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Il pogrom di 73 anni fa

di Francesco M. Cataluccio

NelIa città di Kielce, nella Polonia sud-orientale, il primo luglio del 1946, un bambino di nove anni, Henryk Błaszczyk, figlio del sarto Walentyn, abitante in via Podwalna 8, senza dir nulla ai genitori andò a giocare da amici di famiglia a Bielak, una località di campagna a venticinque chilometri dalla città. Verso le 19 di quel giorno un abitante del villaggio testimoniò di averlo visto scorrazzare con degli altri bambini. A quell’ora, a Kielce, i genitori preoccupati lo stanno già cercando e qualche vicino sostiene che potrebbe essere annegato. A mezzanotte ne venne denunciata la scomparsa al Commissariato di polizia e a quello della polizia ferroviaria. Vennero affissi tre avvisi sulla scomparsa del ragazzo. Nei giorni successivi, il padre disse di averlo cercato invano in campagna. 

Il 3 sera il piccolo Henryk ricomparve, attorno alle 20. Venne interrogato, dal padrone di casa, Antoni Pasowski, alla presenza del padre, che così riferì: “Pasowski chiese a mio figlio dove fosse stato. Lui rispose che si trovava nella via Herbska è che uno sconosciuto gli aveva dato un pacco da portare, per 20 złoty, in un posto che non gli disse. Giunti assieme là, lo rinchiuse in una cantina. Non gli dettero niente da mangiare. Pasowski gli chiese se per caso non fossero zingari o ebrei. Mio figlio gli rispose che non parlavano polacco e quindi erano certamente ebrei. Alla mia domanda come fosse uscito dalla cantina, mio figlio disse che ci fu un bambino che gli passò uno sgabello attraverso la finestra e attraverso quella fuggi. Pasowski allora disse che bisognava avvertire la polizia e che si trattava certamente di ebrei”. Anche un altro vicino, lì presente, Jan Dygnarowicz, suggerì che potevano esser stati gli ebrei. Alle 23, il padre si recò alla polizia a dichiarare che il figlio era tornato e che era stato trattenuto da degli ebrei. Gli fu detto di presentarsi l’indomani per formalizzare la denuncia.
L’agenzia di stampa polacca (PAP) dette due giorni dopo un’altra versione: “Un certo Pasowski Antoni nascose in casa sua Henryk Błaszczyk, e lo lasciò andare dopo due giorni. Come ha riferito il bambino, lo lasciarono andare perché dicesse che gli ebrei abitanti in via Planta al 7 lo avevano tenuto rinchiuso in cantina”. Ma il giornalista americano Shneiderman, che il giorno dopo il pogrom, disse di aver parlato col Henryk, sostenne che il bambino gli raccontò che un amico dei suoi genitori, un certo Bartoszynski, lo aveva incontrato per strada e portato a 25 chilometri da Kielce e che fu lui a dirgli di raccontare di esser stato rapito e tenuto in una cantina”.
Il 4 luglio, alle 8 del mattino, il signor Błaszczyk, con il figlioletto e il vicino di casa Dygnarowicz si recarono al commissariato sulla via Sienkiewicz. Passando per la via Planta, secondo il racconto del padre, Henry indicò il palazzo al numero 7, dove abitavano gli ebrei, e disse che lì era stato nascosto: “Gli chiesi se riconosceva quello che lo aveva rapito, e lui disse di sì indicando un ebreo basso con un cappello verde, in piedi in mezzo ad altri tre”. Al commissariato, il racconto del bambino fu preso per vero. Il commissario Edmund Zagórski dette l’ordine di arrestare il giovane ebreo dal cappello verde: un certo Singer. Andarono a prenderlo sei poliziotti, con il signor Błaszczyk e il figlio. Singer disse: “Quel ragazzo è un furbetto. Ditela tutta: volete prendere dei soldi da un ebreo”. Intanto la gente si andava accalcando per strada. I poliziotti raccontavano a tutti quel che era accaduto. Dynarowicz giocò un notevole ruolo nell’aizzare per strada la gente.
Uno degli abitanti del palazzo, Jeckiel Alpert, vista la gente che si stava assemblando, chiese al responsabile del Comitato ebraico, Seweryn Kahane, di recarsi al commissariato per chiedere la liberazione di Singer e por fine alla provocazione. Kahane ebbe delle rassicurazioni, ma appena uscì, il commissario Zagórski (come riconobbe durante il processo nel marzo del 1947) inviò una camionetta, con dentro anche il piccolo Błaszczyk, per ispezionare la cantina. Facendosi strada tra la gente, i poliziotti dicevano di andare a ispezionare “il luogo dove gli ebrei tengono rinchiusi i bambini polacchi”. 

