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In Repubblica Ceca si è festeggiata la Giornata dell'Oblio

la riflessione di Andreas Pieralli

Forse è stato il caso beffardo a volere che il 27 gennaio, Giorno della Memoria, coincidesse anche con il giorno in cui i Cechi hanno deciso, tramite le prime elezioni dirette di questo tipo, chi sarà il loro futuro presidente. L'8 marzo prossimo, dunque, all'indomani della fine del mandato del ben poco rimpianto euroscettico e populista Václav Klaus, giurerà sulla costituzione il non meno populista, ma almeno apparentemente eurofederalista (tanto federalista da auspicarsi anche la Russia in Unione Europea) Miloš Zeman.

Riflettere su questa coincidenza è doveroso dato che, mentre la Merkel dichiarava che l'Olocausto "rimarrà una macchia indelebile per la Germania", a poche centinaia di chilometri da Berlino, il populista Zeman vinceva le elezioni presidenziali facendo credere ai Cechi che, in virtù delle origini tedesco-austriache della sua casata, il suo rivale, il principe Karel Schwarzenberg, attuale vicepremier e ministro degli Affari Esteri, avrebbe messo in discussione i decreti Beneš. Per la cronaca, è bene ricordarlo, i decreti Beneš ratificarono l'esproprio dei beni e l'espulsione di circa 2,5 milioni di cechi di etnia tedesca che vivevano nelle zone dei Sudeti dell'allora Cecoslovacchia.

Tutto questo lungi dall'essere vero. Schwarzenberg non ha mai sostenuto che i decreti Beneš fossero da rivedere, dato che, almeno dal punto di vista giuridico, per entrambi i paesi trattasi di un capitolo chiuso. Come dimostrato dal risultato delle elezioni, però, a più di 70 anni di distanza rimane ancora aperta la questione politica e soprattutto morale. Da politico intelligente e civile quale è Schwarzenberg ha semplicemente avuto il coraggio di dichiarare che l'espulsione forzata di 2,5 milioni di cittadini cechi innocenti, colpevoli solo di essere di etnia tedesca, è stato un atto barbarico indegno di un popolo progredito, non dissimile, aggiungo io, agli esodi di massa imposti dai nazisti e dai sovietici alle etnie scomode. Opinione che trova sempre più larghi consensi tra le nuove generazioni, ma che, purtroppo, rimane ancora indigeribile per quelle dei padri e dei nonni.

Come ben sanno gli storici, e come lentamente sta tornando in superficie attraverso film e libri che trattano con coraggio questo tema delicato, i Cechi delle zone dei Sudeti approfittarono di questo colossale esodo non solo per depredare le proprietà dei loro ormai ex concittadini tedeschi, ma anche per lasciarsi andare in alcuni casi ad orribili e sanguinose rappresaglie piene di odio. Il tutto sotto la bandiera del: "tutti i tedeschi sono colpevoli e si meritano solo il peggio". Se, naturalmente, tutto ciò va visto nel contesto storico della fine della guerra, appare evidente, però, come dopo quasi 80 anni un popolo civile non possa ancora nascondersi dietro il paravento di una reazione, magari eccessiva, ma comunque legittima contro i nemici. Questo soprattutto considerando che si trattava in realtà di concittadini cechi di etnia tedesca che da secoli vivevano pacificamente in queste terre e che niente avevano a che fare con il Terzo Reich.

Tralasciando lo stile della campagna elettorale adottata da Zeman piena di menzogne, colpi bassi e attacchi offensivi, credo che sia anzitutto un dovere morale puntare il dito contro l'allarmismo populistico e demagogico scatenato dal neopresidente che, usato per battere il proprio rivale, ha di fatto nuovamente fomentato antichi odi verso i vicini germanici alimentando la paura di molti Cechi di vedersi espropriate quelle proprietà ottenute, legalmente o meno, a scapito dei tedeschi dei Sudeti espulsi dal paese dopo la guerra. Una strategia la cui altissima pericolosità è stata confermata proprio dai risultati su cui ha pesato in modo determinante il sospetto e la sfiducia verso questo "aristocratico tedesco" nutriti in particolare in Moravia, nelle zone a più alta disoccupazione e tra le generazioni più anziane ed economicamente più deboli. La verità è ben diversa dato che Schwarzenberg non solo è nato a Praga, ma suo padre era un fervente patriota e lui stesso, durante gli anni dell'esilio forzato aiutò i dissidenti cecoslovacchi, tanto da diventare poi cancelliere del primo presidente democraticamente eletto Václav Havel.

