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In nome della diversità si distrugge un mondo comune

di Gabriele Nissim

L'intervento di Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, al convegno per la Giornata della diversità organizzato alla Fondazione Corriere della Sera il 15 marzo 2016.

Il successo di Trump - che vuole muri contro messicani e musulmani - negli Stati Uniti, il successo della nuova destra in Germania e il rifiuto dell’accoglienza degli immigrati in Europa centro orientale, la capacità di attrazione dei movimenti integralisti in Medio Oriente, ci mostrano come oggi il grande problema sia quello della difficoltà di costruire un dialogo e un incontro tra culture diverse.

La grande questione oggi è come costruire un nuovo universalismo che arricchisca la pluralità umana e i ponti tra le nazioni.

In realtà, se guardiamo alla storia dei genocidi e dei totalitarismi, ci accorgiamo di come la negazione della diversità degli altri si sia sempre manifestata attraverso un discorso di tipo vittimista.
Molti di coloro che hanno perpetrato i peggiori crimini contro l’umanità si sono presentati come vittime degli altri, e in nome della loro difesa e purezza hanno potuto legittimare il loro diritto a uccidere.

Pensiamo al lavoro di un giardiniere. Egli ripulisce il giardino da erbacce e ortiche per renderlo più bello e rigoglioso. Toglie e pota le piante inutili per costruire un nuovo paesaggio. Io non ho niente contro i giardinieri che fanno bene il loro lavoro, ma questa idea della potatura dei diversi in nome del Bene dell’Umanità, si ripresenta sempre in nuovo modo nella storia.

Prendiamo il genocidio armeno. I Giovani Turchi hanno eliminato gli armeni presentandoli come una minaccia all’esistenza della loro nazione nel momento in cui dovevano fronteggiare la crisi dell’impero e la guerra contro la Russia e l’Inghilterra. Ogni uomo armeno, come osservava Armin Wegner, era un nemico potenziale e si trasformava in un confine pericoloso. Ecco perché doveva essere deportato. Una curiosità: prima della deportazione, avevano ripulito Istanbul di tutti i cani e li avevano deportati in un’isola sul Bosforo.

Ma anche la Russia di Lenin e di Stalin ha cominciato la pratica del Terrore e dei gulag da un lato definendosi come la rappresentante delle vittime del capitalismo e dell’imperialismo, e dall’altro giustificando i crimini peggiori come la conseguenza dell’accerchiamento capitalista. Ogni dissidente prima della fucilazione era spesso costretto a confessare sotto tortura di essere una spia del capitalismo, del sionismo e dell’imperialismo. Dunque era al contempo una fantomatica minaccia esterna e un nemico interno.
Chi così uccideva i cosiddetti “nemici del popolo” lo poteva giustificare presentandoli come una minaccia alla loro esistenza. Così i carnefici si trasformavano in vittime potenziali.

Ma anche la Germania di Hitler si è dapprima presentata come vittima degli ebrei per poi attuarne la distruzione. Come ha ben scritto Snyder in Terra Nera gli ebrei, presentati come la lobby giudaico internazionale che dominava il mondo, erano la minaccia cosmopolita all’identità nazionale tedesca. Per preservare la loro diversità e non essere contaminati dagli ebrei, i tedeschi dovevano attuare la soluzione finale.

Ma come è possibile uccidere gli uomini e non provare vergogna?

Lo ha spiegato forse prima di tutti Frank Kafka nel suo famoso racconto la “Metamorfosi”. Egli racconta come Gregor, trasformandosi a poco a poco in un insetto, vede venire meno l’amore di sua sorella che assiste con indifferenza alla sua sorte. Poiché Lui non è più un uomo, la sorella Grete Samsa non si sente più responsabile, perché non riconosce più la sua umanità. Ecco perché a gettare via i poveri resti di Gregor non sarà lei, ma la domestica con un colpo di scopa. Gregor non merita più per lei neanche una sepoltura.

Siamo dunque all’antitesi del coraggio di Antigone.

È ciò che del resto è avvenuto non solo nella Shoah, ma anche durante il genocidio in Rwanda. Gli hutu non avevano vergogna nello sterminare i tutsi perché li consideravano come dei vermi e degli scarafaggi. Ecco perché furono capaci di uccidere i loro vicini ad uno a uno con il macete. Neanche la prossimità umana delle vittime, che spesso fa scattare la pietas, impedì il coinvolgimento di una popolazione nel genocidio. Le camere a gas erano servite ai nazisti per evitare delle crisi di coscienza tra i nazisti, perché in quel modo la soluzione finale avveniva in maniera industriale nei campi, lontano dagli occhi della gente. In Ruanda invece tutto era visibile e la popolazione era convinta di uccidere non degli uomini, ma degli animali.

