In queste ore attorno al destino dei ribelli di Bengasi si gioca una partita fondamentale per le sorti future di tutto il mondo arabo. Se Gheddafi vince e schiaccia in un bagno di sangue la ribellione contro il suo potere dispotico tutti i dittatori in Medio Oriente avranno la certezza che potranno agire senza ritegno contro l’ansia di libertà dei loro popoli.
Qualora le sue truppe riescano a raggiungere la Cirenaica assisteremo a pesanti conseguenze per il futuro della regione. Da un lato avremo un massacro di proporzioni enormi che mostrerebbe ancora una volta, dopo il Ruanda e la pulizia etnica nell’ex Jugoslavia, che la comunità internazionale, nonostante i richiami alla prevenzione dei genocidi dopo la Shoah, non ha la volontà di operare contro quella che Daniel Goldaghen nel suo ultimo libro Peggio della guerra definisce la piaga della nostra epoca: l’eliminazionismo che dalla fine del nazismo si presenta sempre in nuove forme, nell’indifferenza dei Paesi democratici.
Da un altro lato i giovani nel mondo arabo che con Facebook hanno guardato all’Occidente e si sono sottratti all’ideologia del fondamentalismo subirebbero la più cocente delle delusioni. Quello che potrebbe diventare nei prossimi mesi un incontro fecondo tra il mondo liberale e democratico e l’ansia di rinnovamento nel mondo arabo si trasformerebbe invece in un vero e proprio tradimento. Gli stessi giovani che sono aperti a strade nuove nel mondo arabo sarebbero ricacciati a pensare che soltanto l’antioccidentalismo e l’antiamericanismo siano la strada della loro liberazione. È quanto sognano i fondamentalisti che ora, ai margini dei movimenti, aspettano la prima occasione per tornare in sella e imprimere il loro marchio in una situazione ancora incerta in Egitto e in Tunisia. E anche in Iran l’opposizione giovanile considererebbe che nella resistenza contro il dittatore Mahmud Ahmadinejad non può mai contare sull’aiuto dei Paesi democratici sempre bloccati dal loro egoismo politico e dalla loro indifferenza.
Qualora le Nazioni Unite fossero bloccate dal veto della Russia e della Cina che impedirebbe una possibile azione di soccorso, allora potrebbe essere la Nato ad assumersi il compito di difendere la popolazione di Bengasi con il supporto dell’Europa e degli Stati Uniti, come nell’ex Jugoslavia. E anche il nostro Paese dovrebbe uscire dall’opportunismo mostrato negli anni scorsi dal Presidente del Consiglio e in queste ore dal Ministro degli Esteri Frattini che invita alla prudenza e sembra quasi soddisfatto dall’inerzia del G8 e delle istituzioni internazionali.
Dichiarare apertamente il sostegno alla popolazione di Bengasi significa non avere più paura delle conseguenze che si avrebbero nel nostro paese da un impegno politico e militare contro Gheddafi. Molto probabilmente nelle prossime settimane migliaia di extracomunitari verranno spediti dal dittatore sulle nostre coste e subiremo dei ricatti pesanti sul piano energetico. Ma di fronte alla sfida che si gioca oggi per la libertà in Libia, come in tutto il mondo arabo, è un rischio che vale la pena correre, se vogliamo difendere l’onore del nostro Paese.
Non è detto che in breve tempo Gheddafi possa essere scalzato, ma una classe politica si dimostra all’altezza quando sa reagire mentre si sta per compere un massacro annunciato di grandi proporzioni. Altrimenti mi chiedo: a cosa servono i tanti proclami contro i genocidi che si fanno in Italia il 27 gennaio nelle Giornate della Memoria?