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I Giusti mostrano che la bontà è possibile

di Gabriele Nissim

Gabriele Nissim durante la presentazione al Teatro Franco Parenti

Gabriele Nissim durante la presentazione al Teatro Franco Parenti

Pubblichiamo di seguito l'intervento del presidente di Gariwo Gabriele Nissim durante la presentazione del suo nuovo libro "Il bene possibile" (Utet), lo scorso  21 maggio al Teatro Franco Parenti di Milano

Volevo innanzitutto ringraziare Andrée Ruth Shammah, Massimo Recalcati e Salvatore Natoli, ma anche tutti quelli che con me hanno costruito il lavoro sui Giusti in Italia, poiché questo è il messaggio del libro: fare delle cose insieme, perché nessuno crea le cose da solo. Volevo ringraziare anche la scuola Tito Livio di Milano e mia moglie Santa, che ho preso come riferimento per il mio libro.

Il problema principale che mi sono posto è quello di dare dei riferimenti ai giovani, ma il meccanismo non è tanto quello di proporre dei modelli. Quando racconto le storie dei Giusti, infatti, mi diverto molto: prima racconto alcune storie importanti, la storia di Peshev in Bulgaria, di Havel a Praga, di Etty Hillesum o Armin Wegner, che sono passati alla storia per essersi assunti delle responsabilità, per aver cambiato le cose con le loro gesta. Mi diverto però moltissimo a spiegare soprattutto le contraddizioni di questi personaggi. Giorgio Perlasca ha salvato gli ebrei forse non tanto perché li amava, quanto piuttosto perché amava una ragazza ungherese a Budapest. Armin Wegner ha scritto la lettera di protesta a Hitler, ma quando l’hanno massacrato di botte ha scritto una seconda lettera, una specie di abiura, dicendo che era pronto a tornare insieme a Hitler. Dimitar Peshev in Bulgaria prima di salvare gli ebrei aveva votato le leggi razziali, aveva detto che Hitler era un grande statista, e solo in seguito aveva avuto un rimorso di coscienza.
Insisto su questo punto perché non dobbiamo sacralizzare i Giusti. Credo che ci sia un meccanismo perverso, che esiste anche nello stesso mondo ebraico, che cerca la perfezione, il Giusto politically correct.
Questo atteggiamento però è sbagliato, perché se trasmettiamo l’idea che i Giusti sono esseri uguali a noi, con difetti e contraddizioni, mostriamo che la bontà è possibile, che noi siamo esseri umani fragili, abbiamo una vita limitata e non possiamo essere eroi perfetti. Se trasmettiamo questo messaggio, quindi, dimostriamo che c’è una possibilità di essere Giusti nei momenti chiave.
In questo modo la distanza tra il Giusto e un essere normale si accorcia, e aumenta la responsabilità. Chi non fa delle cose possibili è maggiormente responsabile di chi non fa delle cose impossibili. Chi è indifferente rispetto agli ebrei - uso questo termine per ricordare la parola INDIFFERENZA scolpita all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano - non è chi non ha voluto morire per gli ebrei, ma chi ha voltato la testa dall’altra parte. Ecco allora che se trasmettiamo l’idea di un Giusto normale e non eroico, trasmettiamo anche quella della bontà possibile, che diventa irresponsabilità quando, nella possibilità di fare il bene, non si agisce.

Come scrive anche Recalcati nel suo ultimo libro sul sacrificio, il Giusto non si sacrifica per l’altro, ma prende una posizione perché non vuole sacrificare dentro di sé la sua umanità. Non agisce perché ama il prossimo ed è disposto a morire per il prossimo, ma semplicemente non vuole che entri in crisi l’idea di pluralità che è dentro di sé. È questo il segreto di tante azioni di umanità che si sono verificate: le persone fanno certi gesti perché vogliono stare bene con loro stesse. E questo meccanismo è il contrario del meccanismo del sacrificio.
Himmler, i terroristi, hanno un punto in comune: esortano al sacrificio. L’altruismo predicato altro non è che, in nome di un ideale, il sacrificio del proprio senso di pietas. Massacrare gli ebrei diventa quindi accettabile in nome di un progetto grandioso con cui sacrificare la propria coscienza. Il Giusto ribalta questo schema: se Hitler chiede il sacrificio degli esseri umani, il Giusto non vuole sacrificare la sua umanità.

Il grande problema è che i regimi totalitari si presentano sempre come giardinieri che vogliono togliere le erbe infestanti e rendere più rigoglioso il giardino. Questo meccanismo si ripete sempre, dall’Armenia al Ruanda, alla Shoah, al terrorismo islamico. C’è sempre un punto in comune: l’idea che eliminando gli uomini si crea la felicità su questa terra.
Il male assoluto, però, alla fine non vince. Come diceva Vasilij Grossman dopo aver visto i crimini contro gli ebrei e il Gulag, non riesce a vincere perché non può distruggere quello che è la natura umana. E questa è sempre una grande speranza.

