Pubblichiamo la recensione di Vittorio Pavoncello del libro di Gabriele Nissim "Auschwitz non finisce mai. La memoria della Shoah e i nuovi genocidi" (Rizzoli, 2022).
Il titolo Auschwitz non finisce mai potrebbe trarre in inganno, poiché ci si potrebbe aspettare un libro sull’antisemitismo, di quelli che, allertati dalla nuova virulenza che questo odio ha oggi, ripercorrono a partire dalla Shoah una storia di quello che sarebbe più attuale chiamare antisraelismo, che colpisce, oggi, gli israeliti e Israele, ma non è così. E non è neanche un libro che racconta come si è svolto il progetto nazifascista di sterminare tutto il popolo di Israele, che ha decimato la popolazione degli ebrei europei in modo considerevole. E che ancora potrebbe essere in corso, vista la sentenza francese che non ha condannato Kobili Traorè, un ventisettenne mussulmano del Mali che ha ucciso la sua vicina di casa Sara Halimi, una signora ebrea di 65 anni. La non condanna è stata decretata perché Traorè avrebbe agito in piena crisi psicotica dopo aver preso dell’hascisc. Insomma, come durante il nazifascismo, quando uccidere un ebreo non era un reato.
Il libro di Gabriele Nissim, invece, parla della Shoah in un modo originale, partendo dal suo riconoscimento non come crimine di guerra o crimine contro l’umanità, cause per le quali furono condannati i gerarchi nazisti a Norimberga, ma come genocidio. Per noi, oggi, appare chiaro, ma, allora, non lo fu per il mondo con il quale si scontrò Raphael Lemkin, il creatore della parola genocidio, che non fu solo l’inventore del termine ma si adoperò durante la sua vita affinché il mondo e le Nazioni Unite riconoscessero il reato di genocidio.
Lemkin nacque in Polonia e riuscì a scappare negli Stati Uniti, sebbene non riuscì a salvare la sua famiglia, che finì in un lager nazista. Auschwitz non finisce mai abilmente ci narra vita e avversità dell’avvocato polacco. Portando il lettore a una riflessione: se la Shoah è un genocidio, questo si è presentato sia prima (vedi Armeni) sia dopo Auschwitz (Ruanda). La Shoah è, quindi, il paradigma del concetto di genocidio, ma viene meno la sua unicità assoluta, con i suoi risvolti molto vicini a delle concezioni religiose. Il libro di Nissim, infatti, dedica in apertura alcuni capitoli alle varie visioni che la Shoah ha avuto in riferimento a Dio e alla religione. Tutto ciò non tende a sminuire la Shoah, poiché il suo essere stata il più grande genocidio dell’età contemporanea la pone in una situazione non gerarchica ma di singolarità (male, dolore e sofferenze, parlando di cose umane come un genocidio, non possono avere delle gerarchie, ma delle contestualizzazioni). Il riconoscere il genocidio come reato, inoltre, pone tutti coloro che vi hanno aderito e partecipato di fronte a delle precise responsabilità, poiché un genocidio ha bisogno di un genos che lo attuai ai danni di un genos vittima. E un genos è composto da singole persone, e fra queste vi può essere anche chi si oppone al genocidio, da qui i Giusti (coloro che anche a rischio della propria vita salvarono la vita di coloro che andavano assassinati), di cui Nissim cura la memoria attraverso i Giardini dei Giusti nel mondo.
La visione del genocidio come reato, nel progetto di Lemkin, garantirebbe così anche una lotta all’antisemitismo, come è stato vissuto e proposto negli anni del nazifascismo, pienamente teso alla distruzione del popolo d’Israele nella sua totalità, facendo di questo un reato contro l’umanità e non soltanto un odio verso l’ebreo.
Un libro Auschwitz non finisce mai, dunque, che prendendo il tema da un altro punto di vista, ci porta a riflettere anche sul concetto di popolo e la sua vera salvaguardia. Popolo così caro, però, ai sovranisti attuali, che nel difendere l’etnicità dei popoli non vogliono confusioni “culturali” e mescolanze “culturali”, facendo propri atteggiamenti nazisti rispetto alla cultura.

Analisi di Vittorio Pavoncello, regista, autore e artista