La polizia circondò il palazzo. Alle 9,30, il piccolo Błaszczyk vi entrò con alcuni poliziotti ma non riuscì a individuare il luogo dove era stato rinchiuso. Si scoprì che l‘edificio non aveva cantine.
Secondo la testimonianza di un ebreo sopravvissuto: “I poliziotti iniziarono a gridare e chiederci dov’era il bambino polacco che era stato ammazzato. Perquisirono il palazzo e non trovarono niente”.
A quel punto entra in scena il capo dei servizi di sicurezza (UB) di Kielce, il maggiore Władysław Sobczyński, che ordinò al capo della polizia di ritirare dal luogo i poliziotti “perché poteva trattarsi di una provocazione”. Nello stesso tempo, il capo dei servizi di sicurezza inviò 6 suoi agenti a controllare cosa stesse accadendo. Un altro dirigente dei servizi di sicurezza, Albert Grymbaum, di origine ebraica, che sarà un testimone chiave degli avvenimenti, e il principale accusatore dell’inerzia e della complicità dei suoi superiori, si trovava all’interno dell’edificio: “Telefonai a Sobczynski insistendo che bisognava mandare degli uomini perché la situazione si stava facendo pericolosa. Mi rispose che avrebbe mandato l’esercito (…) I soldati arrivarono tra le 10 e le 10,30 ma non gli era stato detto che era in atto una provocazione e non avevano avuto nessun particolare ordine dai loro superiori. Una parte dei soldati e dei poliziotti entrò nell‘edificio”. Dopo una breve ispezione, chiesero agli ebrei di consegnare le armi che avevano, minacciando rappresaglie. Alcuni, seppure avevano il permesso di portare armi, le consegnarono: 6 pistole.
L’entrata dei soldati e dei poliziotti nel palazzo di via Planta 7 fu, a detta sia dei testimoni che degli storici odierni, l’inizio del pogrom. Ewa Szuman ricorda: “Dopo le 10, mi è difficile stabilire con esattezza l’ora, dopo che i poliziotti avevano sequestrato le armi, la folla fece irruzione nell’edificio (…). I poliziotti per primi cominciarono a sparare sugli ebrei. Ne uccisero uno e ne ferirono alcuni”. L’agente Grymbaum si trovava al primo piano: “Raccolsi una quarantina di ebrei in una stanza non permettendo ai soldati di entrare e dicendo loro che avevano il compito di mantenere l’ordine in strada e non di perquisire gli abitanti dell’edificio (…). Un soldato mi disse di tacere o mi avrebbe ammazzato come un cane. (…) Dopo alcuni minuti vennero da me due ebrei e mi dissero che i militari stavano ammazzando gli ebrei e derubandoli. Sentii allora degli spari dal piano di sopra e anche dalla strada.” La versione del suo superiore, Sobczynski, data il giorno dopo come versione ufficiale, fu: “Mentre venivano disarmati gli ebrei, uno dei soldati, senza motivo, fece partire un colpo. Questo fatto eccitò gli animi e fece precipitare la situazione. ” 

