entrano in Polonia. Si comincia parlare di formare un esercito (…) per cui decido di sparire dagli occhi della colonia polacca”[5].

Ma “Trans-Atlantico” significa soprattutto “attraverso l’Atlantico”, come anche “al di là dell’Atlantico”: un grande oceano che divide e tiene lontana l’Argentina dall’Europa e dalle sue tragedie. Spesso Gombrowicz usa l’espressione “al di là dell’acqua” (za wodą), quasi per marcare, seppur dolorosamente, la distanza: “quel gran combattere laggiù, al di là dell’acqua, con spargimento di sangue, e tanta gente, amici miei o parenti, chissà dov’erano che cosa facevano, forse rendevano l’anima a Dio. Anche se ciò accadeva in lontananza, al di là dell’acqua, uno diventava però più prudente, parlava con voce più sommessa, si muoveva con maggior cautela, per non provocare qualche guaio, e volentieri si sarebbe acquattato come la lepre nei campi” (p. 41).

Del mondo di “laggiù”, la Polonia tra le due guerre, ritrova in Argentina, tra le élite polacche, una tradizione ormai vuota e retorica, un senso di vecchiaia mortifera, e persino il culto per una letteratura che, anche nei suoi capolavori come il poema nazionale Messer Taddeo (1834) del poeta romantico Adam Mickiewicz, parla troppo, oltre che del dramma dell’oppressione straniera, di battute di caccia, di una Natura perfettamente bella e armoniosa, grandi bevute e lauti banchetti accompagnati da litigate e spacconate. Gombrowicz si fa beffe di tutto questa “zavorra patriottica”: sceglie di usare beffardamente, in una storia ambientata in una terra straniera e lontana, quel linguaggio desueto della nobiltà decaduta, sempre ambiguo e contraddittorio, quei modi stucchevolmente pomposi, quelle “forme polacche” che ha sempre sentito soffocanti. Così, ad esempio, la Natura e soprattutto gli animali vengono continuamente citati a sproposito, come proverbi insensati: “Tranquilla guizza la trota, mentre ammazzano i gamberi”; “Se la spassa il pettirosso, mentre picchiano il caprone”; “Il fanello cinguetta, mentre il tasso cade in trappola e ci manca poco che impazzisca”… Trans-Atlantico è il primo e ultimo romanzo di Gombrowicz ambientato fuori dalla Polonia, ma forse il più “polacco”.

Che cos’era invece l’Argentina che trovò Gombrowicz alla fine del 1939? “Era difficile scegliere un posto migliore di Buenos Aires. L’Argentina è un paese europeo: vi si sente l’Europa molto più che nell’Europa stessa, ma nello stesso tempo se ne è fuori. Inoltre, in quel paese di mucche, la letteratura veniva scarsamente apprezzata. Avevo bisogno anche di staccarmi dall’Europa e dalla letteratura”.[6]

In poche settimane Gombrowicz ebbe modo di dare sfogo liberamente, e fuori dagli sguardi moralistici della società di Varsavia, alle sue brame sessuali, facendo amicizia con marinai, giardinieri, militari, perdigiorno squattrinati, artigiani e impiegati. Si trovò molto meno a suo agio con le scalcagnate élite della comunità dei migranti polacchi in Argentina e, soprattutto, con le autorità politico-diplomatiche polacche di Buenos Aires: “Che Dio ti guardi dal frequentare la Legazione polacca e anche i Compatrioti, sono Cattivi, Malvagi, non faranno altro che darti addosso, ti sbraneranno” (p. 22).

I polacchi emigrati in Argentina, molti avevano fatto anche una certa fortuna, erano rimasti imbozzolati nei peggiori stereotipi nazionalisti della madrepatria: “Il Polacco è gradito al Signore e alla Natura, grazie alle sue Virtù e alla sua Prodezza, al Coraggio suo, alla Nobiltà sua, alla Religiosità e alla Fede sua. (…) Viva Polonia Martir” (p.100). Alcuni, come il gruppetto che frequenta Witold, sono addirittura affiliati, alla ricerca di una comunità identitaria perduta, a una strana consoteria, una specie di ridicola e dolorosa loggia segreta: l’Ordine dei Cavalieri dello Sperone (“Non tentare Fuga alcuna, né alcun Tradimento, perché ti prenderesti una Speronata, e se ti capitasse di scorgere il pur minimo desiderio di Tradire o di Fuggire in uno dei tuoi Compagni, dovrai infilzargli lo sperone. E se trascurerai di farlo, l’infilzato sarai tu” (p. 124). Gombrowicz non ottenne da loro nessun aiuto materiale e amministrativo. Mentre in Polonia impazzava la guerra, a un certo punto, come si racconta nella prima parte di Trans-Atlantico, tentarono di “usarlo per far bella figura” con l’establishment argentino, mostrando che anche i polacchi avevano valenti scrittori e intellettuali (ma Gombrowicz là non lo conosceva nessuno).

