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Il Senato americano riconosce il genocidio armeno

di Simone Zoppellaro

Dopo la Camera a ottobre, ieri anche il Senato americano ha riconosciuto il genocidio armeno. L’ha fatto con un voto all’unanimità destinato a fare storia. Questo nonostante, in precedenza, la risoluzione fosse stata bloccata tre volte da tre diversi senatori repubblicani. Nonostante l’opposizione di Trump e della sua amministrazione oltre, naturalmente, agli sforzi e ai tentativi di Erdoğan e del suo governo di farla deragliare. E a dispetto, soprattutto, di una lunga tradizione di reticenza (o di negazionismo, se si preferisce) da parte del governo americano rispetto a questo tema. Non un solo presidente statunitense, è bene ricordarlo – con la sola eccezione di Reagan in una sola occasione – ha mai pronunciato la parola genocidio riguardo allo sterminio degli armeni avvenuto nell’Impero Ottomano nel 1915.
Una battaglia su e per la memoria che, a oltre un secolo da quei tragici eventi, non pare ancora conclusa. Il voto di ieri porta a 32 il numero dei Paesi che abbiano riconosciuto questo genocidio, spesso solo negli ultimi anni. Mancano ancora all’appello Paesi come la Gran Bretagna (nonostante il riconoscimento ufficiale di Galles, Scozia e Irlanda del Nord) e Israele, dove i tentativi di riconoscimento hanno avuto una storia travagliata, nonostante la generosità con cui molti ebrei – ieri come oggi, dentro e fuori Israele – si siano battuti per questa causa. Un bel volume del 2015 edito da Giuntina, Pro Armenia, a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti, risulta una testimonianza potente in tal senso.

E la memoria – dopo il voto americano di ieri, la cui notizia è giunta in Italia in serata – è andata subito a una delle figure affrontate in questo libro. Una «figura cruciale e troppo spesso dimenticata della riflessione politica e umanistica del ventesimo secolo», come scrive Antonia Arslan nella prefazione del volume. Ci riferiamo al giurista ebreo polacco Raphael Lemkin. Un Giusto di cui racconto spesso quando sono invitato a parlare nelle scuole. Per un motivo ben preciso: sono convinto che quella di Lemkin sia una parabola universale sul potere dell’ingegno umano e del linguaggio. Un uomo – piuttosto chiuso e introverso, come ci raccontano gli storici – che da solo ha inventato un termine capace di segnare la storia, ben oltre la scomparsa del suo stesso autore. Di far tremare ancora oggi tiranni e eserciti, di essere un veicolo potente di prevenzione alla violenza, in contesti storici e geografici diversissimi. Pietra d’inciampo e, insieme, per chi abbia il coraggio di riconoscere la memoria e le colpe del passato, strumento di riconciliazione per il futuro.
La parola genocidio, infatti, usata e a volte abusata da molti (si pensi a certe retoriche su un presunto “genocidio” degli italiani da parte di forze politiche che si oppongono all’immigrazione), non esisteva in nessuna lingua del mondo prima che Lemkin, che già da studente iniziò a interessarsi alla questione armena, coniasse questo neologismo che porterà, proprio su sua iniziativa, alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio adottata dalle Nazioni Unite nel 1948.

Tornando alla risoluzione di ieri: come non pensare al genio di questo Giusto, a questa sua intuizione terminologica e giuridica oggi citata da tutti, quando consideriamo come la Turchia, stando ai dati riportati dal Center for Responsive Politics, abbia speso 6 milioni di dollari (solo nel 2018 e solo per gli Stati Uniti) in attività di lobby per prevenire il riconoscimento del genocidio armeno? Ebbene, non sono bastati: l’abbiamo visto ieri. Non sono bastate le pressioni diplomatiche, gli interessi economici e militari di altissima importanza per Washington, per fermare una sola parola inventata da un solo uomo, assetato di pace e giustizia.
La storia di Raphael Lemkin dovrebbe essere insegnata in tutte le scuole, come quella di Alessandro Magno o Napoleone, come Leonardo o Cartesio. Gli studenti di oggi e gli uomini di domani dovrebbero sapere come le loro idee possano cambiare il mondo, anche in questo contesto storico in cui l’uomo, come scriveva il filosofo Günther Anders, appare sempre più marginalizzato, persino inutile, di fronte allo strapotere della tecnologia e a un potenziale distruttivo (dalla sfera militare ai mutamenti climatici) che sembra andare spesso oltre le nostre potenzialità stesse di comprensione, per non parlare di quelle di intervento.
Lemkin, citato non a caso nella risoluzione americana, è stato un gigante della storia del Novecento, secolo di cui, come pochi, comprese per intero il lascito di orrore, avvertendo al contempo l’urgenza di prevenire, in futuro, che si riproponessero tragedie come il genocidio armeno e la Shoah. Lo sanno bene, in questo nuovo millennio, gli yazidi e i rohingya, che molto investono nell’intuizione di Lemkin per ritrovare dignità e pace. Lo sanno i sopravvissuti di Srebrenica, alla Cambogia dei Khmer, al genocidio del Ruanda. Lo sanno bene anche gli armeni, naturalmente: il silenzio secolare sul genocidio è stato, e in parte è ancora, una ferita aperta nella coscienza di una intera nazione.
Se anche un solo uomo come Lemkin nascerà in questo nuovo millennio, con le sue capacità di leggere il passato, di credere e incidere – grazie alla forza delle sue idee – sul futuro, l’umanità intera, anche se solo in piccolissima parte, sarà senza dubbio diversa.

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