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Il conflitto delle memorie e la dialettica del riconoscimento

di Amedeo Vigorelli

In un suo recente editoriale (Nulla sarà più come prima. Anche la memoria?) Anna Foa ci invita a ripensare il problema della memoria in una prospettiva storica concreta, vale a dire, a partire dal nostro presente. Ella trae spunto dall’esperienza traumatica e condivisa della pandemia di Coronavirus, per riscontrare un meccanismo psicologico di difesa dal trauma collettivo, che equivale a una vuota razionalizzazione. Ignoriamo le radici profonde del male che ci ha colpito e le conseguenze di lungo periodo che esso comporterà, ma una cosa ci sentiamo in obbligo di affermare da subito: che «nulla sarà più come prima» o, in forma abbreviata e sintetica, «mai più!». È una formula evidente di esorcismo o di scaramanzia. Tra le poche lezioni certe che la storia ci consegna vi è infatti la sua apparente ripetitività, vale a dire la costitutiva incapacità (o piuttosto mancata volontà) degli uomini di farsi educare dal passato (come suona l’aurea e mendace espressione historia magistra vitae).

Questa coazione a ripetere si è manifestata in una dimensione enorme nell’ultimo secolo, con l’accelerarsi della vita sociale e la messa a calcolo del tempo. Una delle ragioni della fortuna (abbastanza rara) che la formula coniata da uno storico (Eric Hobsbawm) per definire il XX secolo ha prontamente incontrato nel pubblico – il secolo breve – è forse legata a questo (certamente involontario nelle intenzioni dell’autore) effetto esorcistico. Isolando nell’arco temporale 1917-1991 la parabola unitaria delle guerre mondiali e della concorrenzialità tra due totalitarismi (comunismo e fascismo) e due modelli economico-sociali (socialismo reale e capitalismo), lo storico è riuscito non solo nell’impresa di fornire una visione sintetica degli eventi e dei sottostanti processi, ma anche in quella di fornire quell’idea di discontinuità, di cesura tra passato e futuro, tra fatalità del passato e problematicità del presente-futuro, necessaria ai contemporanei per proseguire nella vita e tornare a sperare nel cambiamento. Certamente i nostri problemi si radicano ancora nel passato e chiedono una ricostruzione della memoria e del senso storico, ma qualcosa di antico deve essere concluso e qualcosa di nuovo deve essere iniziato in quella data fatidica (che si allinea con altre date fatali, come il 476, il 1492, il 1789 d.C.). Solo così possiamo sentirci legittimati a pronunciare il nostro «mai più» e a riprendere «sempre di nuovo» il cammino.

Ma il presente – ci ammoniva il filosofo Ernst Bloch – è sempre oscuro e confuso, e la possibilità concreta di un futuro che non sia mera ripetizione del passato, ma novum autentico, è fondata su una fragile libertà e una avventurosa scommessa: quella di ereditare il bene possibile nel presente, coltivando la memoria del bene effettivo consegnato dal passato. È il difficile esercizio che, con le sue forze modeste ma tenaci, Gariwo insiste nel proporre. Giustamente Anna Foa richiama il pericolo che l’incombere di nuove tragedie e drammi personali e collettivi – che sono anche risultato dell’incapacità dell’umanità europea di rinnovarsi o di un modo passivo di ereditare le memorie – porti a una dimenticanza o a una relativizzazione del male radicale, che si è manifestato nel secolo breve. Ella ha riflettuto a lungo sulle vicende della shoah, e ci ricorda come il processo di ricostruzione di una memoria condivisa, capace di fissare in un quadro normativo stabile, a garanzia contro il ripetersi di analoghi drammi nel presente e nel futuro, non sia stato affatto un processo lineare, ma un «processo lungo, contrastato, segnato da mutamenti importanti e ritorni al passato». Anche lo storico del fascismo e militante della sinistra israeliana Zeev Sternhell da poco scomparso e subito commemorato da Gabriele Nissim – ha documentato i pericoli che una memoria non più condivisa, ma trasformata in patrimonio identitario ed esclusivo di una nazione in guerra contro le altre (la rivendicazione della unicità della shoah come mito messianico fondatore di uno stato ebraico non più laico e democratico) potrebbe comportare per il futuro.