In realtà, per le scale i soldati sparavano e picchiavano gli ebrei con i calci dei fucili. E c’erano anche molti civili e donne che li picchiavano e derubavano.
Attorno al palazzo si trovavano già dalle 1.000 alle 3.000 persone. Nel pomeriggio, i partecipanti al pogrom sarebbero diventati 15.000. La gente lanciava sassi contro le finestre e le persone che tentavano di fuggire. Urlavano di voler vendicare i bambini polacchi uccisi dagli ebrei. Soldati e poliziotti collaboravano al linciaggio. Raccontò Natan Laper: “Quando mi trovai in cortile fui circondato dalla gente che iniziò a colpirmi. Poi mi lasciarono in pace perché mi finsi morto. Fu allora che un soldato mi sparò, mentre stavo a terra”. Molti degli ebrei che rimasero nel palazzo furono gettati dalle finestre: “Dal secondo piano gettarono un uomo. Sul cadavere si avventò un soldato e, davanti alla folla che lo incitava, gli spaccò la testa. (…) La gente gridava ‘Non abbiamo paura dell’esercito, l’esercito è con noi.” Il responsabile del Comitato ebraico, Seweryn Kahane, che non aveva voluto abbandonare l’edificio finche fosse rimasto un solo ebreo in pericolo, venne ucciso a freddo, nella sua stanza, con un colpo alla tempia, da un tenente dell’esercito polacco.
Verso le 10,30 si recarono sul posto il capo dei servizi di sicurezza Sobczynski e il consigliere sovietico Spilevoj. Il comandante della città, Markiewicz, per calmare la folla, propose addirittura di formare una delegazione che verificasse che nel palazzo non ci fossero bambini polacchi assassinati. Le autorità, né prima né dopo, fecero nulla per fermare il precipitare degli eventi. Il comandante regionale della milizia, il colonnello Wiktor Kuznicki e il capo della polizia Gwiazdowicz furono responsabili di gravi inadempienze, ed evidenti complicità. 

L’unico vero intervento, verso le 11,00, fu quello dei pompieri. Alcuni agenti della sicurezza chiesero loro di gettare acqua con gli idranti per disperdere la folla, provocando una violenza reazione che costrinse i pompieri a tornare in caserma.
Per le strade attorno all’edificio la violenza cresceva in modo bestiale: chi veniva visto ferito, era rincorso e sopraffatto. L’esercito isolava la zona con un cordone di uomini che non permettevano a nessuno di entrare, ma che lasciava mano libera a coloro che si trovano all’interno della zona del massacro.
Alle 12,00 si presentò il procuratore Wrzeszcz che intendeva prendere in mano la situazione. Alla sua domanda su chi comandasse in quel marasma, si sentì rispondere che c’erano vari reparti e che ciascuno faceva di testa sua: “Dissi agli ufficiali che bisognava disperdere la folla e che occorreva mettere in conto di usare le armi. Mi risposero duramente, che nessuno avrebbe dato un ordine simile e che i soldati non l’avrebbero eseguito. I militari che mi stavano attorno confermarono le parole degli ufficiali e dissero che era già stato sparso abbastanza sangue. Capii che non si poteva far altro che chiedere che gli ebrei fossero portati via da lì con dei camion. Anche su questo non furono d’accordo”.
La situazione sembrava comunque essersi un po‘ calmata. Ma alle 12,30, circa 600 operai dell’Acciaieria dei Ludwik, approfittando della pausa pranzo, si recarono in centro, ruppero il debole e complice cordone dei militari, e armati di arnesi e bastoni dettero vita a una nuova fase del pogrom, nella quale furono massacrate una ventina di persone. Gli operai erano stati sobillati dal loro collega Andrzej Błaszczyk, fratello del padre del “bambino rapito”. Il direttore, l’ingegner Sobol, ebreo, non potette fermarli e anzi dovette abbandonare precipitosamente lo stabilimento. Dalle relazioni dell’inchiesta, emerge che il capo della sicurezza Sobczynski, quando seppe del corteo degli operai, chiese al segretario del partito comunista (Partito Polacco dei Lavoratori: PPR), Kalinowski, di recarsì là e tenere loro un comizio. Ma Kalinowski “si rifiutò perchè si sarebbe detto che il partito comunista difende gli ebrei e inoltre il suo aspetto fisico lo faceva sembrare un ebreo”. 

