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Gaetano Scirea, emblema della correttezza sportiva

di Roberto Tortora

Campione del mondo nel 1982, elegante nel gioco e mai cattivo con gli avversari, Gateano Scirea è stato uno tra i pochissimi giocatori nella storia del calcio a non aver mai ricevuto un cartellino rosso dall'arbitro. Trent'anni dopo la sua morte prematura, Scirea continua a rappresentare il calciatore corretto per antonomasia e un riferimento inossidabile per i giovani.

“Scirea… Bergomi, Scirea… Tardelli… gol, gol Tardelli, raddoppio…”. Il resto è storia, ormai tutti lo sanno. In una finale di coppa del mondo, con l’Italia notoriamente catenacciara già in vantaggio di un gol contro la Germania, due difensori si buttano in avanti e confezionano l’azione che porta all’urlo più famoso della storia del calcio. Una follia assoluta nel momento topico della carriera di qualsiasi futbolista. Per tutti, ma per uno no. L’assistman è Gaetano Scirea, nato centrocampista per passione, retrocesso difensore per necessità e, non a caso, frequentatore dell’area avversaria come solo il grande Franz Beckenbauer, il Kaiser, aveva saputo fare in quella meravigliosa epopea che è il gioco del pallone.

Gaetano Scirea è l’emblema del calciatore esemplare. È, tempo presente, non era, imperfetto, perché certe qualità vanno oltre i certificati di nascita e di morte. Un calciatore perbene, nel senso più alto del termine. Perché giocava in modo inconfondibile, con la sua eleganza, il portamento fiero di chi ha la nobiltà d’animo dentro al cuore e non su uno stemma di famiglia. Nella sua personale genetica calcistica il cromosoma del fallo non è previsto, chiuderà infatti la carriera senza nemmeno un cartellino rosso. Lui, che danzava in punta di piedi con in mano una sciabola, in una zona del campo in cui non era certo adatto il fioretto. L’istinto dell’uscita pulita palla al piede per far ripartire l’azione sì, è innato, anzi, nelle squadre in cui ha giocato, a partire da quella dell’oratorio San Pio di Cinisello Balsamo, è lui l’innesco intelligente di ogni azione d’attacco. Un 10 con prestito pluriennale alla difesa, per farla breve. La Serenissima, sua prima squadra, e Gianni Crimella, suo primo allenatore, lo ricordano bene: “Timidino, ma in campo giocava come nessuno già a 10 anni”. Tifava Inter, la grande Inter di Helenio Herrera.

La sua più grande delusione? Senza dubbio l’Heysel, uno come lui non avrebbe mai voluto giocare con 36 morti sulle spalle (più 3 che non ce la faranno in ospedale poi) e quella Coppa dei Campioni non l’ha mai considerata vinta. Per garantire la sicurezza, lui e Phil Neal del Liverpool, da capitani, furono costretti a rassicurare i tifosi dall’altoparlante del decrepito stadio di Bruxelles: “State calmi, giochiamo per voi”. Ci volle del tempo, prima che riuscisse ad addormentarsi la notte senza pensarci. Avrebbe voluto vincerne un’altra di Coppa per dedicarla a quelle vittime, ma purtroppo non ci riuscì.

La sua più grande soddisfazione? Né Scudetti né mondiali né gol né titoli personali. Un solo riconoscimento gli interessava davvero, il diploma da maestro. Per far contento il papà, che male aveva digerito il suo abbandono agli studi per inseguire la gloria calcistica. Un titolo che prese una volta tolta per sempre la casacca bianconera numero 6, frequentando l’Istituto Regina Margherita dalle 7:30 alle 11:30 per tre volte la settimana. L’intelligenza lo aveva sempre portato più in là del suo corpo. “Il calcio si gioca con la testa. Se non hai la testa, le gambe da sole non bastano”, lo diceva Johann Cruijff, mica uno qualunque.

