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I russi e il nazismo

di Francesco M. Cataluccio e Gabriele Nissim

Quando la propaganda russa, ma anche la maggioranza dei russi, usano il termine “nazismo” non intendono la stessa cosa che si intende in Occidente. “Nazismo” per loro non ha nulla a che vedere con l’ideologia nazionalsocialista e antisemita. “Nazisti” sono coloro che hanno attaccato a tradimento l’Unione Sovietica e sono costati ad essa milioni di morti per ricacciarli indietro e vincerli. In seguito, come vedremo, il termine è stato usato spesso come sinonimo di “nemico dei russi” o, addirittura, portatore di idee e comportamenti non in in linea con il “vero” comunismo. Ma, in generale, il nazismo, evocato così facilmente, e a sproposito, come termine offensivo, è un fenomeno che continua a costituire per i russi un problema umano e storico complicato. Perché, inizialmente, ci fu un periodo di convivenza tra il regime nazista e quello stalinista, sfociato in una complicità imperialista, nell’ostilità verso l’Occidente e le democrazie, e poi milioni di morti, distruzioni e infinite crudeltà subite.

Sulla vicenda storica, e su un’approfondita comprensione di ciò che accadde, pesano le ambigue relazioni intercorse tra nazismo e stalinismo negli anni trenta. E anche tra i due dittatori, come ha mostrato bene il libro Alan Bullock, Hitler e Stalin vite parallele (1991; Garzanti 1995) esaminando e comparando il Partito Nazionalsocialista e il PCUS, gli stati di polizia tedesco e sovietico, le scelte dei due dittatori, prima complici e poi avversari, non trascurando l'indagine psicologica sul carattere contorto dei due personaggi.

Nella propaganda comunista il nazismo, come del resto il fascismo, era definito come l’espressione più violenta della dittatura di classe della borghesia sul proletariato e sulle masse popolari e di conseguenza nella narrazione pubblica dell’Unione sovietica le vittime principali del sistema hitleriano erano prima di tutto i gruppi sociali che venivano sfruttati dal capitalismo. Quando poi la Germania invase la Russia, il nazismo divenne espressione del tentativo dell’imperialismo di porre fine alle conquiste del socialismo per ripristinare nuovamente il dominio delle classi capitaliste. Questa interpretazione, dopo la sconfitta di Hitler e la creazione delle democrazie popolari e dell’impero sovietico, porterà i dirigenti russi a considerare espressione del fascismo e del nazismo (quasi sempre usati come sinonimi) ogni forma di resistenza e di dissenso all’interno del sistema comunista. Fino ad allora, il regime nazista e quello sovietico intrattennero proficui rapporti che sfociarono nel Patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939), che di fatto fu un accordo di aggressione per spartirsi i paesi confinanti. Le sue clausole segrete prevedevano infatti la divisione della Polonia e che Finlandia, Estonia, Lettonia e gran parte della Lituania sarebbero state assegnate all’area di influenza sovietica. Come ha sancito la risoluzione del Parlamento Europeo del 19 settembre 2019, sull’Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa: “il patto Molotov-Ribbentrop e i suoi protocolli segreti, dividendo l’Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse (...) ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale”.

