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I Giusti e la prevenzione dei genocidi. La nuova sfida di Gariwo nel mondo

di Gabriele Nissim

Dalla sua nascita, Gariwo ha promosso diverse operazioni culturali.
Innanzitutto, abbiamo valorizzato la memoria del bene, ovvero di chi si è adoperato per salvare vite umane durante la Shoah. È nata così l’idea dei Giusti, che non solo rappresentano l’accusa più implacabile agli ingiusti e a ogni forma di indifferenza, ma che mostrano a ognuno di noi la possibilità di reagire al male e di prendere in mano il proprio destino.
Abbiamo poi allargato l’idea dei Giusti a tutti i genocidi, grazie anche all’impegno del Parlamento europeo e italiano, e abbiamo promosso la costruzione di Giardini in tutto il mondo.
Nei prossimi anni vogliamo fare un passo ulteriore: legare in modo chiaro l’idea dei Giusti alla Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi.

Il nostro obiettivo è che tutti i Parlamenti in Europa e nel mondo riconoscano la Giornata dei Giusti, considerandola una modalità di applicazione della Convenzione di Raphael Lemkin adottata nel 1948 dalle Nazioni Unite. Senza questa prospettiva, il nostro messaggio morale rischia di essere generico. Al contrario, l’interesse per i Giusti si amplifica se si appoggia all’idea della Convenzione - che è stata approvata dalla maggioranza dei Parlamenti del mondo.
Dobbiamo quindi definire in modo chiaro qual è il senso della memoria e della valorizzazione dei Giusti: impedire il male estremo nel nostro tempo e per le prossime generazioni.
Per questo abbiamo chiesto al Parlamento italiano di approvare tre proposte: un rapporto annuale sui potenziali genocidi e sulle atrocità di massa nel mondo, che indichi le modalità di intervento attivo per scongiurare le crisi più pericolose; la nomina di un advisor sui genocidi che sia il responsabile di questi rapporti di fronte all’opinione pubblica; la costruzione di una commissione indipendente per i diritti umani.
L’Italia, che pure aveva approvato la Convenzione il 4 giugno del 1952, ha poi fatto molto poco per sostenere questo impegno durante i genocidi che si sono susseguiti dopo la Shoah nel mondo, da quello della Cambogia allo sterminio dei Tutsi in Ruanda.
Noi vogliamo impegnarci affinché il nostro Paese non solo riprenda il mano lo spirito della Convenzione, ma diventi il messaggero della Giornata dei Giusti nel mondo appoggiandosi alla Comunità europea: è nelle corde profonde del nostro Paese impegnarsi per iniziative di pace.
Diffondere a livello internazionale l’idea dei Giusti significa educare le società a quell’arte difficile della prevenzione del male. La nostra cultura umanista ci dà tutti gli strumenti per farlo e potrebbe diventare l’orgoglio morale del nostro Paese a livello internazionale. È anche per questo che Gariwo ha costruito un lavoro proficuo e importante con molte nostre ambasciate all’estero.

