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Il lavoro dei Giusti

Compiere il bene, allontanare dal mondo la catastrofe. Il senso di una “figura” molto attuale

Maurizio Crippa, vicedirettore del Foglio, recensisce "Il pudore dei Giusti" di Andrea Tagliapietra (da "Il Foglio Weekend", 3 dicembre 2022) 

Un commerciante che abbassa la saracinesca del bazar in segno di protesta? O la solleva per nascondere una ragazza minacciata? Un operaio che non ha lasciato la fabbrica per aiutare il suo paese a resistere? Una donna che non cede? Chi soccorre un migrante? Chi sopporta un sopruso? Chi sono, oggi, i “Giusti”? Non i bravi, non gli eroi, non i leader di questa o quella rivendicazione. Ma i “Giusti”, che secondo la tradizione ebraica sono coloro che rendono attuale la giustizia, “salvano il mondo intero”, secondo il versetto del Talmud babilonese reso celebre da Spielberg, e lo fanno restando invisibili, spesso volutamente non conosciuti. Ma anche al di fuori di ogni tradizione religiosa, sono quelle persone che compiono semplicemente ciò che è giusto. A costo di un sacrificio, di una scelta etica profonda. Una celebre poesia di Borges si intitola “I Giusti”: “Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire. / Chi è contento che sulla terra esista la musica. (…) Chi preferisce che abbiano ragione gli altri. / Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo”. Borges la prende un po’ alla leggera, o secondo una sua superiore preveggenza, ma di certo coglie un’attitudine enigmatica: non è un generico inno alle persone gentili. Perché essere “giusti” è qualcosa di più di una gentilezza e anche di una scelta personale. Implica convinzioni profonde, filosofiche o religiose che siano. E il pensiero va subito a coloro che hanno agito o si sono sacrificati, in circostanze drammatiche. Chi sono, i Giusti? Se lo chiede il filosofo Andrea Tagliapietra in un raffinato excursus per individuare il “tipo ideale” del Giusto, “Il pudore dei Giusti” (edizioni Cafoscarina).

Docente di Storia della filosofia e Storia delle idee all’Università San Raffaele, in questo saggio realizzato per la Fondazione Gariwo, Tagliapietra non disdegna ovviamente la leggerezza di Borges, ma va alla ricerca dell’essenza, anzi dei tratti essenziali, di una figura che è parte della Storia, che incontriamo – ma quasi sempre senza saperlo, e senza che lui/lei stesso/a se ne renda conto – magari non ogni giorno, ma in certi momenti delle nostre storie sì. I Giusti non si mostrano, ma è il loro stare nel mondo che li rende manifesti, riconoscibili: il più delle volte “dopo”, attraverso l’impronta che hanno lasciato. I Giusti come coloro che in una situazione tragica, violenta, estrema, tengono lontana la catastrofe, la rinviano. La negano.

Il campo d’osservazione dove rintracciare storicamente le figure dei Giusti è enorme, ma non è obiettivo di questo libro. Il riferimento di base è la Shoah, e non solo perché l’espressione “Giusti” è radicata innanzitutto nella tradizione ebraica, seppure sia individuata anche in altre religioni. Ma non è possibile leggere queste pagine senza pensare ad altri massacri, o a genocidi il cui nome diviene urgente solo ora, come Holodomor. Fondazione Gariwo del resto riflette sulla figura dei Giusti che hanno salvato vite in tutti i genocidi. Altro riferimento imprescindibile è l’esperienza di annichilamento dei lager, le cui ferite sono ancora visibili e presenti nella riflessione etica e filosofica. Non casualmente, Tagliapietra cita nelle prime pagine, dedicate al “senso della possibilità” di essere Giusti, il giudizio di Gustaw Herling su una intuizione profondissima di Salamov, il grande testimone del Gulag: “In uno dei suoi bellissimi racconti Salamov, che era ateo e detestava suo padre pope, dice di credere in qualcosa che sembra scomparsa nel mondo moderno, l’anima. E racconta di aver difeso disperatamente la sua anima. Cioè la sua connotazione umana e la sua dignità”.

Ma ci sono altre dimensioni che definiscono l’esperienza della “giustezza”, e ancora una volta molto attuali. L’accoglienza del diverso; l’ospitalità assoluta; la scelta tra compiere un atto immorale per utilitarismo o rifiutarlo (il Giusto alla prova del celebre “dilemma del mandarino cinese”); la suprema regola del “dono”; la giustizia anche come una forma di “pazienza” che stempera il desiderio di vendetta. Oggi che la forza del male sembra debordare, ma al contempo c’è un potere dei popoli, delle persone, capace di opporsi, riflettere su queste “figure anti-spettacolari”, che incarnano un “pudore” superiore, è un utile esercizio. I Giusti si riconoscono al negativo, sembra dire l’autore: non si mettono in mostra, non programmano le loro azioni: “La maggior parte dei Giusti si distingue per l’assoluta normalità delle loro esistenze e per le circostanze della vita ordinaria in cui hanno agito”. E’ così ad esempio per gran parte delle 28 mila biografie di “Giusti delle nazioni” ricostruite a Yad Vashem. Nella “Mishnah” si legge: “Quando i Giusti sono al mondo, nessun altro bene deve venire e la calamità si allontana; quando i Giusti se ne vanno, sopraggiunge la catastrofe e il bene abbandona il mondo”. Non è astrazione mistica, è anche un utile strumento per riconoscere chi compie davvero un bene disinteressato dalla “soddisfatta percezione di sé e del proprio buonismo” che spesso contraddistinguono la nostra epoca.


Maurizio Crippa

Analisi di Maurizio Crippa, giornalista e vicedirettore del Foglio

16 dicembre 2022

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