Il primo settembre 1939 i tedeschi invasero la Polonia e il 17 settembre, l’Unione sovietica ne occupò l’altra metà. Hitler e Stalin affermarono -proprio come Putin fa oggi a proposito dell’Ucraina- che la Polonia era una nazione falsa, priva di “autenticità storica”. A Brest Litovsk, dove si incontrarono le truppe tedesche e quelle sovietiche, il 22 settembre 1939, fu inscenata persino una sfilata comune con tanto di passo dell’oca, e un brindisi (alla “rapida sconfitta dell’Inghilterra capitalista”) tra il generale russo Kombrig Semyon Krivoshein e quello tedesco Heinz Guderian. Il comandante delle forze polacche che difesero Brest-Litovsk dai tedeschi, il generale Konstanty Plisowski, venne consegnato all’NKVD e inviato nel campo di prigionia sovietico a Starobielsk (dove venne successivamente giustiziato nel massacro di Katyn). Altre “parate della vittoria”, come le chiamarono i tedeschi, si svolsero a Pinsk, Grodno e Leopoli. La collaborazione funzionò anche con scambi di molti prigionieri. Emblematica è la storia dell'imprenditore antinazista berlinese Max Zucker che, dopo la presa del potere di Hitler, decise di raggiungere il figlio, che già viveva in Unione Sovietica. Arrestato dall’NKVD nel 1937 con l’accusa di spionaggio, fu accompagnato al confine del Reich e là preso in consegna dagli ufficiali della Gestapo. Come ebreo e originario della Polonia venne inviato al Ghetto di Varsavia, ma ancora prima di raggiungerlo morì a causa delle percosse ricevute dalle SS. Oppure la vicenda, più nota, della giornalista comunista tedesca Margarete Buber (1901-1989), moglie di Heinz Neumann (1902-1939), membro del Politbüro del KPD e parlamentare del Reichstag. La coppia, nel 1935 si stabilì a Mosca, nel famoso Hotel Lux, fuggendo dalla Germania nazista. Due anni più tardi Heinz Neumann venne arrestato dall’NKVD, condannato a morte e giustiziato. Come moglie di un "elemento socialmente pericoloso", nel 1938 Margarete Buber-Neumann fu condannata a dieci anni di detenzione nel gulag di Karaganda (Kazakistan). Nel 1940 fu riconsegnata alla Germania dove, essendo comunista, fu internata nel lager di Ravensbrück, dove conobbe la giornalista ceca e membra della resistenza Milena Jesenská, amica di Kafka (cfr. Prigioniera di Stalin e Hitler, 1949; Il Mulino, 1994). Margarete Buber-Neumann ha avuto così modo di paragonare i due sistemi concentrazionari.

Lo scrittore polacco Gustaw Herling (1919-2000), rinchiuso nel gulag e tra i primi a parlarne nel dopoguerra (cfr. Un mondo a parte, 1956; Mondadori 2017) sostenne che i “campi di lavoro” so­vietici furono una "macchina di annientamento" pari ai lager nazisti: “Ora che ho letto qualche testimonianza sui campi di concentramento tedeschi mi rendo conto che un trasferimento a Kolyma, nei campi di lavoro sovietici, era l'equivalente della scelta delle camere a gas dei tedeschi. L'analogia di­viene ancora più precisa quando si considera che, come per le camere a a gas, i prigionieri per Kolyma erano presi tra quelli in peggior stato di salute; in Russia tuttavia non venivano inviati a una morte immediata, ma a un la­voro durissimo che richiedeva una forza e una resistenza fisica eccezio­nali” (G. Herling, Diario scritto di notte, Feltrinelli, 1992, p.123). Herling ricordava spesso il finale del bel saggio autobiografico del poeta russo Iosif Brodskij, In una stanza e mezzo (1986; Fuga da Bisanzio, Adelphi, 1987, p. 243), dove il figlio parla del passato, con il padre, ufficiale di marina degradato perché ebreo: “Mi sorpresi a domandargli quali campi di concentramento, secondo lui, fossero peggiori: quelli dei nazisti o i nostri. ‘Per conto mio,’ fu la risposta ‘mi farei bruciare sul rogo, subito, piuttosto che morire di morte lenta e scoprire che senso ha’.” Tra i lager nazisti (diventati poi macchine di sterminio) e i gulag sovietici erano quindi più le somiglianze che le differenze. Oltretutto la maggior parte dei prigionieri politici nell’arcipelago dei gulag erano bolscevichi, comunisti, individui che avevano combattuto per la causa socialista. Il meccanismo staliniano era una sorta di serpe a spirale che procedendo nelle varie istituzioni, attraverso diverse generazioni, purgava, deportava, imprigionava, vecchi rivoluzionari comunisti, funzionari, dirigenti, che acquisivano troppo potere, oppure gente comune, persone qualsiasi che inconsapevolmente non agivano con ortodossia alla linea politica di Stalin.