Per capire questo passaggio è però utile ragionare sul pensiero di Raphael Lemkin, il grande artefice della Convenzione alle Nazioni Unite. Il giurista ebreo polacco aveva avuto importanti intuizioni, legando la sua esperienza di sopravvissuto alla Shoah alla sua riflessione teorica.
Coniando il termine genocidio, una definizione che non era mai esistita, ha voluto unire il dramma ebraico a tutti gli stermini della storia. Lemkin non voleva essere solo un ebreo che chiedeva giustizia per il suo popolo, ma un ebreo che trascinava l’umanità a combattere tutti i genocidi. Aveva una forte visione spinoziana e pensava che l’utile per gli ebrei (come per gli armeni e per qualsiasi popolo che aveva subito un massacro) fosse quello di unire tutta l’umanità contro l’ideologia dello sterminio. Non esisteva un utile soltanto per sé, per la propria sopravvivenza, ma un utile per la protezione di tutti. Nessun popolo si sarebbe mai potuto salvare da solo se non fosse stata approvata una legislazione internazionale che vincolasse tutti i Paesi del mondo ad un patto condiviso.
Lemkin poi aveva considerato che l’unico riscatto possibile per le vittime fosse quello di impedire i genocidi. Era soltanto il futuro che riscattava il passato. La memoria delle vittime doveva diventare una forza gigantesca per imprimere un nuovo corso all’umanità.
Non esisteva per lui nessuna giustizia riparativa che potesse riscattare le macerie. Le vite distrutte erano per sempre. Inoltre, aggiungeva, sarebbe stato impossibile giudicare nei processi del dopoguerra milioni di tedeschi che avevano in vario modo partecipato allo sterminio ebraico ed erano rimasti indifferenti. Lo si poteva fare solo per alcuni, ma i processi sarebbero serviti a poco, se non si fossero affermati nuovi valori condivisi e nuove istituzioni in grado di prevenire i genocidi prima che i carnefici portassero a termine i loro piani.
Dopo la morte dei suoi genitori per mano dei nazisti, Lemkin aveva fatto una promessa: li avrebbe ricordati e onorati con il suo impegno alle Nazioni Unite. Aveva lo stesso spirito di Etty Hillesum, a cui i tedeschi impedirono di realizzare il sogno che aveva elaborato nei suoi diari prima della deportazione: ripensare il dopo e ricostruire un mondo senza più una goccia di odio.
Un fine da inseguire sempre come orizzonte di vita.

Così Lemkin, con la sua straordinaria battaglia per la Convenzione, ha voluto indicare all’umanità un nuovo comandamento che non era mai stato fino ad allora preso in considerazione: non commettere più genocidi. Questo nuovo termine (fino ad allora non c’era una parola che definiva lo sterminio di massa) doveva suscitare vergogna. Per lui il genocidio non era soltanto un crimine di guerra, come si pensò a Norimberga, ma accadeva ogni volta che in tempo di pace si pianificava l’esclusione e l’eliminazione dei gruppi nazionali etnici, religiosi e politici.
La consapevolezza del concetto di genocidio doveva imprimere un nuovo inizio al mondo dopo la Seconda guerra mondiale, perché fino ad allora non solo queste azioni rimanevano impunite, ma era considerato lecito che in nome del principio della sovranità nazionale e delle proprie leggi gli Stati potessero perseguitare le minoranze, fino alla loro soppressione. Nessuno aveva il diritto di intervenire.
Quando Lemkin, con grande intelligenza, ha posto il problema dell’intenzione che sta dietro ad ogni genocidio, ha introdotto la questione della scelta. Il genocidio non è uno tsunami, un evento naturale, ma è provocato dagli uomini che decidono di farlo: dietro ad ogni sterminio c’è una scelta. Per lui in ogni massacro di massa si cela una intenzione, anche se non c’è un Mein Kampf che lo prova. È questo l’errore di chi non considera le atrocità di massa come un genocidio. Lemkin pensava il contrario: si può arrivare ad un genocidio non solo con un intento dichiarato, ma anche quando si creano le condizioni che lo provocano.
Lemkin coglieva i due aspetti, sia il concetto che nel vocabolario giuridico viene chiamato dolus specialis, quando cioè il criminale agisce con l’intenzione diretta e manifesta di uccidere e di conseguenza i giudici nell’atto della condanna mettono in evidenza la prova oggettiva delle intenzioni dell’omicidio; sia la definizione di dolus eventualis, quando il criminale mette in atto delle pratiche che creano oggettivamente le possibilità e le condizioni di un assassinio.

