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Il fronte europeo centro-orientale: un monolite inscalfibile?

di Maria Serena Natale

Nella spaccatura tra Est e Ovest d’Europa, e nelle semplificazioni talvolta necessarie a raccontarla, il fronte centro-orientale pare un monolite inscalfibile. Un blocco di Paesi che condividono storia, intrecci culturali e una certa ostilità rivendicativa per il potere centrale di Bruxelles. Soprattutto, un arco politico dove prevale nel generale consenso un’interpretazione autoritaria e conservatrice della funzione di governo. Non è proprio così.

Nei giorni delle tensioni sulla redistribuzione dei migranti all’interno dell’Unione europea sono finiti sotto i riflettori i Paesi del Gruppo di Visegrád, alleanza fra Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca ricalcata sul sodalizio commerciale che fu suggellato nel 1335 nella città magiara di Visegrád tra Casimiro III di Polonia, Carlo I d’Ungheria e Giovanni I di Boemia. Il Gruppo istituito nel 1991 aveva l’obiettivo di favorire un’integrazione coordinata dei quattro Paesi (all’epoca tre poiché Praga e Bratislava avrebbero “divorziato” solo nel 1993) nelle strutture della Ue. I Quattro di Visegrád oggi denunciano ingerenze di Bruxelles su temi di competenza nazionale e contestano la politica di ripartizione dei richiedenti asilo basata sulle quote obbligatorie.

Si candida a leader carismatico del fronte – e a condottiero in pectore di uno schieramento euroscettico trasversale che si sovrappone ai movimenti anti-migranti da Est a Ovest – il premier ungherese Viktor Orbán, protagonista del recente scontro a distanza con il presidente del Consiglio Matteo Renzi proprio sull’immigrazione: Renzi aveva minacciato di bloccare il bilancio Ue (quindi anche i fondi per i fratelli orientali) in caso di opposizione a oltranza alle quote, Orbán lo ha definito “nervoso” a causa del deficit e ha criticato l’Italia per il mancato rispetto delle regole sui controlli degli ingressi. Un attacco all’anello “debole” per colpire indirettamente l’approccio comunitario nel suo complesso. Nel discorso per il sessantesimo anniversario della rivolta anticomunista del 1956, Orbán ha riproposto il vecchio accostamento tra la repressione sovietica e l’odierna euroburocrazia che vorrebbe fagocitare la sovranità nazionale. Quanto ad accentramento del potere, l’uomo forte di Budapest non ha bisogno di lezioni. Al governo dal 2010, il primo ministro nazionalista ha progressivamente ricondotto l’informazione sotto il controllo del governo attraverso la potentissima Autorità delle Telecomunicazioni, che fa insieme da fonte e filtro delle notizie per tv, giornali e agenzie di stampa. Ai primi di ottobre ha annunciato la chiusura il quotidiano liberale Népszabadság, il maggiore giornale d’opposizione, bastione dei pochi media indipendenti sopravvissuti al taglio delle pubblicità. Nelle ultime inchieste aveva scavato tra conflitti d’interesse e corruzione negli ambienti governativi e fatto emergere dettagli sulla vita privata del capo della Banca centrale György Matolcsy molto imbarazzanti per Orbán, che aveva nominato il suo uomo malgrado le forti contestazioni dell’opposizione. L’editore Mediaworks ha motivato la decisione con le perdite accumulate in questi anni e si è impegnato a cercare “un nuovo modello di business, in linea con le tendenze del settore”. I giornalisti per ora pubblicano i loro articoli sul mensile dei clochard di Budapest, Fedel Nelkul, Senza casa. In migliaia hanno protestato nelle strade della capitale.

Al referendum sul piano Ue di ripartizione dei migranti, non è stato raggiunto il quorum del 50% più uno, ma tra i votanti il “no” alle quote sostenuto da Orbán ha vinto con oltre il 98%. Consultazione non valida, comunque rivendicata dal governo come successo e base per una modifica costituzionale che impedisca future “imposizioni” Ue. Nell’opinione pubblica si è affermata però la consapevolezza di un’allerta esagerata per calcolo politico. Esiste un’opposizione che resiste e cerca canali di espressione del dissenso. Un dissenso cauto e privo dei numeri per incidere sulle decisioni politiche, per ora.

Manifestazioni di piazza che invece non erano così massicce e trasversali dai tempi del regime le abbiamo viste in Polonia. Donne di età e orientamenti politici differenti hanno protestato contro il progetto di legge frutto di un’iniziativa civica per inasprire la “legge di compromesso” sull’aborto in vigore dal 1993. La norma esistente consente l’interruzione di gravidanza nei casi di stupro, malformazione del feto e grave pericolo per la vita della madre. La modifica proposta manteneva il principio della tutela della vita della donna ma in tutte le altre circostanze puniva con il carcere la madre e, con minore severità, i medici. Una criminalizzazione totale, in un Paese profondamente cattolico dove l’interruzione di gravidanza incontra spesso l’opposizione di coscienza. Il progetto è stato ritirato. Il governo di Beata Szydlo, fedelissima del leader del partito di maggioranza Jaroslaw Kaczyński, ha addirittura preso le distanze dal testo. Restano però in piedi altri progetti “restrittivi”. Soprattutto, denunciano le organizzazioni, aumentano gli interventi dei settori più conservatori della politica e della Chiesa sui diritti della persona, e in particolare della donna. In una recente intervista Kaczyński ha dichiarato che il suo partito vuole rivedere le norme per assicurare che “anche in gravidanze molto difficili, con gravi rischi per il feto, si arrivi comunque al parto, così da battezzare e dare un nome al bambino”.
Movimenti di chiusura e indurimento, bilanciati però dalla prima mobilitazione in grande dalla transizione alla democrazia. Prende forma nella Polonia di oggi una nuova coscienza civile e femminista, tanto da far parlare di incipiente rivoluzione.

In Slovacchia lo scorso marzo si è insediato il terzo governo del premier socialdemocratico Robert Fico, che aveva incentrato la campagna elettorale sull’allarme immigrazione nel tentativo di strappare consensi all’estrema destra. Il risultato delle elezioni è una coalizione di quattro partiti: socialdemocratici, minoranza ungherese, conservatori e nazionalisti euroscettici del Partito nazionale di Andrej Danko. Questi ultimi sono ormai ammessi tra le forze di governo, superati a destra da un’altra formazione ancor più radicale, il Partito del popolo-Nostra Slovacchia di Marian Kotleba, che con il voto del 2016 è entrato per la prima volta in Parlamento (8% delle preferenze e 14 seggi). Un’ultradestra xenofoba che non nasconde nostalgie per il regime filonazista di Jozef Tiso e che da aprile schiera sui treni nell’Est del Paese pattuglie di ronda “per garantire la sicurezza dei viaggiatori” - di fatto un’intimidazione nei confronti delle minoranze, rom in primis. A fine ottobre l’esecutivo ha approvato una legge che vieta qualsiasi forma di pattugliamento autogestito e che ri-attribuisce la piena responsabilità della sicurezza a polizia e personale delle compagnie ferroviarie. La milizia di Kotleba assicura che non mollerà, ma il punto stavolta è del governo.

Maria Serena Natale, giornalista del Corriere della Sera

Analisi di

3 novembre 2016

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