Al ricevimento organizzato con questo scopo, fece a un certo punto la sua comparsa un tizio vestito di nero, “gran escritor, maestro”, con un paio di grandi occhiali neri che lo separava come una siepe dal mondo circostante. Quel vanaglorioso personaggio è chiaramente Borges, anche se non viene mai nominato col suo nome. I due, in seguito, non si ameranno affatto. Borges ebbe a dire che Gombrowicz non gli interessava e che era “un falso nobilotto”[7]. Tutto il mondo letterario argentino che ruotava attorno a Borges ignorò sempre e ostentamente Gombrowicz, trattandolo come un estraneo. Da par sua Gombrowicz ebbe a scrivere: “Borges e io siamo agli antipodi. Lui è radicato nella cultura, io nella vita; anzi, io sono addirittura antiletterario. (…) Borges aveva già allora la sua conventicola prostrata a ossequiarlo: lui parlava e loro lo ascoltavano. Quello che diceva allora non mi parve di qualità eccelsa: troppo angusto, paradossi, bon mots, squisitezze… proprio il genere che detesto con tutte le mie forze. (…) Il Borges erudito è di un’ignoranza terrificante e per di più nemmmeno tanto intelligente, dato che l’erudizione è per sua stessa definizione inintelligente”[8].

L’incontro tra il “campione” degli scrittori polacchi (il riluttante Gombrowicz) e quello degli argentini (Borges) è solo il primo di una serie di “duelli” che punteggiano il romanzo e che sono una delle caratteristiche narrative di Gombrowicz: da quelli “con i ghigni” tra gli alunni rimbambiti nella classe del protagonista di Ferdydurke, a quelli “filosofici) tra Filidor e Filibert, alle zuffe tra signorotti e contadini… E con un’altra ennesima rissa si conclude anche Trans-Atlantico.

Il “duello” tra Gombrowicz e Borges è surrealmente squisito. Gombrowicz dice ad alta voce: “Non mi piace quando il Burro è troppo Burroso, gli Gnocchi troppo Gnoccosi, il Miglio troppo Miglioso, l’Orzo troppo Orzato” (p. 48)”. La replica di Borges, che nel frattempo si è informato che il suo “avversario” è polacco, è piena di sufficienza: “È stato detto poch’anzi che il burro burroso… L’idea, non c’è che dire, non è malvagia… anzi, anzi… Peccato che non sia nuova, già Sartorius la ebbe a dire nelle sue Bucoliche” (p. 48). Si prosegue in un crescendo di frasi senza senso. Ogni volta le opposte fazioni (i polacchi e gli argentini) prorompono in grida e applausi di approvazione. Alla fine Gombrowicz perde la pazienza e grida tre volte “Merda!” (nel caso di “parolacce” come questa, lo scrittore polacco, educatamente, scrive sempre solamente le iniziali e le finali, congiunte da puntini). Ma Borges non si scompone e vince la partita con questa affermazione: “L’idea non è affatto malvagia, ottima con funghetti trifolati. Il guaio è che la ebbe ad esprimere già Cambronne…” (p. 50)

Ma il Grande Duello, che costituisce la parte centrale del romanzo, è quello mancato, perché senza pallottole, tra il ricco puto (pederasta) argentino Gonzalo e il vecchio ex maggiore, orgoglioso emigrante polacco, Tomasz Kobrzycki, che vorrebbe lavare nel sangue l’affronto di Gonzalo che fa la corte al suo giovane e biondo figlio Ignacy (Ignac). Gonzalo viene descritto come “un maschio che, pur essendo maschio, maschio non vuol essere, corre però appresso ai maschi come un Forsennato”. Esattamente com’era Gombrowicz, che con gli altri amici fa di tutto per evitare che scorra davvero il sangue (Gonzalo ha una paura tremenda!).