Famiglia di operai la sua, papà Stefano (siciliano) e mamma Giuditta (lùmbard) hanno accumulato insieme 65 anni di onesto servizio alla Pirelli. Lavoro-buone maniere-onestà i principi con i quali viene educato, il padre gli inculca la sera a tavola poche regole, ma ferree: “Non si chiede e non si dà fastidio, si chiede aiuto, ma non ci si fa servire da nessuno”. E Gaetano fa sì con la testa, recepisce quelle idee come cardini del suo carattere schivo, al contrasto di un talento slavo e ribelle con il pallone tra i piedi, quello dal quale non si separa proprio mai. Bocciato in terza media, per la vergogna d’estate va a lavorare da tornitore nell'officina dello zio e, in aggiunta, anche come elettricista. Tutto, pur di riparare l’imbarazzo creato alla sua famiglia. Nel 1975, l’alba del mattino seguente il giorno del suo primo scudetto vinto con la maglia della Juventus (primo di tanti, saranno 7), è anche l’epilogo della sua prima notte in assoluto in discoteca, un mondo a lui sconosciuto. Sono le 6 e uscendo dal locale incrocia il suo cammino con quello di un operaio che si sta recando al lavoro. Quell’immagine lo riporta al volto del padre, che ha faticato una vita per la famiglia. Troppa è la vergogna, chi è lui per far baldoria, mentre c’è gente che a quell’ora va a guadagnarsi il pane? Torna a casa in fretta e non metterà più piede in una discoteca. Atteggiamento un po' estremo, certo, quello Scudetto in fondo se l’era guadagnato, ma… ditemi voi chi oggi ragionerebbe in questa maniera. Non si nasce unici per caso.

Il battesimo e la benedizione le riceve nel 1972 allo Stadio Sant’Elia di Cagliari nientemeno che da Gigi Riva, contro cui esordisce in Serie A con la maglia dell’Atalanta, la squadra che ha creduto in lui e che, da ala destra, lo ha spostato prima al centro e successivamente nelle retrovie, complice l’infortunio del titolare Savoia. “Quel taciturno come me lì ne farà di strada”, dirà a fine partita Rombo di Tuono, fermato sullo 0-0 in casa.

Quando dall’Atalanta passa alla Juventus il fratello Paolo lo accompagna al Comunale per il raduno e Gaetano, per rispetto, devozione, senso di responsabilità e paura, tentenna parecchio prima di lasciare l’auto ed entrare in quel gruppo di campioni del calibro di Zoff, Gentile, Capello, Anastasi, Bettega, Furino… ma scherziamo? “Questa è la Juve, siamo sicuri che ne debba far parte anch’io?”, deve aver pensato. Nelle settimane seguenti, va da casa al campo prendendo il tram, copre con del nastro adesivo nero la scritta Juventus sulla borsa da gioco, alza il bavero della giacca. Non vuole essere riconosciuto in mezzo alla gente normale, vuole passare inosservato. Non dar fastidio, come suo padre insegna.

Conosce la sua splendida moglie, Mariella Cavanna, in un pensionato dove dorme anche la squadra Primavera bianconera. Sarà colpo di fulmine, fatto scoccare dopo 5 incontri in cui la sua timidezza prevale, ma alla fine non si separerà più da lei. Sarà soltanto il destino a dividerli. “Prima di cominciare ogni partita, la prima cosa che faceva era cercarci in tribuna per salutare me e suo figlio Riccardo. Non so come faceva con lo sguardo a beccarci sempre”, racconta sempre con gli occhi lucidi Mariella.

Una vita intera ad evitare i gol degli altri, ma non disdegna farli, come in occasione del mitico derby del 7 marzo 1982. Il Toro sta vincendo 2-0, gol di Bonesso e Dossena, ma la Juve quel pomeriggio è in palla. Tardelli accorcia le distanze, Scirea quindi decide che è il momento di partire per una delle sue missioni e va a colonizzare l’area granata. Segna prima di testa il 2-2 e poi insacca il sorpasso, su assist di Brady, a tu per tu con Terraneo. Sarà lo stesso irlandese a sugellare la vittoria con il gol del 4-2 finale. Dolce quel Gaetano lì, ma letale quando serve. I fantacalcisti di tutto il Paese avrebbero fatto follie per accaparrarselo, se solo il gioco fosse arrivato in Italia prima del 1990.