Alle 14,30 intervennero dei militari provenienti dalla caserma di Zgòrsk (una località a 6 chilometri da Kielce). Furono loro, dopo molte incertezze, e con dei camion, a raggiungere l’edificio e a portare in salvo gli ebrei superstiti, sistemandoli poi nell‘ ospedale Sant‘Alessandra e nello stadio della città.
Alle 16,00 giunsero i rinforzi militari da Varsavia. Diversi ebrei furono picchiati durante il tragitto e persino dentro allo stadio (un poliziotto sedicenne, Edward Krawczyk, ammise al processo di aver percosso ripetutamente con una pietra un ebreo che doveva accompagnare lontano da quella zona).
Anche se la situazione, a metà pomeriggio, attorno al “palazzo degli ebrei”, era ormai calma, nel resto della città la foga antisemita dilagava. Jadwiga Manecka, che durante il pogrom aveva aiutato degli ebrei feriti, tornata a casa, trovò la madre terrorizzata dalle minacce di farle saltare in aria la casa, ricevute da alcuni uomini che avevano visto la figlia “complice degli ebrei”. Un migliaio di persone si recò sotto l’ospedale chiedendo che fossero dati loro gli ebrei (tanto che il direttore fece evacuare i feriti meno gravi). Ma l’episodio più bestiale avvenne in via Leonard 15. Un gruppo di scalmanati si radunò davanti alla casa dove abitava la famiglia ebraica Fisz. Cercarono più volte di forzare la porta ed entrare. Alle 15,00 la polizia fece una perquisizione alla ricerca di armi. In casa c’erano: Regina Fisz, di 23 anni, con il piccolo Adam di tre settimane, la governante polacca e Adam Moszkowicz. La perquisizione era guidata dal poliziotto in divisa Stefan Mazur. Dietro di lui entrarono altri tre uomini (Kazimierz Nowakowski, Józef Slicza e Antoni Pruszkowski) che costrinsero gli ebrei a vestirsi e a prender con sè il necessario. Un corteo che li insultava si formò dietro di loro. I quattro fermarono un camion, vi fecero salire gli ebrei, e costrinsero il guidatore a recarsi verso la periferia. Regina Fisz disse di avere un anello e dei soldi che avrebbe dato loro in cambio della la vita e della promessa di non tornare mai più a Kielce. Giunti nei pressi di un bosco, li fecero scendere e li depredarono di tutto quel che avevano. Loro provarono a fuggire. Moszkowicz correva con il bambino in braccio. Regina cadde e fu uccisa dal Masur. Moszkowicz, pensando di non farcela, abbandonò il bambino. Sentì che spararono anche ad Adam. Giunto a Kielce, in via Aleksander, fu riconosciuto per le ferite e bastonato fino a perdere conoscenza. Gli assassini furono arrestati il 7 luglio e, dopo un rapido processo, condannati a morte.

In quello stesso giorno di follia e barbarie, alle 13,00, un gruppo di un centinaio di persone assaltò il treno Lublino-Breslavia. Furono linciati due ebrei. Poi, gente comune, e persino boy-scout, si misero a correre per i vagoni a caccia di ebrei. Ne ammazzarono 6. Alla stazione di Piekoszów (8 chilometri da Kielce) il treno incrociò il suo corrispettivo: Breslavia-Lublino. Anche questo treno fu assaltato. 8 ebrei furono portati giù dai vagoni e lapidati sulla massicciata, mentre i macchinisti (gente che, durante la recente guerra, aveva condotto, senza scrupoli, convogli pieni di deportati) aspettavano che gli assassini compissero la loro opera per far ripartire il treno. Anche altri treni furono assaltati quel giorno. Nei vagoni, sui binari, alle stazioni, ammazzarono 30 ebrei e ne ferirono un numero imprecisato
In città, alla fine di quel tragico 4 luglio, si contarono 38 morti e 40 feriti gravi. Tra i morti c’erano, oltre a Regina e il neonato Adam, anche una donna di 35 anni incinta di sei mesi. Inoltre: 2 polacchi, morti durante l’assalto al palazzo di via Planty. L‘ 8 luglio furono seppellite nel cimitero ebraico di Kielce 40 persone e 2 in quello di Łódż. Molti testimoni sottolinearono la bestialità di quel massacro, sostenendo che era stato addirittura molto peggio di ciò che avevano visto e subìto durante l’occupazione tedesca. Roman Wach, un sarto abitante in via Planta 13, raccontò: “Attorno alle 13 piombò nel mio cortile un ebreo e dietro di lui, attraverso il cancello, entrò una folla che lo inseguiva, allora l’ebreo si buttò dietro la legnaia ma là fu raggiunto e ammazzato (…) Mezz’ora dopo, sulla via Sienkiewicz, dietro la stazione ferroviaria, 8 giovani massacravano un uomo in mezzo alla carreggiata con delle palle di ferro (…) Come ex prigioniero dei campi di concentramdento devo ammettere che non avevo mai visto un tale sadismo”. Max Erlbaum fu fermato per strada, spogliato per vedere se era circonciso, pestato e derubato, davanti agli occhi distratti di alcuni ufficiali dell’esercito. Edka Eisenman, che nel pomeriggio si trovava nell‘ ospedale: “Vidi molti corpi nudi, era passato appena un anno e mezzo da quando nel lager mi ero dovuta abituare alla vista dei cadaveri, ma quello spettacolo era sconvolgente. Erano stati rapinati di tutto, anche dei vestiti”. 