A sua volta, Anna Foa paventa il rischio (sempre attuale) che l’eredità incompresa e avvelenata dal secolo breve (la guerra nucleare o la catastrofe degli ecosistemi come fonte perenne di conflitti distruttivi) possa proiettarsi sul domani, rendendo incerti e confusi i nostri consolidati punti di riferimento, le nostre certezze valoriali, l’idea stessa di giustizia e di libertà. I sintomi di questa schizofrenia – mi permetto di aggiungere – non sono affatto invisibili. L’isteria comunicativa, enfatizzata dal controllo sempre più stretto sulle fonti di informazioni in tempo di pandemia, non ci lascia certo tranquilli. Se si osserva la velocità di trasmissione delle emozioni veicolate dalla globalizzazione delle immagini e dei messaggi, si rimane sgomenti. Le foto delle vittime della pandemia (la colonna di camion militari per il trasporto delle bare di Bergamo) e degli eroi della resistenza sanitaria (i volti sfatti ma radiosi di infermieri e medici), hanno in pochissimo spazio di tempo lasciato il posto, sui Social, ad altre immagini e conseguenti emozioni. Emergenza scaccia emergenza, e nuova ricerca di visibilità scaccia visibilità. Il ruolo vittimario è stato subito preso da George Floyd, agonizzante sotto il ginocchio del suo carnefice bianco; quello eroico dalla ripetizione coreografica del gesto di inginocchiamento a pugno chiuso dei manifestanti anti-razzisti; ma ben presto – in una deriva incontrollata e pericolosa – dall’immagine dell’abbattimento di statue e monumenti politically incorrect, in una furia iconoclasta degna dei nuovi Talebani, suscitatrice di dibattiti interminabili e privi di senso su chi sia il più puro, col diritto di epurare gli impuri. Non che il tema del razzismo non sia importante e ricco di implicazioni storiche e memoriali, ma gettare in un turbine imaginifico-rappresentativo Rodhes e Cortez, Cristoforo Colombo, il generale Custer e Winston Curchill, il re del Belgio e Indro Montanelli, non può che suscitare ilarità o sgomento.

Il problema è che – come ci ricorda il filosofo Axel Honneth (Riconoscimento. Storia di un’idea europea) – il tema del riconoscimento dell’altro e del diverso è un tema complesso, di cui la storia europea ci fornisce diversi modelli (francese, inglese, tedesco), storicamente conflittuali e difficilmente conciliabili, senza uno sforzo di creatività in ambito morale. Se da un lato «i rapporti di riconoscimento possono suscitare con facilità conflitti di ogni genere», è altrettanto vero, dall’altro, che «noi creiamo le condizioni per una coesistenza normativa regolata tra esseri umani solo riconoscendoci reciprocamente come persone a cui spetta l’autorità di giudicare, ciascuno per sé, la legittimità delle norme condivise» (op. cit. 163, 165). Sappiamo quanto sia stata difficoltosa la storia del riconoscimento della completa dignità umana delle vittime della shoah nel nostro secolo. Sappiamo che la medesima difficoltà si ripresenta nel coltivare la memoria dei Giusti di altri genocidi ed etnocidi passato e presenti. Ciascuno rivendica la assolutezza o l’unicità della propria tragedia, accusando di relativizzazione o di banalizzazione etica la sua assimilazione ad altre analoghe esperienze. Ogni minoranza, per affermare il proprio uguale diritto al riconoscimento, deve prima rivendicare la propria identità e differenza.

Non ci può essere un riconoscimento universale di diritti in astratto, ma solo in concreto, mediante una preliminare negazione e una lotta, che provoca lacerazioni e incomprensioni. Affinché tale dialettica non produca un risultato a somma zero, ma qualche progresso, è necessario educare alla responsabilità e alla scelta gli uomini del nostro presente, consapevoli che la trasmissione della memoria è essa stessa un processo storico, un divenire o un movimento del tempo e nel tempo, alla ricerca di un punto provvisorio di arresto o di stabilità, che consenta alla linea temporale di avvicinarsi asintoticamente al suo infinito progresso (ciò che un tempo i filosofi chiamavano perfezione, o eternità dell’uomo e del suo dio).

Amedeo Vigorelli

Analisi di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale Unimi

24 giugno 2020

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