Nel giugno 1940, i paesi baltici furono invasi dall’Armata rossa e incorporati, dopo dei referendum farsa, nell’URSS (situazione che è durata fino all’agosto 1991, quando i tre paesi hanno riottenuto la propria indipendenza). Mentre i tedeschi si dedicarono soprattutto alla persecuzione e all’uccisione degli ebrei, nei paesi occupati, i sovietici perpetrarono massacri e deportazioni di migliaia di persone. Per questo, quando nell’estate del 1941, i tedeschi invasero l’Est Europa vennero inizialmente accolti come liberatori e non mancarono i collaborazionisti. Ma rapidamente le popolazioni capirono di essere cadute dalla padella in una brace ancora più feroce.

Stalin fino all’ultimo rimase convinto della validità dell’alleanza nazista-sovietica. Contro tutte le evidenze. Nel marzo del 1941 la spia sovietica a Tokyo Richard Sorge fece pervenire a Mosca la copia di un telegramma del ministro degli esteri del Reich, Ribbentrop, all’ambasciatore tedesco presso il Giappone, Ott, in cui si parlava di un inevitabile attacco tedesco all'Urss per la metà di giugno. Due mesi dopo riuscì a essere più preciso, indicando che ben 190 divisioni tedesche erano ammassate alle frontiere orientali e che l’invasione sarebbe senza dubbio scattata il 22 giugno (come infatti avvenne). Ma Stalin non gli credette e fece rispondere alla sua spia: “Dubitiamo della veridicità delle vostre informazioni”.

Come ha mostrato lo storico americano Timothy Snyder, in Ucraina, e nei paesi baltici, sovietici e nazisti, in tempi successivi, compirono massacri simili e indiscriminati: “ Stalin e Hitler si sono attribuiti a vicenda i crimini e hanno ucciso 14 milioni di persone tra il Baltico e il Mar nero” (cfr., Terre di sangue, 2010; Rizzoli 2011). Lo stesso Snyder, polemizzando con il filosofo tedesco Jürgen Habermas e la sua posizione “tiepida” verso l’invasione russa dell’Ucraina, ha scritto: “Hitler dipinse gli ucraini come un popolo coloniale, e cercò di spostarli, affamarli e ridurli in schiavitù. Intendeva utilizzare le forniture alimentari ucraine per fare della Germania un impero mondiale autarchico. Vladimir Putin ha sollevato temi hitleriani per giustificare la sua guerra di distruzione: gli ucraini non hanno coscienza storica, non hanno una propria nazionalità, non hanno un’élite. Come Hitler, e come Stalin, cerca di usare i prodotti alimentari ucraini come arma” (“Frankfurter Allgemeine”, 27/VI/2022).

Vasilij Grossman, nel suo romanzo Vita e destino (1980; Adelphi 1984), fa incontrare in un lager tedesco il prigioniero Michail Sidorovič Mostovskoj con l’ufficiale delle SS Liss, un tedesco di Riga che conosceva il russo. Il loro colloquio ricorda la conversazione tra Ivan Karamazov e il diavolo. Il tedesco fa un lungo monologo: “Voi credete di odiarci, ma è solo un’impressione: odiando noi, odiate voi stessi [...] E noi, attaccando voi, in realtà colpiamo noi stessi. [...] È terribile, è come sognare il suicidio. Può finire in tragedia... E se dovessimo vincere... Voi non ci sarete più, e noi, i vincitori, ci ritroveremo soli contro un mondo che non conosciamo e che ci odia. [...] Voi avete ucciso milioni di persone, e gli unici ad aver capito che andava fatto siamo stati noi tedeschi. [...] Chi guarda noi con orrore, prova lo stesso sentimento verso di voi. [...] Stalin ci ha insegnato molto. Il socialismo in un solo paese esige che si elimini la libertà di seminare e di vendere, e Stalin non ha esitato a far fuori milioni di contadini. Hitler s’è reso conto che il socialismo nazionalista tedesco aveva un nemico: l’ebraismo. E ha deciso di eliminare milioni di ebrei...” Il russo rigetta l’idea che i due sistemi siano uno lo specchio dell’altro, ma torna in cella con molti dubbi (ed era comunque una novità che uno scrittore sovietico guardasse le cose, allora, da questa prospettiva).

