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Il coraggio silenzioso di Bartali

Un esempio per gli atleti di oggi

La storia di Bartali, diventata oggi, con l’attribuzione del titolo di Giusto tra le Nazioni da parte di Yad Vashem, popolare in Italia e nel mondo - non solo per i grandi successi al giro d’Italia e al Tour de France, ma anche per il suo impegno per la salvezza degli ebrei - è una vicenda esemplare che merita alcune considerazioni di carattere etico riguardo al mondo dello sport e alla rivisitazione del passato del nostro Paese.

Bartali prima di tutto insegna agli atleti di oggi che chi ha ottenuto un grande risultato sportivo ed è celebrato dalle piazze e dai media ha una grande responsabilità verso il mondo. Un comportamento di un certo tipo può seminare molto. Ricordiamo per esempio la straordinaria figura del mezzofondista Zatopek che non solo sostenne la Primavera di Praga, ma che poi pagò un prezzo pesante per essersi opposto alla normalizzazione dei carri armati sovietici, e per questo venne rimosso da tutti i suoi incarichi e costretto a lavorare in una miniera di uranio.

La fama chiama a dei doveri morali. Ma non è solo questo il punto. Bartali ci mostra la differenza tra chi si assume un compito per apparire e chi invece lo fa per un senso di responsabilità. Il vincitore di tanti Giri d’Italia nascose nella sua bicicletta decine di documenti falsi, che facilitarono la fuga di tanti ebrei e antifascisti, ma poi non pensò di farsi bello per le sue gesta nell’Italia del dopoguerra. Non ne parlò mai con i giornalisti, perché per lui era stato importante soltanto avere usato la sua fama per salvare degli ebrei. Chi avrebbe mai osato perquisire la bicicletta di quel campione? Bartali sapeva bene che la sua popolarità era uno strumento straordinario per fare delle cose che altri non avrebbero potuto fare. Inoltre si sentiva appagato per aver aiutato gli ebrei, e questo gli bastava.

Oggi invece accade che alcuni calciatori famosi intendano un gesto di impegno civile come una ricerca di popolarità personale. Pensiamo a Boateng, che gettò sulla tribuna il pallone ed uscì dal campo per protestare contro le urla razziste nei suoi confronti. Aveva fatto bene a compiere un gesto simbolico, ma poi si presentò in tante tribune, fino alle Nazioni Unite, come il paladino morale dell’antirazzismo. Era come se dicesse: “Quanto sono bravo io. Ho buttato via un pallone e sono un eroe del Bene.” Oppure pensiamo a Balotelli, che spesso, fischiato negli stadi per il colore della sua pelle, reagisce pensando che tutto gli sia permesso. Davanti alle fastidiose invettive nei suoi confronti ritiene poi lecito insultare gli arbitri e gli avversari.

Il caso Bartali ha però anche un’altra lettura. Bisogna onorare l’eroismo, o valorizzare il bene possibile degli esseri umani? Molti hanno scritto che Bartali ha rischiato la vita per salvare degli ebrei riferendosi alle motivazioni di Yad Vashem, che sottolinea che il titolo di Giusto debba andare a chi ha messo ha rischio la propria esistenza per la salvezza di un altro essere umano. In Italia non era così, a differenza della Polonia occupata dai nazisti. Era possibile aiutare e salvare degli ebrei con dei rischi limitati. Non c’era bisogno di essere votati al sacrificio per un atto di coraggio morale.

Bartali lo ha fatto e il suo messaggio più importante è che per ogni uomo molte volte è possibile, anche nelle situazioni più difficili, fare delle piccole cose che possono salvare il mondo. Per lui bastava usare la canna della sua bicicletta.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

27 settembre 2013

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