Sul far della sera di quel maledetto giorno si tenne una riunione delle massime autorità cittadine. Secondo quello che riferì in seguito il capo dei servizi di sicurezza, Sobczyński, il comandante regionale della milizia, il colonnello Wiktor Kuznicki, attaccò l’operato della polizia segreta e sostenne che la milizia aveva le prove di uccisioni rituali di bambini polacchi da parte degli ebrei. Inoltre affermò che i fatti di quel giorno erano una provocazione messa in atto dagli stessi ebrei.
Fu stabilito il coprifuoco dopo le 20,0 ed esautorato l’esercito di stanza in città, considerato inaffidabile. Furono fatti convergere in città soldati da tutta la Polonia. Si contarono gli arrestati: un centinaio. Vennero istituite varie commissioni di inchiesta (statali, militari, politiche e delle organizzazioni ebraiche).
Il primo risultato fu che il 16 luglio furono arrestati: il capo dei servizi di sicurezza Sobczyński (che fu poi dichiarato innocente e fece carriera nei servizi militari, fino a diventare attaché militare presso l’ambasciata polacca in Bulgaria); il comandante della milizia Kuznicki (condannato a un anno e liberato nell’ottobre 1947); il comandante della polizia Gwiazdowicz (dichiarato innocente) e il capo del commisariato di polizia Zagórski (trasferito).
Il 9 luglio (cinque giorni dopo il pogrom) si tenne il primo processo, presso l’Alta corte militare, ai principali esecutori degli assassinii e, con una rapida sentenza, l’11 luglio, furono condannate a morte 9 persone e altre 3: una all’ergastolo, una a 10 e una a 7 anni. Nei processi successivi (contro civili e funzionari dell polizia e dell’esercito) non ci furono altre condanne a morte. 

