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I due volti dell'Egitto

Il referendum sulla Costituzione, fotografia di un Paese spaccato

Il Fratello-presidente egiziano Mohammed Morsi, a quanto pare, ha vinto: nel senso che il "sì" al referendum sulla Costituzione è passato con una maggioranza per ora sicura ma non certo "bulgara": poco oltre il 56 per cento. Diciamo "per ora" perché le denunce di brogli sono migliaia, esattamente come accadeva nel passato, ai tempi del partito unico di Hosni Mubarak. Il rischio che l'opposizione si prepari ad impugnare il risultato, denunciando migliaia di irregolarità, è in realtà altissimo. 


Però, comunque vadano le cose, alla conclusione delle complicate operazioni di voto a tappe sulla nuova Costituzione, che in realtà garantirebbe più Shari'a e sostanzialmente meno libertà, vi è una sola certezza, anzi ve ne sono due. La prima certezza è che l'Egitto, per la prima volta in maniera chiara e palese, è ormai polarizzato, quindi profondamente spaccato: da una parte i fratelli musulmani e i salafiti, che nonostante evidenti differenze quantomeno tattiche, intendono procedere alla ruvida islamizzazione del Paese, un Paese dove la donna -ad esempio - avrebbe diritti solo in quanto madre, sposa, sorella; dall'altra liberali, progressisti, cristiani copti, agnostici e anche coloro che, pur essendo (o ritenendosi) buoni musulmani, non amano, anzi ripudiano la totale commistione fra religione e politica


L'altra certezza è probabilmente ancor più interessante della prima, e per certi versi più intrigante. La capitale dell'Egitto, il Cairo, cuore del potere politico e religioso, dove vive quasi il 20 per cento dell'intera popolazione del Paese, e Alessandria, la storica e celeberrima seconda città egiziana, culla del sapere millenario, hanno votato in maggioranza "no" al referendum proposto dal presidente Morsi. Dato indiscutibile, e sicuramente assai più consistente di quanto ammettano gli stessi Fratelli musulmani, che comunque sono stati costretti a riconoscere la bruciante sconfitta urbana. È un vero ceffone per il capo dello Stato e per i suoi sponsor. È come se gli elettori gli avessero gridato che piazza Tahrir, con i suoi celeberrimi raduni libertari, permeati di sincretismo, è sempre pronta a ricomporsi, a far sentire la sua voce e a manifestare, costi quel che costi, la propria volontà di cambiare


È chiaro che questo risultato, l'unico per ora sicuro dopo il voto nei primi dieci governatorati, mostra un Egitto diverso da quello che abbiamo conosciuto dai tempi di Gamal Abdel Nasser. Per molti aspetti è un Paese che ha prodotto (o subìto) una importante mutazione, e che quindi è tutto da sondare e da scoprire. Di fatto, a meno che i risultati definitivi non producano clamorose inversioni di rotta, si può dire che le grandi città (che più delle altre soffrono tra l'altro il crollo del turismo, che era la prima risorsa del Paese) hanno espresso a maggioranza il desiderio di vivere davvero la riconquistata libertà dopo anni di sostanziale tirannide. In provincia, invece, ci si è affidati alle suggestioni di un Islam invasivo, un Islam affidato all'energia e all'ambiguità dei Fratelli musulmani e soprattutto ai salafiti. Un fronte islamico che, pur fra mille sfumature, è assetato di rivincita dopo decenni di umiliazioni, ed è guidato da un uomo - il presidente Morsi, appunto- che interpreta perfettamente la doppiezza del movimento islamico.
 
I brogli in provincia, dove la povertà e la miseria dilagano, e dove i controlli sono assai meno efficaci, non si contano: persone convinte con una modesta mancia o con un cestino di verdura a votare di conseguenza. Senza contare le pressioni psicologiche e forse anche meno sottili, quindi più ruvide come la coercizione, da parte dei custodi dell'Islam più intransigente.
 
Ecco perchè le notizie che arrivano dal Cairo non sono certo confortanti per un nugolo di ragioni. Morsi, dopo aver contribuito non poco a risolvere il problema di Gaza, con la guerra tra Israele e Hamas, quell'Hamas che nasce proprio da una costola della Fratellanza, voleva dare al mondo l'idea dell'uomo forte. Capace di controllare "democraticamente" la piazza, e pronto a rispettare gli accordi internazionali, isolando la periferia ultra-radicale del movimento che lo ha espresso e neutralizzando gli estremisti salafiti. Glielo chiedevano gli Stati Uniti, l'Unione europea, e soprattutto i vertici militari egiziani, desiderosi di ricevere la quota prevista dal robusto assegno annuale che arriva da Washington.


Invece Morsi, fiero nell'assunzione di ogni responsabilità per rispettare gli impegni sottoscritti ma presidente-tentenna all'interno del suo Paese (quanti passi ha compiuto, in pochissimo tempo, rimangiandoseli una settimana dopo?), sembra incapace di diventare davvero il capo di tutti gli egiziani. Il capo dello Stato assicura tutti che non si toccherà lo storico trattato di pace  con Israele, ma fa ben poco per scoraggiare le spregiudicate manovre dei salafiti. Sarà un caso, ma il "sì" più massiccio alla nuova Costituzione è arrivato dalle regioni nel nord del Sinai, non lontano dalla Striscia di Gaza, con tutto ciò che ne consegue.


Chiariamo subito che risulta difficile pensare che la stragrande maggioranza degli egiziani abbia letto tutte le 63 pagine e i 236 articoli dei nuovi principi e delle nuove regole. Però tutti, o quasi tutti, hanno compreso perfettamente che cosa significhi l'articolo più delicato della nuova Costituzione, il numero 217. Se approvato, aprirebbe le porte a quell'islamizzazione generale temuta dai laici, dai cristiani-copti, dalle donne, e da tutti coloro che hanno lottato per un vero cambiamento, e che oggi lo vedono tradito.


                                  
      

Antonio Ferrari

Analisi di Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera

18 dicembre 2012

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