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Il contributo delle riflessioni di Vito Mancuso al pensiero sui Giusti

di Gabriele Nissim

Trovo di grande utilità per la riflessione etica sui Giusti che cerchiamo di proporre con la costruzione dei Giardini, tre libri di Vito Mancuso: La forza di essere migliori, I quattro maestri, La mente innamorata. Essi ci aiutano a decifrare il periodo storico che viviamo, dove troppo spesso manca una nuova idealità in grado di riempire il vuoto della crisi delle ideologie del Novecento e delle aporie delle religioni, incapaci di darci una prospettiva per il futuro.

La questione centrale nella riflessione di Mancuso è che la scelta etica di chi si assume una responsabilità verso gli altri nei contesti più differenti (dalle situazioni di crisi dove è in gioco la dignità della persona, a quelle inerenti alla nostra vita quotidiana) non è mai un sacrificio, una diminuzione del nostro essere, una rinuncia ai nostri desideri di felicità, ma una modalità che ci porta a realizzare la nostra pienezza umana e quindi a offrirci la migliore soddisfazione nella nostra vita.

Un'osservazione di Marco Aurelio mi pare possa sintetizzare bene le riflessioni di Mancuso attorno al tema a lui caro della mente innamorata del Bene:

“Salvezza della vita intera è vedere ciascuna cosa che cos’è, quale è la sua materia, quale è la sua causa, e con tutta l’anima compiere azioni giuste e dire la verità. Che cosa altro resta, se non godere della vita facendo seguire l’una all'altra le buone azioni, così da non lasciare tra di esse neppure il breve intervallo.”

Non si persegue una vita etica per un Aldilà che probabilmente non esiste; per una costrizione imposta da una legge; perché dobbiamo obbedire ad un Dio, o ai dettami di religione e dei suoi rappresentanti (che considerano la fede un atto di subordinazione a un entità superiore); o per una morale eteronoma (come è accaduto ad Abramo che doveva sacrificare suo figlio per amore di Dio); o per la fedeltà a un partito che costringeva a diventare un delatore (come racconta Vassilji Grossman in Vita e destino).

Si compie un atto di bene perché si risponde alla nostra coscienza morale e perché, come osserva Hannah Arendt, il bene è un fine in sé e fa bene a se stessi prima di tutto. Non si capirebbero altrimenti le azioni apparentemente insensate dei Giusti che hanno salvato gli ebrei e gli armeni o la decisione del giudice Rosario Livatino che rinunciò consapevolmente alla sua scorta per non mettere in pericolo nessuno nel corso delle sue indagini (e pagò questa decisione con la vita).

Lo hanno fatto non per altruismo o per spirito di abnegazione, ma perché altrimenti non sarebbero stati bene con se stessi.

Quale è il segreto di una scelta etica, da dove scaturisce la motivazione? Mancuso riprende un dialogo dal racconto La steppa di Anton Čechov dove si parla di tre intelligenze:

“Va a studiare, dice un vecchio a un bambino, una intelligenza, è una bella cosa, e due sono meglio. A un uomo ne dà una sola, a un altro due, e a qualcuno anche tre… una è quella con cui ci partorì la madre, un’altra è quella che viene dallo studio, e la terza è da una vita buona. E così ecco fratellino, è bello che un uomo abbia tre intelligenze. Per lui non soltanto vivere, ma anche morire è più facile.”

La prima intelligenza, argomenta Mancuso, deriva dai nostri sensi e dalla capacità intellettiva che riceviamo dalla nascita. La seconda dalla capacità di studiare, e di ragionare. La terza dal bene che si pratica e si riceve dalla vita. Quest'ultima descrive l’anelito interiore insito negli esseri umani che li porta ad agire per la giustizia e a rettificare e a correggere lo stato del mondo.

L’uomo è l’unico essere che non accetta una realtà ingiusta e la vuole trascendere. Ciò vale nei confronti degli altri, ma anche degli animali e della stessa natura.

Non è un caso che Mancuso ricordi il premio Nobel Albert Schweitzer che da ragazzino provò vergogna quando stava per colpire con una fionda un uccellino in un gioco propostogli dal suo migliore amico. Il comandamento non uccidere doveva valere non solo verso gli uomini, ma anche verso gli animali. E l’essere umano che sta prendendo coscienza della sua responsabilità nei confronti dei cambiamenti climatici è l’unico che ha la possibilità di salvaguardare la terra e la natura.

Mancuso, rifacendosi a Spinoza, mette in luce come sia problematica la sua equazione tra realtà e perfezione, ripresa del resto dallo stesso Hegel, quando parla di Versöhnun (la conciliazione tra l'idealità e la realtà storica), o da Nietzsche che sostiene di dire sì al mondo così come è, con la sua idea di amor fati.

L’uomo non si adegua alla realtà ma, immaginando sempre un altro mondo possibile, cerca di trascenderla, a partire da un bisogno ontologico di una giustizia superiore. Perché l'uomo lo fa rimane un mistero, ma è un dato di fatto. Non perché esiste un Dio che ci guida, ma perché pensare Dio ci spinge sempre a immaginare una giustizia che non esiste, ma che cerchiamo di realizzare come scopo della nostra vita.

