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Gorbaciov, un uomo che ha avuto il coraggio di fare un passo indietro

di Gabriele Nissim, presidente di Gariwo

Fui personalmente testimone dell’effetto Gorbaciov in due circostanze diverse, quando ancora nessuno si immaginava le possibili conseguenze del ruolo dirompente che avrebbe assunto il nuovo segretario del partito comunista nei paesi della cortina di ferro.

Ero a Praga nella primavera del 1988 per documentare, per conto di Canale 5 nella trasmissione di Arrigo Levi, l’attività clandestina di Charta 77. Per la prima volta nella sua storia, l’organizzazione diretta da Vaclav Havel aveva indetto una manifestazione pubblica nel centro di Praga per chiedere il ripristino delle libertà democratiche. Quando chiesi ai dirigenti della Charta cosa li spingesse a sfidare pubblicamente il regime, mi risposero che erano fiduciosi che, prima o poi, anche i dirigenti del partito comunista cecoslovacco, fino ad allora chiusi ad ogni ipotesi di liberalizzazione, avrebbero dovuto mettersi in sintonia con il nuovo vento della Perestroika di Mosca.

La manifestazione fu duramente repressa, perché la maggior parte dei manifestanti fu fermata dalla polizia e venne accusata sui giornali di essere agente della Nato. Con uno stratagemma, riuscii a evitare il sequestro delle bobine da parte degli agenti, perché consegnai loro dei nastri vuoti, mentre il mio cameraman nascose i nastri registrati nella sua borsa. Così le immagini di quella prima manifestazione furono diffuse in Italia. Ricordo che, al mio ritorno in Italia, nemmeno Arrigo Levi, grande giornalista e profondo conoscitore del comunismo, credeva che il vecchio sogno della Primavera di Praga avrebbe avuto la possibilità, finalmente, di ritornare alla luce in un paese dove la normalizzazione sovietica sembrava non finire mai.

L’anno successivo, nell’aprile del 1989, venni mandato da Rete 4 al confine tra l’Austria e l’Ungheria dove la stessa polizia ungherese aveva deciso di rimuovere le barriere elettrificate che dividevano i due paesi. Mi ricordo la grande gioia del poliziotto ungherese che di fronte alle telecamere degli operatori occidentali tagliava con una grande pinza la rete metallica. Lavorava per me un cine-operatore armeno che si diede da fare per riprendere la scena da ogni angolo.

Stiamo assistendo a qualcosa di straordinario e dobbiamo fare girare queste immagini nel mondo intero”. Poi, con tanta passione, mi consegnò le sue riprese che, a tarda sera, trasmisi in Italia con un collegamento satellitare. Allora non c’era la rete e bisognava arrangiarsi. Seppi poi che quelle immagini storiche vennero trasmesse a fine telegiornale, come se si fosse trattato di una notizia tra le altre.

Fu invece il primo passo che portò alla caduta del Muro di Berlino. Migliaia di ungheresi si recarono così liberamente in Austria con le loro auto, per potere acquistare lavatrici e beni di cui erano sprovvisti. Ma se per gli ungheresi era relativamente facile attraversare il confine, non lo era per i tedeschi della Repubblica democratica. Ci riuscirono per la prima volta il 19 agosto quando, disponendo di un visto turistico ungherese, attraversarono l’Austria e finalmente, con tanta allegria, si recarono liberamente nella Repubblica federale tedesca. Erano i primi 900 uomini liberi della Germania dell’est. Il governo della Ddr protestò violentemente per questo primo esodo della sua popolazione. Ma la marea continuò e ben 19 mila tedeschi si recarono in Ungheria per cercare la via della libertà.

Quanto accadde in Ungheria fu il detonatore che portò alla caduta del muro di Berlino il 9 novembre del 1989, dopo che migliaia di persone si recarono ai posti di blocco, in seguito alle parole di Günter Schabowski (il ministro della propaganda della Ddr che durante una conferenza stampa, incalzato dal giornalista dell'Ansa Riccardo Ermhan, dichiarò che il politburo aveva deciso di aprire le porte del muro a chi aveva un permesso). Così, l’onda delle masse fu tanto grande da sorprendere le guardie di frontiera costrette a lasciare libero il passaggio.

Tutto questo non sarebbe potuto accadere se al Cremlino non ci fosse stato un uomo come Gorbaciov che, a differenza dei suoi predecessori, decise di non usare i meccanismi militari per stroncare i moti popolari che si susseguivano nei paesi dell’est.

Allora, molti osservatori internazionali - da Sergio Romano, a Henry Kissinger a Giulio Andreotti - erano convinti che la fine dell’impero sovietico avrebbe portato a nuove guerre, se non addirittura ad un conflitto nucleare. Pochi immaginavano che l’89 sarebbe stato un percorso pacifico da Praga, a Varsavia, a Sofia, come nei paesi baltici.

Ciò è potuto accadere perché un uomo, che era un comunista convinto, ascoltò il peso della sua coscienza e, pur non essendo in sintonia con gli oppositori dell’est e con le loro idee sul mercato, sulla democrazia politica, sulla missione del partito e sul socialismo, non volle mettersi di traverso di fronte all’ansia di libertà che attraversò tutta l’Europa dell’est.

Quando ragioniamo sugli uomini giusti, di solito pensiamo alle persone che aiutano, impediscono genocidi, lottano per la libertà. Vediamo in loro una visione positiva del bene. Tuttavia, esistono nella storia persone che, pur credendo in ideologie e in visioni lontane dalle nostre, sono capaci di fare un passo indietro per impedire delle catastrofi.

Gorbaciov non avrebbe desiderato la fine del comunismo e lo sfaldamento dell’impero sovietico. Lo ha spiegato in molte sue interviste. Ma di fronte ad una crisi che avrebbe potuto fare centinaia di migliaia di vittime, ha preferito astenersi.

Gorbaciov non è stato un Vaclav Havel, un Imre Nagy, un uomo come Michnik e Walesa. Ha permesso la fine del sistema sovietico, pur continuando a crederci fino alla fine.

La sua eredità è molto scomoda oggi nella Russia di Putin che, per ricostruire i fasti della Russia imperialista, è disposto a mandare al massacro migliaia di soldati russi e a distruggere città intere, in Ucraina come ha già fatto in Cecenia, Georgia e Siria.

Gorbaciov ha insegnato al mondo che qualsiasi ragion di stato, anche se fosse la migliore causa, non si deve mai realizzare con il sangue.

È quella forma innata di pietas, direbbe Hanna Arendt, che costringe gli esseri umani ad agire diversamente dalle loro stesse opinioni. È questa, alla fine, la speranza che ci fa credere all’impossibile, anche quando tutto sembra irrealizzabile o perduto per sempre. E pure accade.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

31 agosto 2022

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