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"Il cuore ha parlato"

di Gabriella Caramore

Gabriella Caramore al Teatro Franco Parenti

Gabriella Caramore al Teatro Franco Parenti

Pubblichiamo di seguito l'intervento della scrittrice Gabriella Caramore all'ultimo appuntamento con il ciclo "La crisi dell'Europa e i Giusti del nostro tempo", tenutosi il 18 maggio presso il Teatro Franco Parenti.

Oggi come ieri i Giusti sono coloro che spezzano la catena del male, che salvano una vita, che danno testimonianza - con un gesto almeno - che il male non è l’assoluto del mondo. Sono coloro che dimostrano che non c’è male così potente, così totale, così compatto da non mostrare delle crepe, e che dentro quelle crepe è possibile insinuarsi, o creare un piccolo alveo, introdurre un seme di segno contrario, smentire la compattezza di una crosta apparentemente inscalfibile.
Per questo, personalmente, non amo molto le visioni totalizzanti della tecnica, pur capendone le ragioni e la gravosa minaccia, perché le trovo alla fine idealizzanti, ed incapaci di cogliere il reale nei suoi movimenti, nella sua contraddittorietà, nelle sue imperfezioni. Il gesto del Giusto è una imperfezione nella crosta del male.

Oggi come ieri i Giusti sono coloro che lasciano parlare il cuore, e non il calcolo. Come motto dell’ultimo libro che ho scritto insieme a Maurizio Ciampa (La vita non è il male) abbiamo scelto la frase che ha usato un ragazzo - Lassana Bathily - durante uno degli attentati di Parigi; il giovane, originario del Mali, lavorava come inserviente all’Hypercacher del quartiere ebraico della “Porte de Vincennes”. Lì fece irruzione un terzo terrorista, oltre ai due che già avevano assassinato dodici persone intorno e dentro la redazione di Charlie Hebdo. Il terrorista nel supermercato, che aveva già freddato una poliziotta e tre degli ostaggi (un quarto lo ucciderà più tardi), minacciava anche gli altri. Lassana si trova nel piano interrato assieme a una quindicina di persone. Che cosa fa? Non pensa a salvare solo se stesso. Pensa a salvare gli altri. E con loro se stesso. Li fa entrare nella cella frigorifera, spegne l’impianto elettrico, li fa stare zitti e buoni, li tranquillizza, finché tutto non è finito. “Il mio cuore ha parlato” dirà più tardi quando gli chiederanno conto del suo gesto. “Ma come mai tu musulmano ...”. “Non si tratta di musulmani, ebrei, cristiani. Ci dobbiamo aiutare tutti per uscire da questa crisi”. Ecco qui il senso del “Giusto”: far parlare il cuore. Per uscire da una crisi di umanità.

Allo stesso modo hanno fatto parlare il cuore, invece del calcolo, gli innumerevoli “Giusti” che nella storia si sono adoperati per salvare vite o salvare brandelli di vite; talvolta a rischio della propria, talaltra soltanto in virtù di un piccolo impulso cardiaco in più, un piccolo scompenso prodottosi nel guardare all’altro come a una creatura che è nel bisogno.

E così anche oggi davvero non si contano quelli che danno un aiuto a chi ha fame e dorme nelle stazioni, a chi è straniero e rischia di affogare nel mare (o nella disperazione, che è lo stesso); a chi è malato e ha bisogno di essere accudito, a chi sta morendo e ha bisogno di essere accompagnato, a chi è piccolo, e ha bisogno di essere aiutato a crescere... Salvano vite? Forse. A volte. Salvano comunque qualcosa.

Si rischia, in questo modo, di allargare troppo la categoria del Giusto e di farne un generico attributo riconducibile al “buon cuore” o a uno “spirito caritatevole”? Una specie di manifesto del bravo boy scout?

Dipende.

Porgere giustizia
Voi siete partiti in questa serie d’incontri dalla crisi dell’Europa. Ed è importante parlarne, perché se è vero che da un lato tutto è sempre come ieri (guerre, ingiustizie, povertà, ricchezze), è vero anche che il nostro tempo vive un suo specifico dramma, un’accelerazione delle emergenze che meriterebbe tante altre analisi come queste per capire che cosa stiamo vivendo.

