Nel contesto del secondo conflitto mondiale, in particolare nella sua dimensione di violenza senza precedenti contro i civili, la questione del “dopo” è sempre stata centrale. Se, sposando la tesi di Christopher Browning in Uomini comuni, “l’Olocausto fu possibile perché singoli esseri umani uccisero altri esseri umani in gran numero e per un lungo periodo di tempo”, cosa farne di quei singoli esseri umani una volta sconfitti militarmente? Quando erano vivi, la risposta a questa domanda è stata storicamente variegata: processarli a Norimberga o ucciderli a fucilate nelle campagne modenesi, impiccarli in una prigione di Ramla o favorire una loro carriera nella NASA, impiegarli nel Ministero della Giustizia della neonata Repubblica Federale di Germania o farli morire di fame e fatica in campi sovietici. E se invece erano morti?
Un corpo morto non smette di esistere e tantomeno di occupare uno spazio, fisico o metafisico che sia. I corpi dei soldati dell’Asse, resi ormai innocui cadaveri per l’incolumità di avversari e civili, hanno dato vita a nuovi scontri, attriti, diplomazie; hanno contribuito a formare identità, a influenzare il presente. E ormai troppo ingombranti per essere rilegati nelle pagine dei manuali di storia militare, sono diventati colonna portante di studiosi e giornalisti che si sono occupati di politiche della memoria. Questo “cambio di campo”, questo passare dall’essere un oggetto di studio prettamente storiografico a un elemento di un ambiente così variegato e multidisciplinare come i Memory Studies (campo nel quale troviamo sociologi, storici, antropologi, filosofi, digital humanists…) non solo ha cambiato l’approccio a quei corpi una volta assassini e torturatori di innocenti, ma ha anche e soprattutto conferito loro un significato totalmente nuovo: qualcosa di non (letteralmente) morto e sepolto, ma di attuale e dinamico, come Jeffrey Olick definisce il “ricordare” in un ambiente sociale.
Questi morti scomodi e ingombranti, per i quali la terra da mettere sopra non sembra mai essere abbastanza, non sono quindi fermi. Il loro trascendere la guerra nel corso della seconda parte del secolo scorso è reso evidente da svariati studi e pubblicazioni. Ma nella cultura popolare, il caso più famoso sarà sempre e solo Bitburg. Piccolo centro della Germania occidentale, Bitburg è famoso per un birrificio e un cimitero. Il birrificio è il Bitburger, il cimitero il Kriegsgräberstätte Bitburg-Kolmeshöhe. È un cimitero militare, dove riposano un centinaio di soldati tedeschi che combatterono la Prima guerra mondiale e quasi 2000 caduti nel secondo conflitto. Tra questi quasi 2000 corpi, 49 facevano parte delle Waffen-SS. Non c’è da stupirsene: “Dove avremmo dovuto seppellirli altrimenti?” disse il sindaco di Bitburg dopo che il “suo” cimitero fu al centro di un incidente diplomatico tra il Cancelliere della Repubblica Federale di Germania Helmut Kohl e il Presidente degli Stati Uniti d’America Ronald Reagan.
Era stato proprio Kohl a proporre a Reagan Bitburg come sede di un incontro tra i due capi di Stato, con l’obiettivo di rafforzare e mostrare i rapporti tra le due nazioni. Dopo la riuscita dello storico incontro con Mitterand sul luogo della battaglia di Verdun, famoso per la foto dove i due si stringono la mano, Kohl voleva proseguire questa suggestiva politica anche con un altro Paese un tempo nemico e oggi importante alleato, gli Stati Uniti appunto. L’occasione venne individuata nell’8 maggio 1985, il quarantesimo anniversario del V-E Day, o “Victory in Europe Day”, o la fine della Seconda guerra mondiale in Europa.