Durante la guerra, Grossman ebbe anche modo di raccontare come vennero liquidati gli ebrei. Fu tra i primi soldati a entrare nel campo di sterminio di Treblinka e descrisse quello che vide in un racconto memorabile: L’inferno di Treblinka, 1944; Adelphi 2010). Sempre nel 1944, su “Stella Rossa”, comparve una sua corrispondenza intitolata: L’assassinio degli ebrei di Berdičev. Fino alla Prima guerra mondiale, la sua città natale, Berdičev, era un importante shtetl ucraino (circa 80% della popolazione era ebrea). Lo scrittore racconta l’iniziale incredulità degli ebrei e dei russi per le sadiche vessazioni e torture, messe in atto dai tedeschi: “La gente non riusciva a credere che le umiliazioni e gli omicidi di quei primi giorni fossero compiuti dietro un ordine preciso; cercò dunque di presentare le proprie rimostranze alle autorità tedesche, sollecitandone l’intervento contro ogni eccesso ingiustificato. Il fatto era che migliaia di persone non potevano tanto facilmente rassegnarsi all’idea spaventosa che il governo di Hitler favorisse e approvasse tutti quegli atti di violenza. La loro ragione si ribellava all’inumana verità”. Quella corrispondenza venne da lui poi inserita nel volume collettivo Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945, a cura di Vasilij Grossman e Il'ja Ėrenburg (1994; Mondadori 1999). Era ancora in corso la lotta contro l'occupante tedesco, quando i due scrittori vennero incaricati dal Comitato Antifascista Ebraico di raccogliere tutte le testimonianze disponibili sul genocidio degli ebrei sovietici a opera dei nazisti. Dopo il 1945, tuttavia, il Comitato entrò nel mirino di Stalin e dell’NKVD. Le bozze del libro, già vistate e purgate dalla censura, vennero sequestrate e distrutte e così pure la prefazione di Albert Einstein, nella quale invocava per la prima volta il diritto di ingerenza negli affari interni di un paese per motivi umanitari. La figlia di Ehrenburg, Irina, riuscì però a salvarne una copia che verrà pubblicata per la prima volta, in edizione non integrale, solo nel 1980 a Gerusalemme. Il libro nero è una grande opera di documentazione storica che doveva ricostruire le tappe della soluzione finale in Russia, ma proprio in quegli anni iniziò in Unione Sovietica una campagna antisionista contro gli ebrei, accusati di doppia identità e di essere provocatori capitalisti che minavano il regime sovietico. Fu allora che i medici ebrei furono accusati di complottare contro la vita del dittatore sovietico e solo la sua morte nel 1953 impedì che si scatenasse una terribile campagna contro gli ebrei.

In tutti i processi staliniani l’epiteto “fascista” designa il cosiddetto oppositore alla linea del partito. Venne così messa in secondo piano la guerra genocidaria di Hitler verso gli ebrei e il fine politico della guerra che doveva portare all’eliminazione degli ebrei in ogni parte del mondo. La cultura sovietica non poteva approvare una storia ebraica della guerra. Così, nella memoria storica sovietica, ci fu una equiparazione tra le vittime ebraiche e le vittime dell’aggressione nazista. Non è un caso che nei memoriali storici come quello a Babij Jair, in Ucraina (cfr. Anatolij Kuznecov, Babij Jar, 1970; Adelphi 2019), dove furono massacrati in un solo giorno 33.771 ebrei, la parola ebreo era totalmente rimossa e si ricordavano solo le vittime sovietiche del nazismo: “Non c’è un monumento / A Babij Jar / Il burrone ripido / È come una lapide / Ho paura / Oggi mi sento vecchio come / Il popolo ebreo / Ora mi sento ebreo...”, scrisse il poeta Evgenij Evtušenko nel celebre poema che dà il titolo alla Tredicesima Sinfonia (1962) di Dmitrij Šostakovič. Oggi la situazione è cambiata: c’è voluta la fine dell’Unione Sovietica per ristabilire la verità e ridare la giusta memoria a quei morti. Purtroppo il sito di Babij Jar è stato bombardato dai russi (inavvertitamente?) nei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina.