Ma che fine fece il “bambino rapito” che fu il pretesto che scatenò quel pogrom? Henryk (Henio) Błaszczyk tacque per 50 anni. Nel 1996 si decise per la prima volta a raccontare la sua storia davanti alla cinepresa, di Andrzej Miłosz, fratello del premio Nobel per la letteratura. Raccontò che, nell’autunno del 1945, dopo il ritorno del padre dalla Germania, dove era stato ai lavori forzati, la famiglia si era trasferita a Kielce dalla campagna. Erano molto poveri e soffrivano continuamente la fame. Henryk non ricorda in quali circostanze un bel giorno lasciò la città su un carro e andò nel villaggio di Bielak dai Nartosinski. Ricorda però che era felice e finalmente poteva mangiare. Sarebbe voluto rimanere là per sempre, ma invece tornò a casa dopo tre-quattro giorni. Il padre non lo sgridò. La mattina dopo lo portò al comando di polizia ordinandogli di dire che era stato da degli ebrei che lo avevano rinchiuso in cantina e che un ragazzino ebreo lo aveva aiutato a fuggire dalla finestra. Quando Henio e il padre furono nei pressi della polizia, li attendeva già un gruppo di esagitati. Ricorda che a un certo punto lo rinchiusero nel gabinetto e vi rimase alcuni giorni. Poi lo sistemarono altrove con la madre e il fratello più anziano. Li liberarono soltanto nel gennaio del 1947. In seguito, vide varie volte a casa sua dei membri della polizia segreta che bevevano vodka con suo padre. E il padre e la madre gli imposero di tacere “perché altrimenti la Polizia segreta (UB) ti taglia la testa”. E lui se ne stette zitto. Nel film di Miłosz e Weychert parlò appunto per la prima volta. Nelle sue risposte ci sono parecchie cose non chiare. Alcune anche a lui paiono strane. Ma non potrà dire e chiarire più niente. È morto poco dopo la sua pubblica confessione.
Kielce era stata occupata dalle truppe germaniche appena pochi giorni dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale. I tedeschi incominciarono immediatamente le persecuzioni contro gli ebrei del luogo (circa 24.000 persone). Un Ghetto venne istituito nell’aprile 1941 e i nazisti incominciarono le deportazioni il 20 agosto 1942. Gli ammalati e gli orfani vennero giustiziati, mentre quasi tutti gli ebrei della città vennero deportati a Treblinka. I restanti duemila vennero mandati ai lavori forzati; nell’agosto 1944 i prigionieri sopravvissuti vennero inviati a Buchenwald o Auschwitz.

L’esercito sovietico liberò Kielce nel gennaio 1945: soltanto 2 ebrei rimanevano in città. Nei diciotto mesi successivi, circa 150 ebrei si raccolsero nell’ex edificio della comunità ebraica, in via Planta 7, che fu l’epicentro del pogrom.
Nel luglio del 1946 c’erano in Polonia 244.964 persone che si dichiaravano ebrei . Di essi: 136.550 erano ebrei polacchi rimpatriati dall’Unione sovietica nel periodo febbraio-giugno 1946 (in base all’accordo per il rimpatrio tra Polonia e Unione Sovietica, del 6 luglio 1945); gli altri 108.000 erano ebrei che erano sopravvissuti alla guerra in Polonia o erano arrivati clandestinamente dall’Ucraina, la Bielorussia e la Lituania. La maggioranza di essi abitava nelle terre sottratte (le cosiddette: Terre riprese) alla Germania (Breslavia e la Slesia e Stettino), oltre che a Varsavia e Łódź. Verso questi sopravvissuti, che avevano perso tutto, l’ostilità era diffusa. Ne erano consapevoli soprattutto le organizzazioni ebraiche che aiutavano il rimpatrio, la sistemazione e il reinserimento degli ebrei scampati all’Olocausto: “Ancora durante il periodo di preparazione al rimpatrio, in Unione Sovietica, fu fortemente propagandato lo slogan del rimpatrio nelle Terre Occidentali sottratte alla Germania. Bisognava tener conto che sarebbe stato impossibile che i rimpatriati ebrei, provenienti soprattutto da città e cittadine della Polonia centrale e orientale, potessero insediarsi nei luoghi dove avevano risieduto prima della guerra (…). Si dovette garantire alla popolazione ebraica che rientrava la sicurezza personale, perché era minacciata (…). In questa situazione, era ovvio, che occorreva indirizzare i rimpatrianti principalmente verso le terre occidentali, poiché quei terreni, abbandonati dai tedeschi, potevano facilmente procurar loro un tetto sulla testa” .
Gli ebrei scampati o rientrati in Polonia erano vittime di continui attacchi. Nell’agosto del 1945, il wojewoda della regione di Kielce, descriveva così la situazione: “Terrore e rese dei conti, gli assassinii di ebrei hanno le più terribili forme, e le forze di sicurezza nella gran parte dei casi si comportano con indifferenza”.