La scelta di Verdun non ha bisogno di particolari spiegazioni, però Bitburg va contestualizzato: se, come spiega Deborah E. Lipstadt, in Kohl possiamo vedere sia un tentativo di normalizzazione del passato tedesco sia una volontà di dimostrare come la sua Germania sia diversa da quella Germania (dipende che opinione abbiamo delle sue politiche e della sua figura), da parte statunitense si tratta semplicemente di scelte sbagliate, una dietro l’altra. Fu un errore da parte di Reagan accettare la proposta di Kohl senza consultarsi con il suo staff, fu un errore credere che a Bitburg riposassero anche dei soldati statunitensi (come provò a raccontare inizialmente la Casa Bianca), fu un errore non accertarsi di chi fosse sepolto in quel cimitero. Perché in quel cimitero - che Reagan preferì a un campo di concentramento in quanto volenteroso di “focalizzarsi sul futuro” - c’erano anche le 49 SS che abbiamo citato.
Nonostante la copertura della stampa americana, gli appelli di personaggi dello spettacolo, esercito, comunità ebraica e senatori (tra i quali una decina di repubblicani), Bitburg si fece. Si fece mantenendo il profilo più basso possibile, si fece inserendo nel programma una visita al campo di concentramento di Bergen-Belsen (per “compensare”?), si fece mentre fuori gli ebrei americani mostravano cartelli con frasi come: “We came from Michigan to remind you: they killed my family”. Si fece con più di duemila poliziotti in assetto antisommossa nei paraggi, ma si fece. Si fece perché, come spiegò Reagan parlando dei soldati di Bitburg, la maggior parte dei giovani sepolti lì “erano delle vittime, nonostante indossassero la divisa tedesca. Erano vittime proprio come gli ebrei dei campi di concentramento”. Oltre alle parole che ci ha lasciato Kundera sulla vicinanza degli opposti, dove “quando il polo Nord si avvicinerà al polo Sud fin quasi a toccarlo, il globo terrestre scomparirà e l’uomo si troverà in un vuoto che gli farà girare la testa e lo farà cedere alla seduzione di cadere” (e sembra proprio di cadere quando ebrei e soldati tedeschi vengono equiparati), viene da pensare anche a cosa disse di quell’incontro Eugenej Fisher:
“Bitburg ha rappresentato un caso classico in questo senso: là il capo cristiano degli alleati vittoriosi si è incontrato con il capo cristiano dei tedeschi sconfitti in un cimitero nazista per «perdonarsi» reciprocamente per quel che i cristiani avevano fatto e avevano permesso che si facesse agli ebrei da parte dei nazisti. Gli ebrei che sollevarono qualche obiezione vennero fatti tacere da qualche altro cristiano con l'etichetta di «rancorosi» e addirittura «vendicatori.» Triste ripetizione degli antichi stereotipi che avevano contribuito a creare il problema originale.”
Bitburg però è a sua volta passato, ormai incatenato nelle dinamiche del mondo del 1985. I morti, invece, continuano ad essere dinamici, attivi e presenti. E se con Bitburg abbiamo assistito al ruolo della memoria nei processi di pacificazione (Reagan dirà proprio che la sua visita aveva riaperto vecchie ferite e di questo lui se ne dispiaceva molto, dato che “this should be a time of healing”) tra i Paesi del Patto Atlantico, i tempi più recenti ci dimostrano come la memoria dei caduti dell’Asse non solo possa essere vista come un futuro al quale guardare più che un passato da cancellare, ma come possa essere usata anche come arma all’interno di tensioni diplomatiche contemporanee. I casi che andremo a trattare sono due e riguardano la memoria dei Waffen-SS estoni e quella dei volontari taiwanesi che si unirono all’esercito imperiale giapponese durante la Seconda guerra mondiale.