Uno dei caratteri di questo tempo è, ad esempio, proprio la sua difficile decifrazione, perché abbiamo sotto gli occhi, davanti a noi, una massa tale di eventi, situazioni, intrecci, elementi nuovi innestati in altri antichi, dimensioni storiche non parallele, in una sincronicità sfalsata, che fatichiamo inevitabilmente a districarci. “Il mondo è divenuto troppo complicato per poter essere tenuto in ordine... Il mondo è in subbuglio, e non esiste visione, teoria, algoritmo capace di risolverne le incognite ... vacilla il pensiero, ancor prima che l’azione”(Zagrebelsky).

A questo disordine, a questo subbuglio partecipa anche il linguaggio. Si è creata una nuova Babele dei significati.

L’idea di “Giusto” è stata sufficientemente chiarita in questi anni - grazie a iniziative come questa della Foresta dei Giusti - seguendo quell’intuizione fondamentale della tradizione rabbinica relativa ai 36 giusti che salvano il mondo. Ma poiché il sostantivo attiene al campo semantico della “giustizia”, occorrerebbe ripensare anche a questa categoria, per connettere la figura del “giusto” a una possibilità più larga di “giustizia”, tentando anche, possibilmente, di moltiplicare quel 36 per “n” possibilità; creando - senza farsi illusioni - una rete più vasta possibile di situazioni di “giustizia”.

Non lo possiamo fare qui distesamente, ma possiamo almeno dare qualche indicazione.

“Giustizia”, come “libertà”, come “verità” è una parola oggi più che mai in sofferenza. Come se, una volta capito che la verità non è raggiungibile, la giustizia non è perseguibile, la libertà degenera facilmente in arbitrio o in nuova schiavitù, si fosse rinunciato a farne oggetto di ricerca [oggi si parla della post verità come se il difficile e spesso ingannevole accertamento della verità avesse screditato del tutto il perseguimento della stessa]. In realtà queste parole non hanno meno valore di un tempo. Semplicemente ne abbiamo un’altra visione. La verità non si può conoscere. Ma si può perseguire. La libertà non sarà mai raggiunta, ma siamo chiamati a creare processi di liberazione. La giustizia non è di questo mondo (e neppure dell’altro), ma è possibile, sempre, cercare di porre riparo all’ingiustizia.

Germaine Tillion, la grande etnologa francese allieva di Marcel Mauss e di Louis Massignon, capo del gruppo di resistenza del Musée de l’homme, internata a Ravensübruck e poi dedicatasi ai diritti dei senza diritto, scriveva che il vero e il giusto si risolvono, in fin dei conti, in un’idea molto semplice: quella del valore primario e irriducibile di ogni essere umano, e della necessità di tenere sempre davanti ai propri occhi l’esigenza di “proteggere” e “salvare” chiunque sia il nostro prossimo. Ecco allora che il “vero” e il “giusto” si decantano da un’aura d’irraggiungibilità e diventano possibilità concreta: “obbligo” verso l’umanità, come diceva Simone Weil.

È importante allora riflettere su come, accanto a un versante “giuridico” di giustizia, se ne debba mettere a tema uno - tenendolo in parte distinto e in parte no - che chiamerei “creaturale”. Cosa che è sempre esistita, anche nelle culture precedenti alla nostra; ma che è molto difficile tematizzare in maniera sufficientemente approfondita, essendo state relegate queste parole nell’ambito ambiguo e fuorviante del religioso.

