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Il valore universale dei Giusti e la lotta all'antisemitismo

di Gabriele Nissim

La memoria dei Giusti della Shoah è un punto fondamentale per Gariwo, che ha introdotto per la prima volta un concetto nuovo nella narrazione dei genocidi: ricordare i soccorritori e gli oppositori come esempio morale per il futuro dell’umanità nella lotta contro l’antisemitismo e ogni forma di odio che possa riproporre l’abisso del male estremo di cui Primo Levi è stato forse il testimone più alto nei Sommersi e Salvati.

Per questo Gariwo ha divulgato questa pratica battendosi perché diventasse un concetto universale, facendo del Giardino di Yad Vashem un riferimento morale per il mondo intero. Riteniamo che il valore etico e morale di chi, non ebreo, ha aiutato gli ebrei sia il medesimo di chi ha soccorso gli armeni, i tutsi in Ruanda, i bosniaci, i cambogiani, gli yazidi e i perseguitati in ogni altro genocidio.

Chi aiuta un ebreo (sia anch’esso ebreo o non ebreo), come ogni uomo che salva altri esseri umani, quando si compiono delle violenze, è mosso dallo lo stesso spirito umanitario. Non esistono differenze tra soccorritori e uomini altruisti di fronte a un male estremo.

Oggi il concetto di Giusto è entrato nella memoria di altri popoli e viene usato da Kigali, a Sarajevo, a Yerevan per indicare chi si è opposto coraggiosamente ai loro genocidi.

La comunità europea e l’Italia hanno fatto proprio questo concetto con una legislazione votata dai rispettivi parlamenti che ricorda queste persone come esempi morali. Per la prima volta quest’anno le Nazioni Unite, con un intervento di Alice Wairimu Nderitu (la massima autorità per la prevenzione dei genocidi), hanno riconosciuto la Giornata dei Giusti come una data che dovrebbe venire celebrata nel mondo intero.

Tutto questo non è uno svilimento della memoria dei Giusti della Shoah, il genocidio paradigmatico del ‘900, ma segna la presa di coscienza dell’umanità intera per la prevenzione dei genocidi. In questo modo la memoria dei Giusti della Shoah ha ottenuto il più alto riconoscimento universale ed è diventata il simbolo morale di chi si oppone in ogni parte del mondo ad ogni forma di indifferenza. Del resto, ogni volta che il mondo ha preso una direzione sbagliata e si sono affermati totalitarismi o fondamentalismi, sono sempre emersi nuovi pregiudizi verso gli ebrei. In Ruanda gli hutu durante il genocidio chiamavano i tutsi “ebrei” e Stalin, alla fine della sua vita, presentò gli ebrei come i nemici dell’Unione Sovietica e si apprestò ad una campagna per la loro eliminazione che solo la sua scomparsa impedì.

La divulgazione universale dei Giusti rappresenta oggi un antidoto importante contro chi nel mondo è impegnato con discorsi antisemiti per dividere l’umanità tra ebrei e non ebrei.

Il nucleo centrale di tutta la storia dell’antisemitismo è infatti sempre quello di presentare gli ebrei come diversi e incompatibili con il resto del mondo.

La messa in discussione della storia del Sionismo e della stessa esistenza di Israele si basa infatti sul presupposto di una differenza negativa degli ebrei rispetto agli altri.

Ecco perché Gariwo ritiene che portare avanti la bandiera dei Giusti nel mondo non sia solo uno strumento fondamentale per la prevenzione di tutti i genocidi, ma per contrastare le basi dell’antisemitismo che mettono in discussione l’appartenenza stessa degli ebrei al genere umano.

Di conseguenza, l’universalizzazione del discorso sui Giusti, nato dopo la Shoah, rappresenta una risposta fondamentale contro gli antisemiti. La valorizzazione dei Giusti è un insegnamento per il mondo intero: già nel 1947, l’ebreo polacco Raphael Lemkin, anticipando i tempi con la sua battaglia ostinata, riuscì a fare approvare la Convenzione per la prevenzione e la repressione dei genocidi alle Nazioni Unite.

