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I Giusti del Ruanda

ricordarli a 25 anni dal genocidio

Il Genocidio dei Tutsi, che ebbe luogo in Ruanda nel 1994, è stato sicuramente il più breve e il più veloce della storia: durò tre mesi, e in questi tre mesi furono uccise 1.074.017 persone. Tre mesi in cui ogni giorno venivano uccise in media più di 10 mila persone. Fu così veloce e crudele perché era stato preparato con una forte propaganda di odio contro i Tutsi, che ha convinto tanti Hutu che i Tutsi erano loro nemici e bisognava ucciderli tutti per difendersi, in modo preventivo. Per tanti secoli avevano vissuto insieme, abitando sulle stesse colline, parlando la stessa lingua, dandosi la mano da buoni vicini, ma la propaganda riuscì a suscitare negli uni la forte convinzione che gli altri non avevano più diritto di esistere. Gli uomini politici lo dicevano apertamente nei loro discorsi, i giornali lo scrivevano ripetutamente, e piano piano gli Hutu iniziarono a pensare ai Tutsi come a degli animaletti di poco valore. Talvolta venivano chiamati scarafaggi, e in effetti sono stati uccisi come degli scarafaggi. Si parlava di loro come alberi alti che bisognava tagliare, e a tanti venivano tagliate le gambe per abbassarli e poi ucciderli.

Oltre ai discorsi politici e alle pubblicazioni nei giornali, fu creata appositamente una stazione radiofonica, le cui emissioni parlavano sempre dei Tutsi come il nemico numero uno da cui bisognava liberarsi appena possibile. Ascoltando questa radio, tanti hanno assorbito ciecamente i suoi messaggi e si sono lasciati andare. Iniziato il genocidio, la radio continuava a chiamare tutti a “lavorare”, che significava uccidere. Il Tutsi non era più un uomo o una donna, ma uno scarafaggio da schiacciare o un albero da tagliare a pezzi con il machete. La radio annunciava i nomi dei Tutsi famosi che erano stati uccisi, parlava di altri che non erano ancora stati trovati, e nei quartieri o sulle colline continuavano a uccidere, seguendo degli elenchi su cui erano stati scritti i nomi dei residenti Tutsi, oltre al fatto che comunque erano conosciuti dove abitavano.

La mia famiglia fu colpita duramente da questo genocidio. Era una famiglia Tutsi da sempre, e quindi perseguitata fin dall’inizio, dal lontano 1957 - quando alcuni intellettuali Hutu scrissero un manifesto in cui era contenuto l’odio e la discriminazione con cui bisognava trattare i Tutsi. In quegli anni, per esempio, mio padre fu cacciato via dalla scuola, perché secondo le quote di accesso all’istruzione i Tutsi erano troppi e dovevano lasciare posto agli Hutu. Si presentava come una politica di uguaglianza nel diritto di accesso all’istruzione, ai posti di lavoro, e nella vita sociale in generale, ma in realtà non era altro che discriminazione progressiva e sistematica contro i Tutsi. A 13/14 anni mio padre fu costretto ad abbandonare la scuola e non ci ritornò più. Sarà ucciso poi nel 1994, all’età di 45 anni, a Kigali, dove lavorava nel commercio. Con lui saranno uccisi anche alcuni dei suoi fratelli e sorelle, mia nonna che ormai era un po’ anziana, mia sorella che aveva 15 anni, e diversi miei cugini e cugine. Dalla parte di mia madre invece, sterminarono quasi tutta la famiglia. Si salvò lei con mio cugino (figlio di sua sorella).

Nonostante tanto odio e tanta sofferenza, ci sono state anche persone che hanno preso le distanze dal male, e sono contento di essere qui per ricordarle, per onorarle e ringraziarle. Sarebbero tante, in tutto il Paese, e il loro numero continua a crescere perché di alcuni si inizia a conoscere adesso il coraggio, e ogni anno vengono onorati in una bella cerimonia. Parlerò di quelli che ho conosciuto personalmente.

Il primo era un nostro vicino di casa, un padre di famiglia che era Hutu ma si opponeva al progetto di sterminio. Era amico di mio padre, e andammo a casa sua a chiedergli di nasconderci subito dopo l’inizio del genocidio quando, a poca distanza da casa nostra, avevamo visto un gruppo di persone armate di machete, venute a cercarci, che non avendoci trovati perché eravamo andati a nasconderci nel bosco, portarono via quello che riuscivano a prendere. Quest’uomo poi ci consigliò di andare via di casa sua, perché sapendo che era contrario al genocidio, sarebbe stato facile scoprire che in casa sua nascondeva qualcuno.