Nei confronti dei cittadini ebrei, delle loro manifestazioni di culto e soprattutto verso coloro che, a partire dalla fine degli anni sessanta, chiedevano di poter emigrare in Israele, il regime sovietico fu ostile. Ad esempio, il critico d’arte Konstantin Akinsha (1960) racconta delle sua vita nella Kiev sovietica: “Da piccolo avevo un legame particolare con le sinagoghe della città per un motivo diverso da quello che uno si aspetterebbe. Sotto il regime sovietico praticamente ogni impronta ebraica era stata eliminata, aggiungendosi alla distruzione nazista. Quando avevo cinque anni ricordo che ogni settimana andavo in sinagoga Brodskij con mio padre, perché era stata trasformata in un teatro delle marionette. Non era un caso isolato, anzi. Quasi la totalità delle sinagoghe rimaste in piedi dopo il secondo conflitto mondiale, sotto il regime sovietico furono destinate ad altri usi. Diverse, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, hanno ripreso vita. Ci sono stati grandi investimenti per restituirle alla comunità. Penso ad esempio a Žytomyr (Żytomierz), dove alcuni anni fa l’unica sinagoga rimasta in piedi è stata completamente ristrutturata, integrando la facciata in un nuovo edificio, e riaperta al culto. L’unica rimasta di oltre quaranta in una cittadina con un passato ebraico risalente alla fine del Quattrocento e in cui fino alla seconda guerra mondiale vivevano oltre 30mila ebrei. La Comunità fu più che dimezzata dalla Shoah, ma a Žytomyr si ricostruì una vita ebraica già nell’immediato dopoguerra. Migliaia di persone partecipavano alle festività ebraiche e l’yiddish tornò a sentirsi per le strade. Ben presto però le autorità sovietiche posero fine a questa rinascita e nel 1963 la sinagoga fu chiusa, con gli ebrei costretti a pregare nelle proprie abitazioni private. Dopo decenni la sinagoga è stata ripristinata, ma ora non sappiamo con la guerra quale sarà il suo destino” ( “Pagine Ebraiche”, 6/IV/2022).

L’epiteto negativo di “sionista”, prima ancora di diventare un termine usato dai paesi arabi per delegittimare l’esistenza di Israele, era una parola malata che riproponeva il linguaggio antisemita. Così, durante il processo a Praga contro Rudolf Slánský e altri dirigenti comunisti, nel 1952, gli imputati ebrei, come Arthur London, considerati non in linea con l’orizzonte politico sovietico, furono accusati di essere al contempo dei fascisti infiltrati e dei sionisti nemici dei russi (cfr. A. London, La confessione, 1968; Garzanti 1969). La situazione per tutti gli ebrei del campo comunista peggiorò con la sconfitta araba nella Guerra dei sei giorni. Sulla stampa, e non solo su quella, si scatenò una violenta campagna antisemita. Il giovane poeta Josif Brodskij, intervistato a Leningrado da Lynette Labinger, nel luglio del 1970, dichiarò ironicamente: “L’antisemitismo è un elemento costante, ma il governo ne fa uso solo ogni tanto -come adesso- quindi è peggio. Non ha grosse ripercussioni su di me: i miei problemi nascono dalla mia posizione personale, non dall’essere ebreo. Mai così felice di essere ebreo quanto durante la Guerra dei sei giorni!”. In questo clima fino al 1989 non ci poteva essere in Unione Sovietica una riflessione seria sulla Shoah e sul riconoscimento delle vittime ebraiche. Parlare dell’Olocausto in termini chiari avrebbe significato discutere non solo del collaborazionismo che aveva portato alla soluzione finale, ma anche dare un valore positivo all’identità ebraica che invece nel comunismo era vista con sospetto.