Nell’aprile del 1945, sempre in quella regione, furono uccisi 18 ebrei e, in giugno, 13. Era una violenza che attraversava tutto il paese: gli ebrei che tornavano rischiavano di essere ammazzati. Come ricordava Marek Edelman: “Kielce non era un caso isolato. Si avvertiva tensione. Gli ebrei tornavano dalla Russia, qualcuno avrebbe potuto voler ritornare nella propria casa. Una bella fetta di popolazione polacca aveva fatto un passo avanti occupando appartamenti, negozi. Molte di quelle cose che gli ebrei avevano lasciato in deposito ai polacchi erano diventate loro. Avevano paura di veder tornare un giorno qualcuno che avrebbe potuto chiederle indietro. A Łódź avevo un amico, Friszke, un sarto di Lublino tornato in Polonia con l’Armata rossa. Non era un personaggio importante. Quel pomeriggio avevo un appuntamento con lui. Quando sono arrivato, era disteso in una vasca da bagno. Gli avevano sparato alla nuca mentre si lavava le mani, appena tornato dal lavoro. Gli ebrei venivano fatti scendere dai treni in mezzo ai boschi e uccisi. Quelle erano azioni dei partigiani dell’estrema destra. C’era gente che diceva che Hitler non aveva finito l’opera, perché erano rimasti ancora degli ebrei. Che gli ebrei volevano impadronirsi della Polonia.”
La tragedia vissuta dagli ebrei, che erano vittime dell’Olocausto e erano ridotti a uno sparuto gruppo di sopravvissuti, non aveva attenuato, in Polonia, la tradizionale avversione nei loro confronti. L‘ aver assistito impotenti allo sterminio degli ebrei aveva prodotto in molti polacchi una sorta di rancore verso le vittime della furia nazista. A causa della loro presenza nel Paese, la Polonia era divenuta il “luogo storico dell’Olocausto” e lo sarebbe rimasta nella memoria futura. Alla radice di tutto c’era una profonda malattia morale, un antisemitismo culturale, religioso e politico divenuto paranoia (ed è a causa di ciò che, anche nella Polonia odierna, è paradossalmente possibile un “antisemitismo senza ebrei”).
L’indifferenza quasi generale (senza dimenticare significativi episodi di coraggioso altruismo) verso l’annientamento degli ebrei compiuto dai tedeschi in terra polacca (e senza nemmeno chiudere gli occhi, come ha fatto per anni la storiografia polacca ufficiale, su vergognosi esempi di complicità), fu la malattia che il paese si portò come eredità, oltre alle macerie, nella nuova realtà dopo la guerra. Un’indifferenza come sorda colpa e rancore. Ed è ciò che Tych sottolinea come problema storiografico, oltreché psico-sociologico: “Nella II Repubblica (la Polonia tra le due guerre) c‘erano dei pogrom, ma dai tempi del pogrom di Leopoli, alla vigilia dell’indipendenza, non c‘erano stati pogrom così sanguinosi. Nella II Repubblica non era pensabile che venissero uccise decine di persone davanti agli occhi di tutti, in modo così bestiale, con le pietre e i bastoni, con i chiodi e che nessuno fermasse la folla assassina (…) C’è una differenza colossale fra il pogrom di Przytyk del 1936 e quello di Kielce dieci anni dopo. (…) Cosa è successo tra il 1936 e il 1946? La guerra appunto, l’aver assistito all’Olocausto, spesso indifferenti, ma non senza che ciò lasciasse nei testimoni delle tracce di devastazione morale” .