Ma purtroppo, e noi italiani lo sappiamo bene, poco possono i fatti e la verità contro la demagogia e il populismo quando queste degenerazioni della democrazia poggiano su emozioni forti come la paura, il disagio e l'insoddisfazione. In tempi di crisi quando un governo odiatissimo taglia il welfare sociale con l'abilità di un Edward Manidiforbice (possiamo parlare indistintamente del governo italiano come di quello ceco), sono questi, infatti, i sentimenti più diffusi tra le classi esposte al rischio di disoccupazione e povertà. Un humus infetto in rapida espansione che è terreno ideale per il virus del solito leader forte, sicuro di sé, che parla come l'uomo della strada e che promette di rimettere a posto le cose. Nihil novi sub sole, verrebbe da dire.

Il popolo ceco dopo la guerra non è stato esposto ad un profondo processo di catarsi come quello seguito alla denazificazione tedesca, e, pur non essendo stato particolarmente attivo nella resistenza contro il protettorato, è comunque riuscito a sedere al tavolo dei vincitori grazie anche all'esemplare attentato contro il governatore e generale delle SS Reinhard Heydrich. Questo fragile credito morale di vincitori, appesantito dalla coscienza nascosto dei crimini che hanno accompagnato l'espulsione dei tedeschi, è ancora oggi per molti il pretesto per pensare in silenzio, o affermare ad alta voce, che i decreti Beneš fossero un atto giusto e dovuto e, quindi, per rifiutarsi di affrontare in modo maturo e consapevole le ombre del proprio passato come, invece, ha saputo e sa fare la Germania.

Certo, le colpe dei Cechi nei confronti dei propri concittadini tedeschi sono apparentemente ben poca cosa se paragonati ai danni e alle sofferenze inferte dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma è proprio questo il tipo di ragionamento errato che si deve sradicare affinché la storia dell'umanità possa procedere verso un futuro di pace e armonia. Fintantoché le persone giudicheranno la storia e i propri vicini tenendo sempre in mano una bilancia dove pesare il torto fatto e quello subito rimarremmo ancora legati alle logiche barbariche della legge del taglione, inchiodati al codice Hammurabi dei babilonesi dell'occhio per occhio, dente per dente.

In fondo, anche per i nazisti la guerra era una reazione "giusta" ai torti subiti a Versailles, così come anche per gli imperi dell'inizio del XX la Grande Guerra fu un reazione "giusta" ai torti subiti dai propri vicini e concorrenti. E così via, di guerra in guerra, di faida in faida. Come intuito dai più grandi pensatori della non violenza, la storia ci impartisce da sempre una lezione importante: il sangue chiama solo altro sangue, la violenza chiama la violenza e la vendetta chiama la vendetta. Accettando questa lezione imprenscindibile si apre davanti a noi l'unica strada percorribile per cambiare realmente i destini dell'umanità.

In conclusione, dunque, lode a chi come la Merkel non teme di guardare affrontare le proprie responsabilità ammettendo le colpe storiche nella consapevolezza che solo questo è il modus vivendi tra paesi civili. Vergogna, invece, a chi, come il neopresidente Zeman, non ha esitato a suonare la nota stridula della xenofobia verso i tedeschi nella propria scalata al potere, indifferente al pericolo che un tale atteggiamento potrebbe risvegliare vecchi demoni e terrori che speravamo essere condannati ad un letargo ormai irreversibile. Il 27 gennaio 2012, Giornata dell'Oblio dei Cechi, ha dimostrato che tale non è e che, per questo, è massimamente importante vigilare sempre e non mancare mai di onorare la memoria, unico vero argine tra la convivenza pacifica dei popoli e la violenza della guerra e della prevaricazione.

Analisi di Andreas Pieralli, giornalista e traduttore

30 gennaio 2013

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