La definizione che il mondo occidentale e quello ebraico danno del regime di Hitler è quella di un sistema politico totalitario il cui scopo principale era l’eliminazione degli ebrei dalla faccia della terra e la creazione di un dominio etnico della “razza ariana” sui popoli e le etnie considerate inferiori. L’avvocato Raphael Lemkin, che conierà il termine “genocidio”, durante la seconda guerra mondiale si spinse, in modo originale, a dichiarare che a Hitler non importava tanto la vittoria militare, quanto il cambiamento demografico delle popolazioni dell’Europa centro orientale. Inoltre, come osservò Hannah Arendt, nell’opera purtroppo rimasta incompiuta La Vita della mente (1978), il nazismo non era solo un sistema che aboliva la democrazia politica, ma si proponeva di plasmare e di controllare la vita individuale delle persone creando un nuovo tipo di uomo. Per questo il nazismo non era solo un regime autoritario a antidemocratico, ma un sistema totalitario che voleva modificare la stessa natura umana creando degli uomini fotocopia. Il vuoto di riflessione non riguardò solo gli ebrei, ma anche la lettura politica del totalitarismo nazista. In Russia e nei paesi della cortina di ferro non solo non si ragionò sugli effetti dello smantellamento della democrazia politica da parte del fascismo, ma sugli elementi comuni tra il totalitarismo nazista e comunista. Parlare dell’attacco alla pluralità umana, dei diritti umani, del controllo sulla vita delle persone, della divisione manichea tra amici e nemici alla base del meccanismo della persecuzione, avrebbe significato mettere in discussione i gulag, i campi di rieducazione, l’uso massiccio e improprio dei manicomi, il monopolio politico del Partito nella vita pubblica. Come aveva ben compreso Vassilij Grossman non ci poteva essere una vera discussione sul nazismo in un paese che riproduceva, sia pure in forme diverse, la stessa concezione totalitaria della politica. Così i termini “nazista” e “fascista”, utilizzati ad arte per bollare gli oppositori del sistema sovietico, sono stati svuotati dei loro veri contenuti. Stanno a significare soltanto “i nemici della Russia”.

Il 24 febbraio la Russia ha invaso l’Ucraina sostenendo di doverla liberare dai nazisti che minacciavano la sua sicurezza e difendere i russofoni nel Donbass. Come ha scritto Antonio Maria Costa (La guerra di Putin, Gribaudo, 2022), la propaganda russa ha convinto i russi che in Ucraina ci sono i nazisti: “Non c’è parola più turpe nel dizionario russo, non c’è vocabolo più capace di stimolare le reazioni più ostili, più cupe, più orribili che quello riferito da Putin: il nazismo”. Per Putin, che ha legittimato agli occhi della sua opinione pubblica la guerra all’Ucraina come se fosse una operazione militare contro dei nuovi seguaci di Hitler che la minacciano, il termine “nazista riprende i vecchi concetti utilizzati durante la guerra fredda. Diventa nazista chi, come la nazione ucraina, si distacca da Mosca e mette in discussione il sistema politico autoritario e dittatoriale di Putin. L’autocrazia russa teme infatti che l’esempio di Kyiv -per i legami umani, storici e culturali tra i due paesi- possa incrinare il potere in Russia e dare forza agli oppositori interni, come il gruppo “Russia del futuro” del blogger di origini ucraine Aleksej Naval'nyj, che chiede trasparenza e pluralismo. Il timore che un giorno possa riproporsi a Mosca una situazione come la ribellione della piazza di Maidan del 2014, quando la società ucraina chiese la democrazia e l’entrata nell'Unione europea, ha portato Putin a presentare i dirigenti ucraini come dei pericolosi neonazisti. Lo stesso concetto è stato poi utilizzato per riaffermare il diritto della Russia a rivendicare un controllo geopolitico sugli stati confinanti. Putin, da questo punto di vista, è stato chiaro. Ha dichiarato che la fine dell’impero sovietico dopo l’89 è stata la più grande catastrofe politica; quindi vorrebbe riproporre, per l’Ucraina e i paesi limitrofi come quelli baltici, gli stessi principi della sovranità limitata di matrice brezneviana che portarono nel 1956 e poi nel 1968 all’invasione dell’Ungheria e della Cecoslovacchia. Così chi non accetta il vecchio impero e rivendica il suo diritto alla sovranità politica e militare viene presentato come un potenziale nazista che mette in discussione gli interessi strategici della Russia. Nella narrazione pubblica, Putin cerca di fare credere che la sovranità dei paesi confinanti possa portare a una ripetizione della guerra a tradimento di Hitler contro la Russia nel 1941. Per questo motivo ha più volte dichiarato che dall’Ucraina e dalle basi Nato si stava preparando un attacco politico, militare e persino nucleare nei confronti di Mosca.

