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Giulio De Benedetti ovvero l'incomprensione del "mistico"

sull'intervista a Hitler del 1923

Giulio De Benedetti

Giulio De Benedetti

L’intervista concessa da Adolf Hitler a Giulio De Benedetti nel marzo del 1923 è una rarità. Il leader del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori non concedeva quasi mai interviste ai giornalisti tedeschi, mentre era più incline a farlo verso quelli stranieri. Questa ritrosia aveva ragioni tattiche e strategiche ben precise: l’immagine e, soprattutto, la parola andavano “provate” solo dal vivo e, possibilmente, in mezzo alle grandi masse; il timore che l’intervistatore non comprendesse la sua anonima grandezza era assai forte. È anche vero che, all’epoca, Hitler appariva, agli occhi dei grandi giornali tedeschi per lo meno, come uno dei tanti capetti oltranzisti emersi dai turbinosi anni postbellici, uno dei reduci arrabbiati disposti a rigettare la tortuosa via democratica assunta dalla Germania weimariana per entrare nel consesso delle democrazie occidentali.

De Benedetti, che all’epoca lavorava per la “Gazzetta del Popolo”, riesce a intervistare Hitler. Il tema all’ordine del giorno è, naturalmente, la Francia e il problema della Ruhr, che il governo del liberale Cuno ha deciso di affrontare con la “resistenza passiva” (sciopero a oltranza nei territori occupati). Il 1923, non dimentichiamolo, è l’anno della iperinflazione, alimentata dal governo tedesco per tentare di abbattere l’enorme debito di guerra (le “riparazioni”) per via negativa: dimostrare l’impossibilità di onorarlo stampando carta straccia a più non posso, onde costringere gli Stati vincitori (la Francia in primis) a più miti consigli.

De Benedetti si avvicina a Hitler con un misto di curiosità e di diffidenza verso un personaggio che, dal vivo, non appare affatto quel mito che molti testimoni, ammaliati dal suo carisma, stanno contribuendo a creare. La descrizione del giornalista ebreo (“faccia comune”, “senza interesse”, “figura tozza”, “angoli delle labbra” tremebondi, stretta di mano “energica”) è sintomatica della mancata comprensione della dimensione carismatica. Il problema di Hitler non è mai stato quello di descrivere un programma capace di affrontare con successo il tema all’ordine del giorno (l’inflazione generata dal debito), quanto di fornire una visione del mondo capace di spiegare “razionalmente” il mistero della caduta (sconfitta) tedesca. E lui, oltre che il partito comunista (chiuso nel suo rigido dogma marxista-leninista), è l’unico ad averla saputa fornire.

Guardiamo per un momento le domande rivolte a Hitler: qual è il suo programma? Non teme il rischio di guerra civile? Non ritiene che si debba parlare meno e agire meglio? Perché l’astio verso socialisti ed ebrei? È immaginabile un accordo con la Francia?

Tutte le domande hanno la funzione di descrivere un piccolo partito barricadiero al pubblico italiano. De Benedetti, che non riuscirà più ad avvicinare Hitler, è incapace di fornirci un quadro appropriato di quello che è il “genio” del suo interlocutore. Forse, si dirà, è troppo presto. Siamo ancora alle soglie del fallito colpo di Stato e della prigionia, due esperienze fondamentali per la crescita politica di Hitler. Eppure De Benedetti intuisce di trovarsi di fronte non a un semplice “tamburino” delle forze conservatrici tedesche, ma a qualcosa di assai più incontenibile: un fiume in piena che traboccherà gli argini. Peccato, però, che il giornalista non sia in grado di navigare dentro il flusso e si sia limitato a osservare, da spettatore vagamente interessato, l’anonimo capetto austriaco alla guida di un anonimo partito.

Intervistare un capo carismatico è sempre molto difficile, perché non basta fare le domande giuste. Bisogna anche conoscere adeguatamente lo scenario, saper scendere nella “caverna”. Il caso di De Benedetti è emblematico: fuori da un determinato ambiente, da una certa situazione, Hitler è un signor nessuno. Come lui, diremmo, molti altri personaggi che hanno attraversato il secolo scorso (e, forse, il nostro). Non particolarmente piacevole alla vista, non particolarmente elegante, non particolarmente eloquente. Non vi sono segni particolari che rendano Hitler diverso da tanti altri. E, in effetti, è così. Sino a pochi anni prima Hitler era un emarginato, un povero acquarellista renitente alla leva (austriaca), ben poco interessato a ottenere una collocazione nel mondo. Eppure… eppure qualcosa ardeva dentro di lui: qualcosa che nessun giornalista “positivo” (ancorché di “razza”, come De Benedetti) sarebbe stato in grado di descrivere.

Laddove la parola perde ogni senso e l’animo umano travalica i confini che lo gettano nell’altro mondo degli archetipi, delle paure e delle speranze. Laddove c’è bisogno di abbandonare la fiaccola della ragione per ricorrere alla cecità del sentimento. Ebbene, in quel preciso istante è possibile abbracciare il “mistico”, è possibile passare dai fatti ai valori. Ciò che nessuna descrizione logico-filosofica (per parafrasare il primo Wittgenstein) è in grado di afferrare in questo mondo.

Analisi di

15 gennaio 2018

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