Il giurista polacco ha inoltre posto la questione del genocidio non come un fatto che riguarda solo la minoranza colpita, ma come un impoverimento che riguarda tutta l’umanità.
Ricordo una sua frase (1): “Se agli ebrei condannati dalla Germania non fosse stato permesso di creare la Bibbia e di dare alla luce uno Spinoza o un Einstein, se ai polacchi non fosse stata data l’opportunità di offrire al mondo un Copernico, uno Chopin, o una Curie, se dai cechi non ci fosse stato un Huss o un Dvorak, dai greci un Platone e un Socrate e dai russi un Tolstoj o un Shostakovich, ogni nazione avrebbe subito una perdita irreparabile.”
Non c’è genocidio che non tocchi tutta l’umanità. L’indifferenza quindi è un sentimento che danneggia tutti: non si può essere indifferenti per qualche cosa che danneggia l’insieme della pluralità umana, compresa la stessa persona indifferente. Dietro l’irresponsabilità non c’è solo l’abbandono della vittima, ma la propria autodistruzione.

Come aveva scritto in alcuni suoi appunti ritrovati nel suo archivio personale, secondo Lemkin bisognava porsi sempre tre domande fondamentali: quali sono gli obbiettivi dei genocidari? Quali sono le loro motivazioni, anche se sembrano le più fantasiose? Quali sono le tecniche di genocidio che stanno mettendo in atto?
Dalla risposta a queste domande discendevano i compiti politici della Convenzione delle Nazioni Unite: monitorare l’hate speech, le ideologie che portano ai genocidi; il diritto di ingerenza delle Nazioni Unite nelle crisi internazionali per bloccare i genocidi in corso (non la guerra totale, ma una combinazione di pressioni politiche, militari, diplomatiche e morali che potessero bloccare i programmi dei potenziali carnefici); la creazione di tribunali internazionali come deterrenza morale (Lemkin era infatti convinto che gli Stati non fossero entità astratte, ma sempre espressioni contingenti di uomini in carne ed ossa che potevano essere condizionati dalla condanna morale).

Come si colloca Gariwo in tutto questo? Attraverso la narrazione dei Giusti e la valorizzazione delle loro storie vogliamo insegnare alla società a prevenire i genocidi e ogni forma di odio che crea i presupposti per l’esclusione e la disumanizzazione.
I Giusti insegnano a pensare e ad agire. Rappresentano il più grande esempio etico che può creare nella società un meccanismo di emulazione. Essi con le loro azioni ci suggeriscono dei comportamenti individuali che ci danno la possibilità di prevenire i genocidi. Ci fanno comprendere che ognuno nel suo spazio personale può contribuire a spegnere i segni dell’odio che possono portare il mondo in una cattiva direzione.
Il filosofo Jan Patocka sosteneva che non si doveva mai disgiungere nella nostra esistenza il giorno dalla notte, in quanto l’uomo deve sempre essere consapevole del peggio per agire: se non si conosce la morte e la degradazione non si può vivere la vita. Invece i regimi totalitari rinnegavano la notte e proponevano una società senza dolore, armoniosa e pacificata, dove il male veniva abolito con una operazione artificiosa che portava alla deresponsabilizzazione degli esseri umani.
Noi invece diamo valore ai Giusti non solo perché vogliamo un mondo migliore, inclusivo, aperto al dialogo e al rispetto, che ci faccia apprezzare la bellezza e il miracolo della condizione umana, ma anche perché vogliamo spiegare che se ci dimostriamo immaturi il baratro è sempre dietro l’angolo.
Il giurista polacco aveva intuito la posta in gioco quando aveva sottolineato che non erano gli Stati a essere responsabili dei genocidi, ma i singoli individui, la zona grigia dell’indifferenza. Non esisteva mai una colpa collettiva, ma tutto era sempre conseguente ad una scelta dell’individuo.
E se la responsabilità è individuale e singolare, allora i Giusti rappresentano sempre la salvezza.
Da oggi quindi il grande obiettivo per Gariwo è quello di dare forza alla Convenzione di Lemkin con un “capitolo” in più: la valorizzazione dei Giusti come esempi morali.

NOTE: 
1New York Times, October 20, 1946

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

16 giugno 2021

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