E anche oggi, in nome della difesa della diversità e dell’alterità, è nato l’Isis.
Esso promette un nuovo paradiso per i musulmani e invita i suoi adepti a liberarsi dagli eretici e dagli infedeli. Anche qui si ripropone il tema del vittimismo. Per ritornare agli albori del passato e non farsi più condizionare dall’Occidente, i musulmani devono rivendicare la loro separatezza culturale dal mondo. In nome dell’affermazione di un Dio unico, superiore a quelli raccontati dalle altre religioni, tutto viene giustificato: l’imposizione della Sharia come legge assoluta e la guerra santa nei confronti dei diversi. 
La grande novità di questo movimento è che esso non ha nessun tipo di pudore nel rivendicare la legittimità del terrorismo e dei crimini di massa, mentre invece i turchi e i nazisti cercavano di cancellare le tracce dei loro genocidi. Il terrorista suicida si sente legittimato a uccidere gli uomini perché è disponibile a sacrificare la sua vita. Il suo sacrificio personale manifesta davanti al mondo la sua superiorità morale.

E anche in Europa si costruiscono muri contro l’arrivo dei migranti, in nome della difesa della diversità culturale e politica dell’Europa.Vediamo così che da parte di alcuni governi e di alcune forze politiche viene meno l’idea della solidarietà e di una cittadinanza politica aperta agli stranieri e basata non sull’origine e sull’etnia, ma sul rispetto delle leggi. Come ha scritto con grande intelligenza George Steiner, l’uomo di oggi non ha soltanto delle radici, ma ha la possibilità di usare le sue gambe per scegliere dove andare a vivere e dove gli conviene. Invece oggi si vuole rinchiudere l’individuo nel suo ceppo di appartenenza.
Così il principio della cittadinanza aperta sembra oggi venire messo in discussione non solo a livello europeo, ma persino a livello nazionale.

Il nazionalismo separatista di catalani e baschi, osserva Savater, pretende di trasformare la diversità culturale in frammentazione politica. Per costoro il diritto di decidere spetterebbe soltanto ai territori, e gli individui dovrebbero sottrarsi a un’identità più ampia.

C’è allora una soluzione a tutto questo?

Zyigmuny Bauman ci ricorda, in Conversazioni su Dio e sull’uomo, una parte dell’insegnamento di Hanna Arendt che può essere di grande aiuto. Prima di tutto insegnare agli uomini a giudicare e osservare il mondo da punti di vista diversi, uscendo dal guscio del proprio ego. 
È questo il modo per riconoscere la pluralità e per creare un mondo comune che superi le rivalità e le contrapposizioni. Perché Socrate, scriveva la Arendt, quando cominciava un dialogo con un ateniese sosteneva di non sapere? Per un motivo molto semplice: non si può conoscere in anticipo l’opinione (la doxa) di un individuo se non si discute con lui in umiltà, perché ogni persona ha una sua particolare visione del mondo e non può mai essere omologata agli altri come se si trattasse di una fotocopia. Ogni essere umano è irripetibile, e fino a quando esisterà il mondo ci saranno sempre opinioni diverse che derivano dall’esperienza di ciascuno. È questa la straordinaria pluralità degli uomini, a cui bisogna sapersi accostare con curiosità e senza pregiudizi. Non si può infatti diventare amico di una persona diversa da noi, se non si dimostra prima di tutto la voglia sincera di conoscerlo in profondità.

È questa la scintilla di un’amicizia e di un qualsiasi rapporto con l’altro.
Poi però Socrate, senza mai esprimere il suo parere, iniziava con le sue martellanti domande, perché voleva che il suo interlocutore si interrogasse da solo sulla veridicità delle sue affermazioni. L’alchimia di Socrate era quella di costringere il suo interlocutore a vedere il mondo da diversi punti di vista e da una nuova prospettiva, che nasceva dalla considerazione delle opinioni degli altri.
In questo modo la soggettività del singolo, senza perdere la sua specificità, si sarebbe dovuta mettere in relazione con il mondo degli altri uomini, trovando così una sua dimensione più universale.

Un insegnamento di grande attualità, ci ricorda ancora la Arendt, è proprio il concetto di amicizia elaborato da Lessing durante l’illuminismo tedesco. L’amicizia, per l’autore di Nathan il saggio, era il simbolo del dialogo tra uomini diversi e il punto di riferimento morale per il superamento delle barriere in nome della comune umanità.
Lessing aveva insegnato che era motivo di grande gioia scoprire che non poteva esserci una verità unica nel mondo umano, perché questa impossibilità non rappresentava un handicap, ma il presupposto per un dialogo infinito tra gli uomini che non si sarebbe mai concluso nel corso dei secoli e di tutte le generazioni.

Un’unica verità assoluta, se fosse esistita, avrebbe significato la fine del piacere e del gusto del dialogo e avrebbe decretato la fine dell’umanità.
Ecco perché gli uomini dovevano accettare nel dialogo con gli altri le loro parzialità, e con modestia prestare ascolto alle opinioni divergenti in un percorso senza fine, dove avrebbero potuto intravvedere una verità relativa e mai definitiva.

Il riconoscimento delle debolezze comuni era uno degli elementi fondanti della solidarietà umana.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

16 marzo 2016

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