Ma ritenere che un paese come l’Ucraina sia in mano a un nuovo potere nazista è giustificare l'impossibile. In Ucraina il presidente eletto è un ebreo russofono come Zelenski, che il 21 aprile 2019 è salito al potere con il 73% dei voti ed è rispettato dall’intera comunità ebraica. Quest'ultima negli ultimi decenni ha conosciuto un nuovo rinascimento culturale, dopo che negli anni della censura sovietica l’Olocausto, l’identità e la memoria ebraica erano stati rimossi.

Gli ebrei ucraini stanno dalla parte di Zelensky. Addirittura, nella zona di Dnipro, combatte una squadra speciale, “Masada”, dal nome della fortezza che ha resistito fino allo stremo alle legioni romane. Gran parte dell’unità è composta da giovani ebrei della comunità ucraina. Alcuni sono israeliani e Viktor, il comandante di 28 anni, nato in Ucraina, ha vissuto a Haifa e fatto il servito militare in Tsahal, l’esercito dello stato ebraico, come capo carro. Sulla giubba, come gli altri, porta la stella di Davide: “Il nostro motto è ‘non ci arrenderemo mai’. All’inizio pensavo che non fosse la mia guerra, ma è stato invaso un Paese libero. E gli uomini liberi non possono permettere questo scempio”.

Il ministro degli esteri Sergej Lavrov, per delegittimare Zelenski e la comunità ebraica, ha dichiarato che gli stessi ebrei possono essere veicolo dell’antisemitismo e che persino Hitler aveva del sangue ebraico. Questo per dire che gli stessi ebrei possono provocare da soli l’antisemitismo che li porta nel baratro. Ecco che allora Mosca, con la sua operazione militare, li salva da questo pericolo. Lavrov ha ripreso gli stessi argomenti dell’antisemitismo sovietico: non solo gli ebrei vanno bene solo se assecondano la politica di Mosca ma, come è accaduto nelle campagne antisioniste ai tempi di Stalin e di Breznev, ciò che non viene tollerato è il cosmopolitismo degli ebrei che mette in discussione il nazionalismo in nome del rispetto della pluralità umana. La guerra in Ucraina ci permette di comprendere un concetto che è stato sottovalutato in tutti questi anni da chi si batte per la memoria della Shoah e del totalitarismo: in Russia e nel sistema sovietico la parola “nazista” è stata distorta, manipolata e strumentalizzata.

