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I Giardini dei Giusti da Antigone alla Convenzione delle Nazioni Unite

di Gabriele Nissim

Alla fine della Seconda guerra mondiale, quando il mondo si rese conto della dimensione dello sterminio nazista, il giurista polacco ed ebreo Raphael Lemkin impegnò tutte le sue energie affinché l’umanità realizzasse uno strumento giuridico e politico che si facesse portatore di un nuovo comandamento morale: non commettere un genocidio.

Nacque così la Convenzione delle Nazioni Unite che fu votata dalla maggioranza dei Paesi, che fecero proprio lo stesso termine “genocidio” coniato da Lemkin. Con questa parola (un ibrido latino-greco che designa la distruzione “cidio” di un gruppo “genos” accomunato dalla stessa origine), lo studioso polacco, sfuggito miracolosamente all’Olocausto che aveva già previsto negli anni Trenta con una attenta lettura del Mein Kampf, aveva messo in evidenza come nella storia umana non esistano solo le guerre contro gli Stati, ma anche guerre contro i popoli, per la loro eliminazione.

Ci voleva dunque una legge internazionale che non solo considerasse un reato l’incitamento alla distruzione delle minoranze culturali, politiche ed etniche, ma anche costringesse gli Stati, in tempo di guerra come in tempo di pace, a rispettare un ordinamento sovranazionale che salvaguardasse i diritti individuali e collettivi.

Qualsiasi minoranza minacciata poteva dunque fare appello a questa legge, poiché era contro i principi fondanti della comunità internazionale qualsiasi Stato e governo che giustificasse con una legislazione nazionale la distruzione politica e culturale degli esseri umani. Antigone, quando aveva chiesto la sepoltura di suo fratello Polinice, aveva fatto appello ad una legge superiore “non scritta degli dei”; Lemkin, invece, aveva immaginato che ci potesse essere un’autorità sovranazionale che garantisse la salvaguardia della dignità umana con un patto tra gli Stati.

È in questa prospettiva che dobbiamo vedere il senso della costruzione dei Giardini dei Giusti, che possono diventare un importante supporto morale alla Convenzione delle Nazioni Unite, valorizzando le donne e gli uomini che con lo stesso spirito di Antigone sono stati capaci di sfidare delle leggi ingiuste a partire dal richiamo della loro coscienza.

I Giusti, infatti, nella maggior parte dei casi, per fare rispettare il comandamento di non commettere un genocidio diventano dei fuorilegge che sfidano, di volta in volta, non solo un decadimento dei costumi morali, ma una legalità ingiusta che prepara un possibile annientamento delle minoranze.

Con la narrazione pubblica delle loro storie e il richiamo a una visibilità dei Giusti sulla scena politica, i Giardini possono diventare uno strumento culturale innovativo per la prevenzione dei genocidi.

In primo luogo, insegnano che un impegno costante contro l’odio e qualsiasi atrocità di massa non è da intendersi come un sacrificio, ma nasce dal bisogno di preservare la ricchezza della pluralità umana alla base della nostra civilizzazione.

Chi vuole la distruzione dell’altro fa male a se stesso, perché impoverisce l’insieme dell’umanità. È questa la molla che spinge gli uomini giusti ad agire. Non vogliono vivere con “un assassino dentro di sé” come aveva sostenuto la Arendt e non vogliono nemmeno che l’umanità sia amputata di una sua parte, come aveva compreso Lemkin.

È questo, del resto, il punto centrale della Convenzione, che si basa sull’interesse comune che dovrebbe unire gli uomini a respingere i genocidi.

In secondo luogo, i Giardini, ricordando i Giusti non solo di una parte ma di tutti i genocidi, totalitarismi e crimini contro l’umanità, permettono di superare il meccanismo distruttivo delle concorrenze tra le memorie e danno modo al cittadino di avere una coscienza globale e di rapportarsi con tutto il mondo. Sono infatti uno stimolo ad immedesimarsi in storie di resistenza e di responsabilità che riguardano l’intero pianeta.

