Uno dei termini più controversi che sono risuonati nella recente conferenza Youth4Climate di Milano è quello di giustizia climatica. Con esso si vuole alludere al fatto che quanti, nel mondo odierno, subiscono le conseguenze più gravi del cambiamento climatico sono proprio coloro che hanno contribuito in misura minore a crearlo. Sono i paesi meno o male industrializzati, la cui giusta aspirazione a godere dei medesimi benefici dello sviluppo, assicurati alle società tecnologicamente più avanzate e affluenti, verrebbe paradossalmente frustrata appunto dalla volontà di queste ultime di imporre un limite artificiale alla crescita economica, nel tentativo di porre un argine allo sfruttamento illimitato delle risorse naturali. Sarebbe una nuova versione del malthusianesimo, che imponeva alle classi povere una autolimitazione della capacità di riproduzione e di godimento, in nome della legge bronzea del salario, in regime capitalistico.
Lo slogan ha una indubbia efficacia propagandistica e persuasiva, ma l’espressione di per sé suona un po’ stonata. Associare il termine giustizia a quello di clima sembra del tutto illogico, perché lega una asserzione valoriale ad una condizione naturale del tutto sottratta alle capacità di previsione e dunque alla volontà degli uomini. Viene alla mente la famosa operetta di Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese, in cui, alle rimostranze dell’abitante delle terre artiche per l’impossibilità di trovare riparo neppure nelle assolate regioni dell’Africa, la Natura risponde:
immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità.
Non intendo minimamente accostare il nome di Leopardi a quello degli odierni negazionisti del mutamento climatico, che assumono un irresponsabile atteggiamento fatalistico di fronte a quella che sembra a tutti noi una lapalissiana evidenza: l’intensificazione e l’accelerazione di processi naturali, che pure hanno una loro logica interna imprevedibile (come i terremoti, il vulcanismo, la deriva dei continenti, le correnti atmosferiche e quelle oceaniche), dovuta alla eccessiva antropizzazione dell’ambiente naturale. Leopardi pensava infatti a una nuova alleanza degli esseri razionali (umani e non umani, civilizzati e selvaggi), in risposta alla preponderante e cieca forza naturale, che sembra predisposta alla loro infelicità. Una idea poi non così lontana da quelle delle odierne tendenze ecologiste e ambientaliste giovanili.
Ma rimane il fatto che appellarsi in modo astratto e volontaristico alla giustizia (commutativa o distributiva che dir si voglia) in una materia che deborda dal potere previsionale di scienziati, tecnici, opinione pubblica, decisori politici, può costituire un errore di logica gravido di conseguenze, che vanno oltre la buona volontà o la sincerità delle intenzioni. Alla soluzione (ammesso che se ne trovi una) dell’odierno problema ambientale su scala planetaria, più che l’approccio emotivo-esigenziale («se non ora, quando?») gioverebbe forse quello suggerito dal filosofo della scienza Karl Popper: la cosiddetta meccanica a spizzichi. Esso esclude la possibilità di un cambiamento sociale radicale istantaneo, che non si risolva in una distruzione dell’esistente (tanto nella versione rivoluzionaria marxista, quanto in quella ultra-liberista). Ad esso sostituisce una strategia di progressivi adattamenti e correzioni delle conseguenze non volute delle modificazioni introdotte dalle società sull’ambiente naturale, avvicinabile al metodo scientifico del progresso della conoscenza per prove ed errori.
In un recente viaggio, che mi è capitato di compiere nella odierna Cina Settentrionale (in quella che si chiama poeticamente la Via della Seta), ho potuto constatare di persona tutta la violenza esercitata dallo Stato sulle popolazioni residenti e sull’ambiente naturale, che segue la logica di un potere di partito dittatoriale e dispotico. Intere catene collinari e montuose tagliate di netto, per fare posto a strade e reti ferroviarie ad alta velocità. Immensi grattacieli, sorti come funghi sulle rive di antichi corsi d’acqua, imbrigliati dalle dighe degli impianti idro-elettrici. Intere popolazioni trapiantate nei territori di nuova industrializzazione, costrette in ghetti dorati (quando non ristrette nei gulag per motivazioni etniche o esigenze di controllo politico). A fare da contrasto con questa super-industrializzazione, sconfinate seminagioni di pannelli solari e kilometriche installazioni di pale eoliche, in quelle che erano un tempo le terre libere della Mongolia interna. Un panorama che sembrava dar consistenza e capacità visionaria alle celebri pagine di Martin Heidegger sul Ge-stell (Impianto) come verità ed essenza della tecnica moderna.
Ora, un simile approccio a quella che si ama chiamare, con un eufemismo, transizione ecologica (e la Cina odierna ne è parte integrante e necessario protagonista) mi sembra andare nella direzione opposta a quella suggerita da Karl Popper. Nessuna meccanica a spizzichi, ma progettualità indirizzata da spinte economiche e imperativi politici, destinata a conflagrare in disastri, di cui la Cina ha fatto esperienza nei secoli, tanto da divenirne quasi proverbiale (si rileggano le celebri pagine di Sartre sul pratico-inerte nella Critica della ragione dialettica). Si compete qui con il determinismo naturale applicandovi una volontà di potenza che non può che rivelarsi, alla lunga, impotente. Ma nemmeno l’appello a una astratta giustizia, in quella che rimane una lotta per l’esistenza darwiniana (contro cui a poco valgono le predicazioni morali di Santa Romana Chiesa), otterrà qualche risultato (se non l’attenuazione omeopatica dei mali che ci affliggono). Occorrerebbe un riformismo rivoluzionario (come lo chiamavano alcuni teorici francesi degli anni Sessanta), in grado di alternare decisioni radicali e contromisure sociali protettive; capace di coinvolgere attivamente i cittadini e i soggetti interessati al cambiamento, ma anche disposti ad assumerne la responsabilità e i costi (non sempre indolori).

Analisi di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale Unimi