Lemkin aveva capito, già durante la Shoah - tra il 1933 e il 1944, quando scrisse il suo libro Axis Rule -, che bisognava unire gli ebrei al resto del mondo per la repressione dei genocidi in corso. Non ci riuscì durante la guerra, ma volle che il comandamento di non commettere un genocidio potesse diventare il nuovo imperativo categorico di tutta la comunità internazionale per il futuro dell’umanità. Aveva in mente che gli ebrei assieme a ogni minoranza potessero venire tutelati se si fosse creata un’alleanza internazionale contro tutti genocidi.

Molti ritengono che, poiché la Shoah ha la sua unicità, (anche se forse sarebbe più esatta la definizione di singolarità, o di non precedente, di Yehuda Bauer) e l’antisemitismo ha una specificità nella storia (gli ebrei considerati nemici nelle varie epoche), non bisognerebbe mai associare l’Olocausto agli altri genocidi e la lotta all’antisemitismo a quella di altre forme di odio e di pregiudizio. E per questo motivo la stessa definizione di Giusti dovrebbe essere utilizzata soltanto per chi, non ebreo, è andato in soccorso degli ebrei e non per chi ha salvato delle vittime di altri genocidi.

Alla base di questo discorso c’è il timore che se non si afferma questa differenza in modo netto, verrebbe meno la comprensione della natura delle varie forme dell’antisemitismo nella storia. Per spiegare i pregiudizi verso gli ebrei, ed educare la società a rimuovere i comportamenti antisemiti, bisognerebbe quindi concentrarsi esclusivamente sulle modalità dell’odio verso gli ebrei.

Affermando la differenza sostanziale tra l’odio antisemita e quello che colpisce altre minoranze gli ebrei sarebbero più forti nella lotta all’antisemitismo perché riuscirebbero a livello educativo a fare maggiore chiarezza nell’opinione pubblica.

Molti infatti ritengono che, in questo modo, gli ebrei possano venire maggiormente tutelati, perché cosi tutti i non ebrei sarebbero chiamati ad assumersi questa responsabilità e si potrebbe quindi realizzare l’unità del mondo contro l’antisemitismo.

Questa impostazione, che viene considerata la più produttiva e raccoglie molti consensi, proprio per il peso della colpa nelle società occidentali per le persecuzioni degli ebrei, in realtà si dimostra la più debole nella lotta all’antisemitismo e può provocare trappole insidiose.

In primo luogo perché colloca il fenomeno dell’antisemitismo al di fuori dalla storia. L’antisemitismo si riproduce sempre nelle crisi ed è utilizzato da quanti vogliono dare vita a Stati totalitari e creare a fini politici la cultura del nemico che porta all’imbarbarimento delle società. Esso trova il suo terreno migliore quando cresce l’intolleranza nei confronti delle minoranze e si affermano culture politiche antidemocratiche o di nazionalismo estremo. Non è un caso che oggi i fondamentalisti islamici, come i suprematisti bianchi, abbiano usato in vario modo l’arma ideologica del pregiudizio antisemita non solo per attaccare gli ebrei, ma per porre un freno ai processi di laicizzazione e di modernizzazione nel mondo arabo e per colpire i percorsi di integrazione con i nuovi migranti e le minoranze di diverse culture. E anche chi oggi ha voluto mettere in discussione la scienza e la ricerca medica ha presentato la pandemia come un complotto di gruppi ebraici che controllano le industrie farmaceutiche.

Di conseguenza, se la lotta all’antisemitismo viene disgiunta dai fenomeni di intolleranza che lo provocano e non si lega alle battaglie contro i fenomeni di odio del nostro tempo, non solo non affronta i meccanismi che hanno originato i pregiudizi, ma mostra tutta la sua debolezza.