Nella Chiesa cattolica ci furono due atteggiamenti opposti, come ha messo bene in luce Adam Michnik, utilizzando i documenti dell’inchiesta condotta dai diplomatici americani: il vescovo di Kielce, Czesław Kaczmarek, sostenne che la colpa per il pogrom era degli ebrei che collaboravano con il regime comunista; e il vescovo di Częstochowa, Teodor Kubina, invece condannò con forza e coraggio l’antisemitismo. C’era in questo atteggiamento un aspetto propriamente politico che non va trascurato. Krystyna Kersten, che per prima in Polonia ragionò su quegli avvenimenti da un punto di vista storico-politico e non emozionale, spiega così l’atteggiamento della chiesa polacca e dell’opposizione moderata: “Prendere posizione contro Kielce avrebbe significato essere subalterni alla campagna comunista. Fu allora quasi impossibile per gli intellettuali e i giornali d’opposizione trovare una formula per condannare l’accaduto. Fu una tragedia. Non furono in grado di dire che, anche se c’era stata una provocazione, quelli che avevano partecipato al pogrom non appartenevano al Kgb, ai servizi segreti, ma erano polacchi in carne ed ossa. Nascondere questa verità in nome di un calcolo politico era comunque il segnale che un pogrom antiebraico non scandalizzava un’opinione pubblica che considerava gli ebrei alla stregua di stranieri” . I soldati che aprirono la strada alla folla dei fanatici durante il pogrom, gli ufficiali che guardavano senza intervenire la caccia all’uomo e i linciaggi per le strade di Kielce, gli agenti che sparavano sugli inermi o li disarmavano, è poco importante che fossero parte di un complotto o di una provocazione ben orchestrata: erano prima di tutto dei polacchi, che assieme ad altri polacchi, ammazzavano dei cittadini polacchi, considerandoli nemici perché di religione e idee diverse.
Nei dibattiti politici e storiografici, in Polonia, non è mai mancata la domanda, francamente abbastanza rozza: “a chi giovò il pogrom di Kielce?” È certamente vero che quei morti, in quel contesto, furono sfruttati per fini politici. Dopo i non buoni risultati, per il Partito comunista (PPR), del Referendum del 30 giugno 1946, indetto per ritardare le elezioni, si profilava la prospettiva, nonostante la pesante occupazione sovietica, di un rafforzamento del Partito contadino e di quello Socialista (PPS). Un evento come quello di Kielce fu usato dai comunisti per screditare internamente e internazionalmente l’opposizione e la Chiesa e per stringere le maglie della repressione . Ma questa non è certo la prova che il pogrom lo organizzarono e lo gestirono loro (come le decine di altri omicidi di ebrei che scandirono quel periodo): “La violenza nei confronti degli ebrei di Kielce fu una tragedia, ma ancora più tragica fu l’interpretazione dell’episodio fornita nei giorni successivi. L’opposizione non elaborò alcuna riflessione su un atto di barbarie antisemita compiuto da un’intera città e si limitò a denunciarlo come una provocazione del potere bolscevico: il pogrom di Kielce era un’operazione organizzata dal partito comunista allo scopo di screditare le forze che si opponevano al regime sovietico. Le reazioni inconsulte della folla inferocita venivano ‘coperte’ dalla tesi del complotto contro l’opposizione. Il potere, da parte sua, si servì strumentalmente di quei fatti per nascondere i veri risultati del referendum e approfittò dell’occasione per regolare i conti con le forze che si opponevano al totalitarismo. La lotta all’antisemitismo, dunque, era solo un pretesto. Il mondo ebraico cadde nella trappola: si schierò unanimemente con il governo comunista chiedendo una repressione esemplare delle forze di opposizione. Non ebbe –e non poteva essere diversamente- la capacità di comprendere che intorno al tema dell’ebraismo si stava giocando un gioco sporco. Il pogrom veniva paradossalmente svuotato di significato e usato in modo cinico sia dai comunisti che dagli anticomunisti per i loro fini politici. A nessuno, in realtà, interessava la sorte degli ebrei” .

Chiaramente dettata da sentimenti antisemiti è comunque la tesi di chi sostenne, e sostiene, che il pogrom se lo organizzarono, o lo amplificarono, gli ebrei per dare vigore alle idee sioniste, e convincere i sopravvissuti a emigrare in Palestina e contribuire alla fondazione dello stato di Israele. Il fatto, assai comprensibile, che centomila sopravvissuti, nelle settimane dopo il pogrom di Kielce, abbandonarono definitivamente la Polonia, e la maggior parte andò in Palestina, non significa che la cosa fosse stata programmata. Eppure, ancora nel 1983, subito dopo il Colpo di stato militare, fu pubblicato un libro dove si affermava apertamente che il pogrom era una provocazione organizzata dai sionisti .
Dopo il pogrom non rimase, a Kielce, nemmeno un ebreo.

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

4 luglio 2019

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