È quanto sostiene Platone nell’Apologia di Socrate, quando descrive una voce interiore che fa dire al suo Maestro cosa non deve fare e gli sembra “qualche cosa di divino e di demoniaco”. Oppure Marco Aurelio che ricorda “il Dio che dimora in te”, o Kant che parla “del regno dei fini” da realizzare e dell’”io invisibile” che alberga dentro di noi, fino all’esperienza più sconvolgente descritta da Etty Hillesum, che prima della sua deportazione ad Auschwitz si pose il compito di salvare Dio dentro di sé di fronte alla malvagità degli esseri umani: “L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica cosa che veramente conti è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio.”

Naturalmente quando si ricorda questa straordinaria tensione, innata negli esseri umani di rettificare il mondo e di agire con giustizia, non bisogna dimenticare che regimi dispotici come il totalitarismo comunista, ma anche di tipo religioso, come il fondamentalismo islamico, hanno cercato in nome di un bene universale di plasmare la condizione umana, provocando grandi disastri.

Agire con misericordia è sempre una scelta individuale dove l’individuo nella sua esistenza è chiamato a riparare i torti con atti di bontà insensata non quantificabili che vanno oltre alle leggi, giuste o sbagliate che siano. Il tribunale della coscienza personale, per sua natura, sfugge spesso alla comprensione degli altri perché risponde a una logica che va oltre la politica, alla stessa idea di giustizia normalmente riconosciuta. È sempre un qualche cosa d’altro che spinge ad agire, come la vecchietta raccontata da Vassilji Grossman che porge da bere ad un prigioniero tedesco che presumibilmente ha commesso dei terribili crimini. L’insensatezza della bontà non riconoscibile si manifesta quando si è costretti a mentire per non fare del male a una persona debole o, nei nostri giorni, quando un direttore d’orchestra, in Ucraina, si fa ammazzare per non dover dirigere la musica in onore dei nemici o, viceversa, quando un partigiano abbandona il campo di battaglia per non lasciare soli i suoi anziani genitori.

L’uomo può sviluppare questa terza intelligenza poiché, come ricorda Pico della Mirandola nell’Orazione sulla dignità dell’uomo (1486), l’uomo può scegliere di essere un bruto, un vegetale, oppure un essere razionale, una creatura celeste, un angelo o un essere che emula Dio. Per questo sente il peso di una grande solitudine (“la grande caligine del padre”) perché farsi carico del mondo significa isolarsi, anche se si respira la bellezza?

L’uomo ha dentro di sé tutti questi semi e, come ricorda Mancuso, può essere saggio o sapiente, ma anche crudele o assassino fino al punto estremo di diventare un Hitler o al contrario un Gandhi.

Per la realizzazione della parte migliore di sé ci vuole un percorso di autoeducazione, allo stesso modo che ci si prende cura del proprio corpo. È l’igiene dell’anima, che ognuno può praticare attraverso degli esercizi spirituali, che rende possibile la trasformazione. Il "conosci te stesso" dell’oracolo di Delfi è per Mancuso una modalità di guarigione.

Il punto di partenza è la capacità dell’uomo di uscire dal proprio ego (l’amor sui, nella tradizione latina, la philatuía in quella greca, la superbia in quella cristiana) per assumere una dimensione più universale. Non si tratta però di una rinuncia, ma di una forma superiore di conatus che, secondo Spinoza, ci indica l’amore di Dio che corrisponde alla Natura (deus sive natura).

Con la mente innamorata, termine molto felice utilizzato da Mancuso, ci mettiamo dal punto di vista del mondo e dell’universo. Usciamo dall’egocentrismo naturale per arrivare al cosmo-centrismo. Non si ama, il proprio sé, il proprio piccolo ego, ma la totalità di cui si è parte. E quando si arriva a questo stato (l’amore intellettuale di Dio), ci si libera della schiavitù degli affetti e si prova, come sostiene Spinoza, un grande senso di letizia. Non si rinuncia al nostro conatus, al nostro desiderio, ma il nostro conatus diventa quello del mondo intero e di tutti gli esseri umani.

Naturalmente questo stato, anche per i più saggi, può essere una aspirazione, più che una realizzazione compiuta, ma è importante sottolineare che ci sono tante vie intermedie dove gli uomini sono capaci di liberarsi del proprio ego e di sentirsi felicemente in sintonia con gli altri, come accade a tanti uomini giusti nella storia che sono capaci nelle circostanze più difficili di andare in soccorso degli altri.

Chi si comporta in questo modo comprende che il proprio sé non è un ente indipendente e che la logica di tutta la natura è sempre una relazione di cui ognuno fa parte. Sentendo questo legame con gli altri e la natura si comprende che una sensibilità universale è sempre una forma di arricchimento, e mai una privazione. È la “genesi indipendente” di cui parla il buddismo, ma che ritroviamo in Eraclito quando esprimeva il primato della relazione: “Ascoltando non me, ma il Logos, è saggio convenire che tutto è uno.”