Viene così escogitata la truffa di non caricare le pistole con proiettili. Così si assiste a un ”duello che sembra vero ma è vuoto di pallottole”: sembra di rivedere la scena finale del film Blow Up (1966) di Michelangelo Antonioni (ispirato al racconto Le bave del diavolo dell'argentino Julio Cortázar), dove si vedono dei giovani giocare una partita di tennis senza le palline. Perché è il Vuoto, il senso continuo del Vuoto, che domina filosoficamente ed esistenzialmente la tragica realtà della Polonia: “Tutto era vuoto come una Bottiglia Vuota, come una botte, un coccio. Invero, nonostante il nostro martirio fosse tremendo, esso era vuoto, vuoto, e vuota anche la Paura, vuoto il Dolore. (…) Ecco perché il nostro martirio non aveva un termine, ci potevamo rimanere altri mille anni senza mai conoscere il perché e il per come. Non sarei dunque mai uscito più da questa bara vuota?” (pp. 130-131).

Il corteggiamento insistente di Gonzalo nei confronti di Ignacy, figlio dell’ex maggiore polacco, finisce col provocare un conflitto, tra padre conservatore e figlio più aperto verso la vita, e dà modo a Gombrowicz di perorare con forza la causa dei giovani/figli contro i padri ottusi, degli immaturi contro i maturi genitori: “Non vuoi diventare qualcosa di Diverso e di Nuovo? Vuoi davvero che tutti i vostri Ragazzi ripetano, ubbidienti, ciò che i padri comandano? Liberate i figli dalla gabbia paterna, lasciateli correre su terreni impervi, lasciateli sbirciare dentro l’Ignoto!” (p.76)

Lo scrittore polacco, che sta facendo i conti con tutto quello che in Polonia lo ha oppresso e limitato, e con una nazione che è capace soltanto di chiamare i suoi figli al martirio, teorizza un geniale e divertente ribaltamento dell’idea di Patria: “Al diavolo col Padre e con la Patria! Il Figlio, il figlio, questo sì solo questo posso capire! A cosa ti serve la Patria? Non è meglio la Figliatria? Sostituisci la Patria con la Figliatria, e ti accorgerai che roba!” (p.76).

Cambiare la parola PATRIA (che pone retoricamente l’accento sulla genitorialità paterna) con un termine, FIGLIATRIA, che ribalta tutte le convenzioni generazionali e patriottiche, è una suggestione che sarebbe utile prendere sul serio. Gombrowicz, mentre la gioventù mondiale veniva nuovamente mandata al macello dal fanatismo degli adulti, stava proponendo un’idea di Libertà che avrebbe dovuto aspettare il Sessantotto per poter, seppur parzialmente e contraddittoriamente, diventare qualcosa di reale (e, nella sua ultima opera, Operetta[9], prima di spegnersi nel 1969, Gombrowicz dimostrò di aver visto acutamente il potenziale di ribellione e il desiderio di un ampliamento delle libertà civili che quei giovani incarnavano).

Gombrowicz a Buenos Aires si godeva la libertà in una miseria materiale profonda. Era sempre in cerca di qualche modo per guadagnare dei soldi. Trans-Atlantico è forse il primo romanzo scritto interamente negli uffici di una banca: il Banco Polaco, in via Tucumán, dove gli avevano trovato una sorta impiego e dove il direttore Nowiński gli permetteva di scrivere durante l’orario di lavoro (in Trans-Atlantico si racconta, in modo esilarante, del “lavoro” di Witold come impiegato nell’Azienda Commercio Cavalli, dove i tre padroni e gli impiegati: “Si erano dimenticati dell’esistenza del mondo, e vivevano con se stessi, per se stessi, nel sessestismo, e tanto era il vecchiume accumulato negli anni, tante le rimembranze, le offese, le parole dette e non dette, i tappi, le boccette in disuso (…) che persino un estraneo, mettendosi in contatto con loro, non poteva mai prevedere che cosa essi gli avrebbero potuto dire o fare” (p. 39).

Con questo romanzo, scritto in polacco sulle peripezie di un “disertore” sperduto in un paese al di là dell’acqua, che prendeva in giro la propria patria, dove si stavano compiendo massacri inimmaginabili, e i suoi valori, Gombrowicz non poteva certo immaginare di avere successo e non suscitare polemiche (per stemperarle, la casa editrice polacca dell’emigrazione antepose al romanzo un testo apologetico e difensivo del noto romanziere Józef Wittlin [10]).

Gombrowicz definì però, seppur sarcasticamente, Trans-Atlantico: “l'opera più patriottica e più coraggiosa che io abbia mai scritto, ed è proprio quest'opera che mi procura il marchio disonorante di codardo e di pessimo polacco”[11]. Il successo, con questo polemico e sarcastico romanzo, sembra non gli interessasse più di tanto (puntava sul dramma teatrale Il Matrimonio e sulla traduzione in spagnolo di Ferdydurke). Aveva in mente, ora che si sentiva “libero” in Argentina, una battaglia contro il nazionalismo e i valori reazionari polacchi, contro la Patria, e in particolare la "polonità".