Se non si sconfiggono i nuovi semi dell’odio, si perde la battaglia contro l’antisemitismo. Separare, come alcuni si illudono di poter fare, la lotta ai pregiudizi anti ebraici dal resto dei problemi della società significa non andare alla radice dei fenomeni. Bisognerebbe invece cogliere sempre la relazione tra i due aspetti. L’antisemitismo può portare direttamente alla degenerazione della società, come avvenne in Germania e in Italia, ma a sua volta la degenerazione morale della società può portare all’antisemitismo.

In secondo luogo se gli ebrei, come spesso ripete Yehuda Bauer, non sono capaci di intessere alleanze con le forze che nel mondo in vario modo si battono per l’emancipazione e contro ogni forma di oppressione, saranno molto più deboli nelle loro battaglie. Non è un discorso solo di tipo morale, perché gli ebrei non sono tenuti ad essere migliori degli altri uomini (il popolo eletto che deve farsi carico di tutti i problemi del mondo), ma come direbbe il filosofo Spinoza, sarebbe prima di tutto una possibilità per la realizzazione del proprio conatus (la potenza).

Se gli ebrei si uniscono agli altri uomini diventano molto più forti nella lotta per la propria sopravvivenza. Non possono vincere da soli. Si è più forti solo se si sta con gli altri, ricordava il filosofo ebreo di Amsterdam. Se si prova empatia per il prossimo, anche se nulla è scontato, si riceve maggiore empatia. Per questo Spinoza parlava della forza di attrazione del bene e sottolineava come i comportamenti virtuosi creino un meccanismo reciproco di emulazione.

Ma c’è una trappola ancora più grande in un discorso che separa il male commesso nei confronti degli ebrei da quello commesso verso altri uomini. Significa affermare la separatezza degli ebrei e dividere così il mondo tra ebrei e non ebrei.

È in realtà quanto vogliono gli antisemiti: per giustificare il loro odio e i loro pregiudizi amano presentare gli ebrei come un popolo a parte, per questo pericoloso per gli altri (come sostenevano i Protocolli dei savi di Sion).

Il trauma più grande che gli ebrei vissero durante le leggi razziali fu quello di venire indicati come diversi dagli altri uomini. Chi sopravvisse, come ad esempio i miei genitori sfuggiti all’annientamento dell’intera comunità di Salonicco, ebbe come primo desiderio quello di potere vivere in libertà in un mondo dove non si facevano differenze tra ebrei e non ebrei.

Sentirsi parte del mondo, ritrovare il piacere dell’uguaglianza rispetto agli altri, venire rispettati come tutti gli esseri umani, significava la vittoria contro il nazismo e l’inizio di una nuova vita.

Questo è certamente un discorso difficile che non tutti possono accettare per i grandi tradimenti che gli ebrei subirono nel corso della storia. È umanamente comprensibile quindi chi manifestare scetticismo e preferisce rinchiudersi in un discorso di autodifesa, con il terrore che tutto possa ripetersi per una sorta di maledizione della storia.

Per la mia esperienza e conoscenza è irrinunciabile lottare contro l’antisemitismo in nome dell’uguaglianza tra gli esseri umani e per questo mi sento sempre vicino a quanti lottano contro ogni forma di discriminazione.

Ho infatti la sensazione che se l’antisemitismo venisse considerato una variabile indipendente nella storia e se la battaglia contro i pregiudizi nei confronti degli ebrei non si legasse all’anelito di libertà di ogni essere umano, come aveva ben compreso lo scrittore Vassilij Grossman, si rischierebbe di sentirsi diversi dagli altri nella stessa lotta all’antisemitismo.

È un paradosso incredibile, la più grande trappola in cui si rischia di cadere.

È anche questo un pezzo della storia di Gariwo che suscita molte discussioni.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

1 aprile 2021

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