“Agli estoni che tra il 1940 ed il 1945 combatterono contro il bolscevismo e per la restaurazione dell’indipendenza dell’Estonia”, si legge su un blocco di granito raffigurante un soldato con lo Stahlhelm, il tipico elmetto tedesco, e in mano un MP 40. A contorno dettagli (come una croce e un’aquila) che rimandano all’immaginario nazionalsocialista. È un omaggio alla 20. Waffen-Grenadier-Division der SS, composta da volontari estoni, e più in generale a tutti quegli estoni che collaborarono con la Germania nazista. Per dirla con le parole di Tiit Madisson, famoso dissidente quando c’era l’Unione Sovietica e al tempo dell’inaugurazione del monumento sindaco di Lihula, il piccolo paesino dove è stato installato il monumento nel 2004, è dedicato alla memoria di chi “tra i due mali, scelsero il male minore”. Per il Simon Wiesenthal Center, invece, il monumento glorifica “those who were willing to sacrifice their lives to help achieve the victory of Nazi Germany and the Third Reich in World War II”.
Il “monumento di Lihula”, come è conosciuto nonostante adesso si trovi in un museo e non più nel cimitero della cittadina, oltre che nel complicato revanscismo dell’estrema destra in Estonia, trova il suo posto in un contesto generale se inserito nei difficili rapporti tra Estonia e Russia. Sono i membri dell’EKRE, il Partito Popolare Conservatore Estone conosciuto per le sue posizioni fortemente anti-russe, ad aver “adottato” il monumento e a lottare affinché questo venga riportato a Lihula (l’ultima volta ci hanno provato nel settembre 2022, senza successo). Ed è l’EKRE, insieme all’Eesti Legioni Sõprade (letteralmente “gli amici della Legione estone”, ovvero i collaborazionisti estoni), che ha creato una replica del monumento da riposizionare a Lihula; questo ha portato ad una nota ufficiale di condanna da parte dell’ambasciata russa in Estonia nel 2018.
Ci spostiamo di più di 8mila chilometri e la storia non cambia. Il piccolo villaggio estone di Lihula diventa la metropoli taiwanese di Kaohsiung, le Waffen-SS diventano l’esercito imperiale giapponese, il bersaglio di questa guerra di memoria passa dalla Russia alla Repubblica Popolare Cinese; i volontari nazionali che combatterono la crociata dell’anti-comunismo rimangono i volontari nazionali che combatterono la crociata dell’anti-comunismo. È questo il leitmotiv dietro l’inaugurazione, a fine estate, di un memoriale a Kaohsiung per le decine di migliaia di volontari taiwanesi che si arruolarono nelle fila degli uomini di Hirohito.
A riportare la notizia sono gli spazi di TaiwanPlus News, la televisione di Stato taiwanese, che parla di una storia dimenticata a causa del suo raccontare una parte “sconfitta” della storia; ma è proprio con questo memoriale che le autorità taiwanesi puntano a smuovere la situazione. Per la maggior parte impiegati in ruoli relativi alla meccanica dell’aviazione, durante l’inaugurazione erano presenti anche alcuni dei volontari che prestarono servizio con quelli che al tempo erano i colonizzatori dell’isola. Come nota lo storico e analista geopolitico Francis Pike, il senso del memoriale è proprio quello di suggerire una positività verso il passato giapponese ed il ruolo chiave che l’esperienza coloniale gioca nell’identità di Taiwan; non è un caso, tra l’altro, che sempre a Kaohsiung, solo un anno prima fosse stata inaugurata una statua all’ex Primo Ministro nipponico Shinzo Abe, rimasto ucciso poco tempo prima in un attentato.
Come abbiamo visto, anche quando ferito mortalmente il soldato del secondo conflitto mondiale non smette mai di essere il simbolo di un qualcosa. E, soprattutto quando ha rappresentato le potenze dell’Asse, la sua presenza nello spazio pubblico e nell’identità collettiva rimane fortissima, in continua evoluzione e movimento, arrivando perfino a dimostrarsi un’arma tagliente per tensioni geopolitiche contemporanee. È un passato che non è morto e forse, in fondo, non è neppure davvero passato.

Analisi di Alessandro Colombini, storico