Contro l’Ucraina si è riattivata la vecchia macchina del fango di stile sovietico. La giovane nazione Ucraina, che fa i conti, tra contraddizioni e alcune reticenze, col suo passato, è stata presentata come tutta in adorazione del vecchio politico nazionalista e antisemita Stepan Andrijovič Bandera (1909-1959), che non merita certo una rivalutazione, ma va studiato finalmente al di là delle facili etichette di propagande contrapposte (cfr. Grzegorz Rossoliński-Liebe, Stepan Bandera. The Life and Afterlife of a Ukrainian Nationalist. Fascism, Genocide and Cult, Ibidem Verlag, Stuttgart 2014). Così come si è gonfiata mediaticamente l’importanza del Battaglione Azov, una sorta di campione di discutibile nazionalismo ucraino, il cui peso politico e militare è irrilevante: alle ultime elezioni avevano preso meno del 2% dei voti. Fondato, nel febbraio 2014, dal militare e politico Andrіj Bіlec'kyj, che ne fu primo comandante, come gruppo paramilitare di orientamento neonazista per combattere i secessionisti filorussi e i mercenari di Mosca, durante le prime fasi della guerra del Donbass, è stato poi inquadrato, per controllarlo, nella Guardia nazionale dell'Ucraina e non può agire autonomamente.

Da quando è diventato presidente per la prima volta nel 2000, Putin ha distillato la neonata democrazia del suo paese in un’autocrazia, uccidendo politici e giornalisti rivali e sostituendoli con oligarchi e con una spietata macchina di propaganda. Nel frattempo ha più volte strumentalizzato l’estrema destra a suo vantaggio. […] L’influenza di Putin può essere avvertita anche nella Germania di oggi, dove il Cremlino ha stretto legami con i membri dell’Alternative für Deutschland [AfD], un partito politico nazionale che abbraccia ideali di antisemitismo e razzismo così aggressivi da essere messo sotto sorveglianza dall’intelligence tedesca. Prima di avventurarsi in una sanguinosa guerra “per andare ad annientare i nazisti ucraini”, la Russia avrebbe dovuto pensare alle decine di organizzazioni filonaziste che operano liberamente sul proprio territorio: come la “Legione Imperiale Russa”, comandata da Denis Gariyev, componente paramilitare del movimento politico neo monarchico, ultranazionalista e cristiano ortodosso radicale “Movimento Imperiale Russo”, guidato da Stanislav Vorobye e vicino al Partito “Rodina”, con il quale collaborano gli italiani di Forza Nuova; o come il gruppo paramilitare “Wagner”, mercenari russi che combattono da anni nel Donbass, ma anche, tramite la task force “Rusich”, in alcune zone calde dell’Africa e del Medio Oriente, finanziato dall’oligarca Yevgeny Prigozhin (detto “lo chef di Putin”), e guidato dall’ex operatore delle forze speciali del GRU (il servizio segreto militare russo) Dmitri Utkin. Molte di queste organizzazioni, della confusa galassia dell’estrema destra russa, sono passate dall’opposizione a Putin al completo appoggio a lui e alla sua politica (sull’esempio interessato del sanguinario leader ceceno Ramzan Kadyrov) (cfr. “Der Spiegel”, n.26, 24/V/2022).

Come ha raccontato lo scrittore russo Viktor Erofeev: “La propaganda inizia dicendo che Zelenski è uno sprovveduto idiota che è stato comprato dai neonazisti ucraini. Trattiamo bene gli ebrei -si sente dire alla televisione- ma un ebreo che si è venduto ai nazisti è una vergogna. E chi sostiene questi neonazisti invisibili? L’Europa! Cosa vuol dire, che tutta l'Europa sostiene i neonazisti? Sì! E l'America? Sì! E il Giappone? Pure lui! E Israele? Anche! Ma perché tutti sostengono i neonazisti di Kyiv? Perché sono russofobi!!! Odiano il nostro Paese e vogliono distruggerlo e spartirsi le sue ricchezze” (Per le strade di Mosca la gente ride e si gode la primavera, in “Gazeta Wyborcia”, 9/VI/2022).

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo e Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

15 luglio 2022

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