Zoff è l’amico fraterno, quello da cui raccoglie il testimone di capitano della Vecchia Signora nel 1983, dopo la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni contro l’Amburgo. E quello che seguirà nella sua breve esperienza da vice-allenatore proprio dei bianconeri, dopo aver smesso di giocare e prima di lasciare la dimensione terrena. Il Dino nazionale è anche quello che solleva la Coppa del Mondo al cielo di Madrid l’11 Luglio 1982 e che per festeggiare, con il ct Bearzot, Franco Causio… ed il presidente della Repubblica di allora, Sandro Pertini, decide di fare una bella partita a scopone scientifico sul volo presidenziale di ritorno Madrid-Roma. Il punto più alto lo avevano toccato sul prato del Bernabeu, non c’era bisogno di fare ancora baldoria, tra una sigaretta e una chiacchiera, i giocatori avevano tirato mattina nei corridoi dell’albergo che li ospitava. E Scirea, quasi in soggezione per cotanta gloria, disse a Tardelli quella notte: “Ma ti rendi conto che io adesso devo andare a casa dalle mie parti e dire che sono Campione del Mondo?”. Il 1988 è l’anno in cui dice basta, smette di giocare e si congeda dal calcio con 7 Scudetti, 2 Coppe Italia, 1 Coppa dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa UEFA, 1 Supercoppa europea e 1 Coppa Intercontinentale e 1 Coppa del Mondo. Ha vinto praticamente tutto.

Dal campo alla panchina, mentre la Juve è impegnata in trasferta a Verona, il presidente Boniperti lo manda ad inizio settembre ’89 in Polonia ad osservare il Górnik Zabrze, squadra polacca sorteggiata come avversaria dei bianconeri al primo turno di Coppa Uefa. A Torino sono sempre stati maniacali, la cura del dettaglio è tutto, gli avversari si studiano sempre. Fa un’insolita colazione con la sua Mariella prima di partire, sono le 4.30 del mattino e, per fortuna, la moglie si è svegliata in tempo. Prima di partire le confessa: “Basta, è l’ultimo viaggio, voglio stare di più a casa con tutti voi”. Non sapeva che quello, purtroppo, sarebbe stato l’ultimo viaggio per davvero. Il sabato sera, infatti, è in tribuna a Lodz, la domenica mattina deve far rientro in Italia dall’aeroporto di Varsavia. Non ci arriverà mai, perché il suo autista azzarda un sorpasso su una strada statale a due corsie molto trafficata, all’altezza di Babsk.

L’auto centra un pulmino nella corsia opposta e viene schiacciata da una 126 che arriva alle spalle. In quella 125, invece, ci sono delle taniche di benzina di scorta nel bagagliaio che prendono subito fuoco, per Scirea non c’è scampo.

La Juventus, dopo la partita vinta al Bentegodi, si ferma a cena sul Lago di Garda. Nessuno sa ancora nulla. Arrivano al casello autostradale di Torino verso le 23. Il casellante, in lacrime, dà loro una notizia sconvolgente, che lascia tutti increduli, Zoff per primo. All’arrivo allo Stadio Comunale, dove ognuno avrebbe poi preso la propria auto, la folla di giornalisti e curiosi non lascia più scampo alla speranza. Gaetano è morto davvero. La Domenica Sportiva si apre, domenica 3 settembre, con l’annuncio laconico di Sandro Ciotti. Alla notizia Marco Tardelli, l’uomo che deve a Gaetano l’urlo del Bernabeu, è presente in studio. Non ce la fa, non regge e deve abbandonare di colpo. Dirà sempre di lui: “Era l’ultimo di noi che se ne sarebbe dovuto andare, al cospetto del carattere mite con noi era sempre allegro, mai arrabbiato e sempre disposto a darti una mano. Mi ha lasciato solo cose belle”.

Mariella riceve la notizia da Boniperti, il giovedì successivo è a Varsavia per riportare la salma in Italia e riceve gli effetti personali del marito. La fede di matrimonio e un rolex blu, fermo alle 12.50, il momento dell’impatto. In quei giorni, il padre Stefano è ricoverato al Niguarda per una cardiopatia. Il dolore per quella tragedia è così forte che il suo cuore non può reggere. Così, sette giorni dopo il suo amato figlio Gaetano, anche lui vola in cielo ad abbracciarlo. Gaetano Scirea aveva il calcio dentro, viveva di calcio ed è morto per esso: “È un lavoro che amo moltissimo e se non lavori con entusiasmo e con voglia, di risultati ne farai ben pochi”. Se non è un esempio lui, ditemi voi chi potrà mai esserlo.

Roberto Tortora, giornalista

Analisi di

7 aprile 2020

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