Primo Levi riprende i Promessi Sposi quando parla dei campi di concentramento, per ricordare lo scandalo più grande dei carnefici, quello di riuscire a corrompere le vittime. Dice infatti, citando Manzoni: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto agli altri, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi”.
C’è quindi questo grande problema, come dice ancora Primo Levi, cioè che la grande sfida della vittima era quella di non odiare e non avere uno spirito di vendetta. Una cosa è resistere, altra cosa è diventare simile a un carnefice. Ecco perché nel mio libro cito la storia di Etty Hillesum, che non è stata capita - nemmeno da un grande saggista come Zvetan Todorov. Allora il paradosso è questo: di fronte al male, anche le vittime hanno una responsabilità.

Quando parliamo dei Giusti, di solito intendiamo quelli che hanno agito nelle situazioni estreme, ma in realtà la formulazione della Bibbia sui 36 giusti che tengono in mano le sorti del mondo significa che questi individui sono coloro che agiscono per prevenire il male. Una cosa è infatti agire quando il male si è consumato, e sono poche le scintille di bene, altra cosa è invece prevenire il male quando sta accadendo.
Oggi noi abbiamo bisogno di questi 36 giusti. Per la prima volta la storia sta andando in una direzione negativa, dopo la fine delle dittature. Vediamo nascere non tanto ideologie totalitarie come quelle degli anni 30, ma una cultura che mette prima il proprio individualismo (ne è un esempio il motto di Trump, America First). Ho imparato da Zygmunt Bauman che per capire il mondo bisogna osservare i comportamenti particolari delle persone; guardiamo quindi i social network, terreno fertile per una cultura del nemico, dell’odio, del disprezzo. Nei confronti di tutto questo dobbiamo vigilare e fare ciò che ripete sempre Salvatore Natoli: anticipare il bene con comportamenti in antitesi a quelli che vengono proposti nella società.
Non dobbiamo solo quello di indignarci nei confronti di chi fa cose negative; quando i valori vengono messi in discussione e i riferimenti cadono, devi educare chi si sta comportando male. Intervenire quindi non significa solo difendere le vittime o portare avanti una battaglia per la società plurale, ma anche agire rispetto a chi sta portando la storia in una direzione sbagliata.

Per questo nel libro cito due storie esemplari. La prima è quella di Dimitar Peshev, vicepresidente del parlamento bulgaro che ha salvato gli ebrei del suo Paese, ma in questo caso l’eroe non è più Peshev, è il suo amico Jako Baruch, che va a casa sua e lo informa di quello che sta per succedere agli ebrei, fino a quando Peshev va in parlamento e interrompe la macchina della deportazione. Questo ci insegna che oggi, di fronte a meccanismi che vediamo nella nostra società dobbiamo essere come Jako Baruch, ed educare innanzitutto chi nega la cultura e parla di apocalisse.
Una simile impostazione era quella di Etty Hillesum, ebrea olandese. Interrogata dalle SS, si pone il problema di come educare le guardie che si trova di fronte. “Come mai è arrivato a queste posizioni? - si chiede Etty - Provo della pietà per lui, perché se ragiona in questo modo, se urla, vuol dire che è una persona malata”.
Quelle di Jako Baruch ed Etty Hillesum erano situazioni estreme, ma di fronte alle sfide del nostro tempo dobbiamo educare anche chi prende una strada sbagliata.

Non sappiamo dove andrà il treno della storia, ma il nostro compito è quello di assumerci una responsabilità. Cito spesso Shakespeare per dire che tutti noi siamo chiamati a occuparci del tempo in cui viviamo. Ma amo anche citare Milena Jesenska, la donna amata da Kafka, che rimproverava agli intellettuali praghesi di essere narcisisti e di farsi applaudire nei caffè invece di occuparsi del mondo che stava andando in una cattiva direzione. Io credo che oggi tutti siamo chiamati ad assumerci questa responsabilità, ed è questo il senso del discorso dei Giusti che Gariwo ha fatto in tanti anni, trovando ostacoli ma anche molti amici.

Il mio sogno è che questo discorso diventi un faro della politica italiana. Vorrei che il nostro Paese aprisse tanti Giardini dei Giusti come abbiamo fatto a Varsavia, a Tunisi, in Giordania. L’Italia è il Paese del bello, mi piacerebbe anche che fosse il Paese della diplomazia del bene.  

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

28 maggio 2018

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