Ecco perché l’uomo giusto agisce e prende posizione quando la relazione di cui fa parte viene messa in pericolo. È il senso della citazione del Talmud, che dice che chi salva una vita salva il mondo intero. Quando un singolo, o una parte del mondo viene escluso o eliminato, ogni essere umano, ogni nazione perde una parte di sé, allo stesso modo che una orchestra senza violini perde la ricchezza della sua musica.

Come un uomo sente il richiamo dell’altro e cambia il suo modo di essere?

Spesso attraverso un percorso di conversione e di illuminazione che in circostanze eccezionali crea il meccanismo improvviso di una vita nova, di cui parla Dante nella Divina Commedia. Può capitare a tutti di ricevere un'illuminazione sulla via di Damasco, come è capitato a Vito Fiorino che immaginando di sentire il rumore dei pesci nell’acqua si accorse invece che erano i gemiti dei migranti che affogavano vicino alla sua barca da pesca. Da quel giorno, ha cambiato tutta la sua vita ed è diventato il messaggero più ascoltato delle sorti delle vittime del Mediterraneo.

Ma non è sufficiente, perché l’uomo in ogni epoca e in ogni nuova generazione, come se ogni volta la storia ricominciasse da capo, senza lezione alcuna del passato, si fa catturare dalle peggiori tentazioni.

Come osserva Spinoza, l’uomo nella maggior parte dei casi non acquista la consapevolezza da solo, ma ha bisogno di avere qualcuno al suo fianco che lo educhi fino al punto di comprendere l’insegnamento socratico che è peggio commettere un male che subirlo, perché chi fa del male perde la sua anima e rovina se stesso e la stessa possibilità di essere felice.

Per questo Mancuso insiste sul ruolo basilare e necessario della formazione e dell’educazione che misura il livello di maturità di una nazione. Educare non significa trasmettere e inculcare nozioni ma, nelle scuole, lavorare su due principi.

Il primo è trasmettere la conoscenza del tempo particolare in cui si vive in modo che ogni generazione sia un grado di comprendere dove si gioca la possibilità di rettificare il mondo, il compito ingrato di cui parlava Shakespeare nell’Amleto, per cui ogni individuo è costretto ad aggiustare il corso disordinato degli eventi e il proprio tempo scardinato. Si tratta cioè di cogliere, come sottolineava Confucio, il filo conduttore di un'epoca, per potersi muovere sempre con una visione complessiva: “L’uomo nobile ha una visione complessiva ed è non parziale; l’uomo volgare è parziale e non ha un visione complessiva.” È come dire che si può uscire dal proprio ego quando la mente si colloca ad un livello più alto e si è capaci di avere una visione d’insieme (pensiamo anche allo sguardo dall’alto come esercizio spirituale di cui disertavano gli antichi greci su cui tanto ha riflettuto Pierre Hadot). C’è infatti una modalità particolare di essere giusti, non sufficientemente elaborata, che riguarda la responsabilità del proprio tempo. Oggi esistono nuove sfide che non c'erano in altre epoche: come la nostra responsabilità sulla salvaguardia del pianeta dai cambiamenti climatici che ci deve fare comprendere che curando la terra salviamo e curiamo noi stessi, la difesa della democrazia non solo nei confronti delle minacce delle autocrazie, ma anche di fronte alle tentazioni autoritarie che attraversano l’Europa e gli Stati Uniti, la difficile comprensione a livello etico e politico secondo cui essere omossessuali non è contro natura, ma fa parte della natura umana. Di conseguenza la battaglia a sostegno della comunità Lgbt e delle identità di genere ci permette di comprendere una nuova dimensione umana. Non è una devianza, ma una ricchezza degli affetti e dell’amore tra esseri umani;

Il secondo è la capacità della scuola non solo di istruire, ma di educare (dal latino e-ducere, condurre fuori), cioè, come scrive Platone, “risvegliare facoltà dell’animo che sono sopite”. Si tratta cioè di accendere nei giovani con la maieutica socratica le qualità umane, morali ed estetiche affinché si possano assumere una responsabilità morale non solo nella vita quotidiana, ma nel loro tempo.

Conoscendo se stessi e la loro relazione con il mondo diventa così possibile per i giovani interrogarsi sul loro agire. È l’educazione etica che sviluppa la personalità morale, non con nozioni astratte, ma attraverso il risveglio di quella terza intelligenza che ogni essere umano possiede dentro di sé e che può essere valorizzata. Si tratta di accendere quel nascosto senso del bene che non solo porta alla responsabilità ma, se coltivato in gioventù, può rendere una vita più felice e più autentica.

È quanto cerchiamo di fare con i Giardini dei Giusti nel mondo, che non solo trasmettono la conoscenza della realtà in cui si vive oggi ma che, con una originale funzione maieutica, stimolano le persone a interrogarsi su se stessi e sul loro agire. Il loro compito è infatti quello di risvegliare l’umano dentro gli uomini spesso distratti e indifferenti.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

10 novembre 2022

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