Il visitatore di un Giardino apprende così che non esistono solo i Giusti della storia del proprio Paese o di una singola, sia pure terribile, ingiustizia, come possono essere la Shoah o il genocidio armeno, ma che queste figure esemplari si presentano in tempi e in luoghi sempre diversi. Si crea in questo modo una coscienza globale.

In terzo luogo, il Giardino trasmette l’idea che qualsiasi essere umano, anche nel suo piccolo spazio di responsabilità, dove è sovrano, può diventare con la propria azione un custode dell’umanità.

Il Giardino dei Giusti, infatti, esalta il ruolo nella storia del singolo e dell’individuo, che con la sua volontà e determinazione può sempre diventare argine al proprio destino. Per questo, non è la vetrina di santi ed eroi, ma il luogo del bene possibile alla portata di tutti. Senza la mobilitazione costante dei singoli richiamati dalla loro coscienza, la Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi non potrebbe mai vivere, perché anche la migliore istituzione è sempre alimentata da una partecipazione democratica dal basso e dall’azione dei cittadini.

Qual è allora la modalità della comunicazione del Giardino all’opinione pubblica?

In primo luogo, stimolando la società ad esprimere un riconoscimento e una gratitudine nei confronti degli uomini che si sono assunti una responsabilità verso gli altri andando contro corrente e salvando così nelle situazioni estreme la dignità umana.

Il Giardino, come osservava Walter Benjamin, spinge gli individui a diventare dei “pescatori di perle” che tirano fuori dall’oblio storie di umanità, che altrimenti rimarrebbero nascoste negli abissi. Senza i narratori e i divulgatori non si sarebbero mai conosciute le storie dei Giusti che la storiografia non ha mai preso in grande considerazione. Con i Giardini, invece, queste figure entrano nella Storia e così diventano degli esempi morali che si possono tramandare di generazione in generazione. In questo modo, diventa popolare e fonte di emulazione la categoria di uomini che sono i combattenti contro i genocidi e che per la prima volta sono apparsi sulla scena pubblica quando si sono ricordati i Giusti della Shoah. Come non esisteva la parola genocidio fino all’intuizione di Lemkin, così il concetto di Giusti mai era stato usato per un crimine contro l’umanità.

Ma ancora più importante nel rapporto che i Giardini hanno con la società, è il metodo della comunicazione indiretta di cui parlavano Søren Kierkegaard e Pierre Hadot. Il Giardino non fa prediche, non impone un paradigma, non dà, per intenderci, una linea politica, ma invita le persone a pensare da sole, in autonomia. E lo fa con la narrazione degli esempi dei Giusti.

Scoprendo una storia di bene, il cittadino può essere stimolato ad interrogarsi sulla sua vita e sul suo agire nel mondo. È l’esempio che stimola a pensare e a riflettere sulle proprie scelte.

Il punto originale è che non c’è una storia unica nel Giardino, con modalità uguali, ma che si possono trovare pluralità di esempi con percorsi completamente diversi e persino in contraddizione gli uni con gli altri. In questo modo il cittadino non solo può scoprire percorsi totalmente differenti, ma anche rendersi conto delle infinite forme della responsabilità possibili in questo mondo.

C’è quindi sempre la possibilità che una storia sia per lui non solo una grande scoperta, ma anche che vada a illuminare una parte della sua personalità. Ritrovare anche casualmente un elemento di somiglianza nella storia di un Giusto può accendere così una parte nascosta della propria coscienza. È lo stesso meccanismo che avvertiamo nella lettura dei romanzi. Ci sono sempre un personaggio o una sua azione particolare che ci piacciono ci commuovono, perché li sentiamo simili a noi.

Alla fine, quindi, un cittadino può evincere che quello che Perlasca ha fatto a Budapest, o Peshev in Bulgaria, di fronte alla deportazione degli ebrei, lo avrebbe potuto replicare lui stesso oggi in altre circostanze, magari nei confronti di un migrante o di fronte a una manifestazione di odio. In fondo anche gli uomini giusti non sono poi così diversi da chi li scopre nei Giardini. 

È questo è il grande stupore che crea una inaspettata emulazione.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

11 novembre 2021

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