Camminando di notte e di nascosto, siamo riusciti ad arrivare a una chiesa che era a una decina di chilometri da casa nostra. Nascondersi nella chiesa era una garanzia di sopravvivenza. Nelle persecuzioni e nelle uccisioni degli anni precedenti al genocidio, tanti Tutsi si sono salvati perché si sono nascosti nelle Chiese, considerate inviolabili anche da chi uccideva. Ma nel 1994 era cambiato. Tutti i Tutsi dovevano morire, non importa dove si nascondevano. Eravamo tantissimi, e il parroco di questa chiesa, Padre Stany, polacco che era in Ruanda da diversi anni, ci chiuse tutti all’interno dell’edificio. Si rifiutò di aprire, quando glielo chiesero i miliziani che volevano controllare, e riuscì a mandarli via, dandogli probabilmente qualche soldo o qualche sacco di riso o fagioli. Nonostante il nostro numero elevato, Padre Stany fece di tutto per impedire che morissimo di fame, e ci riuscì perché ci credeva e si dava da fare. Vennero altri gruppi di miliziani, e a un certo punto rifiutarono i regali di Padre Stany. Sfondarono le porte della Chiesa, ci buttarono tutti fuori e cominciarono a selezionare le vittime, che deportarono su dei camioncini verso il luogo della loro uccisione. Tra loro c’era il fratello di mia madre e qualche volta mi ritorna in mente l’ultimo sguardo che ci siamo scambiati, nel quale ci siamo detti tutto quello che avevamo da dirci come ultime parole. Ma Padre Stany non si arrese. Rifiutò varie volte di andare via dal Ruanda, perché non se la sentiva di abbandonarci e perché voleva fare di tutto per riuscire a salvare qualcuno. Si dice che ha salvato circa 500 persone. È riconosciuto fra i Giusti del Ruanda, e il governo gli ha dato un premio di riconoscenza per quello che ha fatto.

Infine voglio parlare di Padre Mario Falconi, che sono anche orgoglioso di chiamare amico mio. Lui è di Bergamo e vive in Ruanda dagli anni 70. L’ho conosciuto nel 2004 quando sono andato a studiare al liceo di cui era direttore, in una zona abbastanza lontana dalla capitale. Lì viveva e faceva il parroco anche durante il genocidio, e anche lui si rifiutò di andare via, quando quasi tutti gli altri occidentali lasciavano il Ruanda. Si rifugiarono tante persone nella sua parrocchia, e si dice che ne abbia salvate 3000. Ha accolto tutti quelli che andavano da lui, e ha provveduto a dargli da mangiare per tutto il tempo. Quando sentì che a una chiesa protestante vicina, avevano ucciso circa 1000 Tutsi, sentì di dover fare qualcosa. Allora preparò psicologicamente quelli che si erano rifugiati da lui. Gli disse di prendere tutto quello che riuscivano a trovare e che poteva aiutarli a difendersi, ma senza uccidere. Poi difuse in giro una falsa notizia, secondo la quale la zona della sua parrocchia era già stata conquistata dalla ribellione che ha fermato il genocidio. Così si salvarono ben 3 mila persone. Si parla anche di un gruppo di bambini, che riuscirono a uscire dal Ruanda aiutati da lui, che li portò probabilmente in Italia, e li riportò in Ruanda una volta finito il genocidio. Ma questa è una notizia che dovrei verificare meglio prima di affermarla. Padre Mario non ne parla tanto. È un uomo mite e di poche parole. Ma il fatto sta che ha salvato tante persone, e anche lui è stato riconosciuto come Giusto da parte del governo del Ruanda.

Sono tanti, e io ho parlato solo dei tre che ho conosciuto. Ma, come ho accennato, il loro elenco cresce ogni anno e questa è una cosa di cui rallegrarsi ed essere grati. Penso all’ufficiale dell’esercito senegalese, membro della missione dell’ONU in Ruanda, che agendo solo salvò quasi 600 persone portandole in luoghi più o meno sicuri, mentre il suo contingente non faceva nulla, perché non riceveva ordine di intervenire. Penso alla signora primo ministro, Hutu ma contraria al genocidio, che fu uccisa barbaramente appena iniziato il genocidio, insieme ai dieci caschi blu belgi che la proteggevano. Ma penso anche all’altro sacerdote Hutu che scelse di non andare al funerale di suo padre, perché altrimenti avrebbe dovuto lasciare le numerose persone che nascondeva e manteneva quasi da solo.

Il coraggio di queste persone è da ammirare, ma è anche da raccogliere e fare nostro oggi. Sembrava non si facesse altro in tutto il Paese che uccidere i Tutsi. Sembrava non si potesse fare altro che odiarli. Ma chi non si è lasciato contagiare dalla propaganda, chi non si è fidato ciecamente dell’ideologia politica ha saputo riconoscere il male, evitarlo e schierarsi con coraggio e determinazione dalla parte del bene.

Sarebbe bello se tutti noi potessimo imparare da loro a stare dalla parte del bene, in mezzo a tanto male che c’è anche oggi nella nostra società e nella nostra generazione.

Eugène Muhire Rwigilira, sopravvissuto al genocidio in Ruanda

Analisi di

18 marzo 2019

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