In una lettera al poeta Julian Tuwim, in esilio negli Stati Uniti, scritta durante la guerra, Gombrowicz propose un libro che avesse lo scopo di "modernizzare ed europeizzare la psiche polacca" [12]. Di quel progetto non ne fece di nulla, ma i suoi propositi e le sue riflessioni passarono in Trans-Atlantico. Il suo obbiettivo dichiarato era di ridicolizzare tutto ciò che di polacco c'è, secondo lui, nei polacchi (patriottismo, romanticismo, bigottismo): “A che ti serve essere un polacco? La sorte dei Polacchi era forse stata tanto meravigliosa finora? Non ne hai fin sopra i capelli della tua polonità? Non ti basta il Martirio? Non basta l’eterno Supplizio, il Tormento? Infatti oggi le state pigliando per l’ennesima volta! Tu, però, preferisci prenderle, eh” (p. 76)

La battaglia e la polemica di Gombrowicz contro il nazionalismo polacco durò fino alla sua morte nel 1969. Oggi ancor meglio si vede quanto fosse necessaria e giusta. E quanta ostilità continui a provocare. Nel maggio del 2007 il Ministero dell’Educazione polacca cancellò dalla lista delle letture obbligatorie nelle scuole Trans-Atlantico e Ferdydurke, Rispondendo alle numerose proteste, tra le quali quella della poetessa Wisława Szymborska, il ministro Roman Giertych sostenne che “Trans-Atlantico è il libro di un uomo che, nel 1939, sfuggì al servizio militare e se ne andò in Argentina in cerca di avventure”.

Lo scrittore Gustaw Herling, il giovane “allievo” che raccolse la confidenza di Gombrowicz in procinto di salpare per l’Argentina, e che visse poi anche lui in esilio all’estero (a Napoli), nel 1992, poco dopo la fine del Comunismo, sostenne che non sarebbe stato facile per la Polonia liberarsi dai demoni dei suoi antichi difetti: “L'apatia e il grande astenzionismo dalle elezioni e dalla politica, la divisione in decine di partiti e lobby di interessi particolari, il risorgente nazionalismo (la continua celebrazione della Nazione distrugge la preoccupazione per la società) e la xenofobia, il clericalismo sono i segni di una nuova, e per certi aspetti vecchia, malattia della società polacca: tra le macerie del comunismo, come dopo le guerre, non riesce a nascere una identità sociale. Ancora molta acqua deve passare sotto i ponti prima che il polacco della strada (non parlo naturalmente delle élite proliferate magnificamente!) scopra la propria identità comune di cittadino, dovendo, è vero, recuperare quasi mezzo secolo di tempo perso; ma sa che lo aspetta una strada dura, erta, per arrivare all'obbiettivo” [13].

[1] Angelo Maria Ripellino, Duello senza pallottole, in A. M. Ripellino, Nel giallo dello schedario, Cronopio, Napoli 2000, p. 101.

[2] Witold Gombrowicz, Il matrimonio, trad. di Remo Guidieri, Einaudi, Torino 1967.

[3] Witold Gombrowicz, Testamento (1967), trad. di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 91-92

[4] Włodzimierz Bolecki, Rozmowy w Dragonei (Conversazioni a Dragonei), Szpak, Warszawa 1997, pp. 327-329.

[5] Witold Gombrowicz, Kronos, trad. di Irene Salvatori, il Saggiatore, Milano 2013, p. 74.

[6]Witold Gombrowicz, Testamento (1967), op. cit., p. 93.

[7] Rita Gombrowicz, Gombrowicz en Argentine (1939-1963), Denoël, Paris 1984, p. 66.

[8] Witold Gombrowicz, Testamento (1967), op. cit., p. 99.

[9] Witold Gombrowicz, Operetta (1966), trad. di Jole e Gian Renzo Morteo, Einaudi, 1968.

[10] Józef Wittlin, Apologia Gombrowicza (1951), ora in: Gombrowicz i krytycy, a c. di Zdisław Łapiński, WL., Kraków 1984, pp. 83-92).

[11]Witold Gombrowicz, Diario, volume I (1953-1958), trad. di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano 2004, p. 144.

[12] Witold Gombrowicz, List do Juliana Tuwima (7/X/1941), in "Zeszyty Literackie", n. 35, Warszawa 1991, p. 74.

[13] Gustaw Herling, Społeczeństwo. List do Jerzego Turowicza (Società. Lettera a Jerzy Turowicz), in: "Tygodnik Powszechny", n.10 , 8/III/1992.

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

9 settembre 2019

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