Proviamo a pensare all’idea biblica di giustizia. Da una parte vi è certamente un’idea giuridica, molto severa e molto coercitiva, ma dall’altra vi è anche un’idea larga, aperta, protesa verso il bene dell’altro, secondo la quale essere giusti coincide con il fare il bene dell’altro, a partire da chi è nella condizione più debole, più svantaggiata, più infelice, più bisognosa di soccorso e di aiuto. In questo senso non si dovrà parlare di “fare” giustizia, ma di “porgere” giustizia a chi è vittima dell’ingiustizia, vuoi da parte degli uomini vuoi da parte della sorte. L’orfano e la vedova sono, nella Bibbia, sempre citati, in innumerevoli passi, come la sintesi della creatura infelice. “Poiché l’Eterno, il vostro Dio, è l’Iddio degli dei, il Signor dei signori, l’Iddio grande, forte e tremendo, che non ha riguardi personali e non accetta regali, che fa giustizia all’orfano e alla vedova, che ama lo straniero e gli dà pane e vestito”. (Deut 24,17-21). 

L’orfano, la vedova, lo straniero non hanno nessuno che li difenda, sono privi di forza, sono soli e nella disperazione. Lo si chiama “misericordia”, questo chinarsi verso le creature deboli. Ma non è che un nome per dire “giustizia” verso la creatura, dove la valutazione “giuridica” viene messa tra parentesi, o per meglio dire trasformata in altro. A chi è nella debolezza, a chi è povero, orfano, straniero, naufrago, disoccupato, malato, infelice, nemico... non viene chiesto di essere per bene, irreprensibile, a posto con la legge, per poter essere aiutato. No. Ha un primato su tutto. A lui e a lei bisogna porgere giustizia, curare la ferita in cu vive. Occorre riparare il vivente. Allo stesso modo -con lo stesso metro di misura- neppure al soggetto attivo di quella giustizia (cioè a chi porge giustizia all’orfano, alla vedova, allo straniero, ecc.), neppure a lui viene messa in conto l’eventuale trasgressione della legge. 

Non gli viene chiesto di essere integerrimo, di essere perfetto, di essere santo, di non avere nessuna colpa. No. Basta quello che fa. Al samaritano non viene chiesto di essere in stato di purità. No. Conta il gesto. Così in Matteo, 25 non viene chiesto a chi dà da mangiare all’affamato, a chi va a trovare il prigioniero, a chi veste chi è nudo che cosa fa nella sua vita il resto del tempo. No. Basta quel gesto. Perché quel gesto salva una vita. E salva un mondo.

Oggi
Oggi, che cosa fare? Come dare ascolto ai Giusti? Come dare, anche, un’educazione alla giustizia?

Da un lato c’è l’impulso del cuore, ma quello non si può determinare. Dall’altro c’è molto che si può fare per diffondere e approfondire una cultura di “giustizia creaturale”: fare memoria dei luoghi e dei modi in cui si è espressa, innanzitutto e poi insistere. Provare. Resistere agli scacchi, alle sconfitte. Viviamo, sì, in un’emergenza planetaria; (“Il mondo è uscito dai numeri e dagli esseri” diceva già Baudelaire, e oggi più che mai ...). Nello stesso tempo però viviamo anche dentro una dimensione di normalità rispetto ad altre epoche storiche ed allora, invece che mettersi sotto la coltre della tragedia incombente facendosene scudo con litanie inconcludenti, bisogna aver cura di questa “normalità”; per allargare le possibilità di una giustizia “creaturale”.

Dire, mostrare, denunciare. Fare memoria critica (e non formale). Raccontare. Mettere di fronte all’evidenza. Far ricorso alla conoscenza: storica, del presente, della tradizione, anche religiosa, purché non se ne faccia una gabbia, ma un nodo di elaborazione del pensiero, che è modalità di relazione, lavoro di sapienza, esplorazione di mondi. C’è anche una “normalità” della giustizia che va perseguita, per questo è fondamentale il lavoro nelle scuole, nelle case, nelle città.

Quando Borges enumera, nella sua poesia sui Giusti, situazioni di assoluta normalità, ma preziose per una vita che abbia un senso, enumera situazioni che vanno contro l’indifferenza del vivere. Forse non si creeranno dei Giusti, ma certo si contribuisce a creare un terreno in cui la giustizia possa fiorire. Facendo percepire che le cose semplici e belle sono forse ciò di cui ha bisogno ogni creatura umana.

Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del sud giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che premedita un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.
Gabriella Caramore, scrittrice

Analisi di

18 maggio 2017

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