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Iran, aspettando le elezioni

di Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera

L'appuntamento politico più importante nel Medio Oriente insanguinato dalla guerra civile siriana, devastato dalla miseria che imporrà un investimento plurimiliardario soltanto per restituire dignità alla popolazione, non è previsto a Damasco e nelle sue vicinanze, ma in Iran. Le elezioni presidenziali di venerdì 14 giugno rappresentano infatti un passaggio cruciale non soltanto per il futuro della Repubblica islamica, ma per l'intera regione.

Sono infatti elezioni dove non conta il nome del vincitore, ma conta come il vincitore - chiunque esso sia - sarà in grado di porsi di fronte alla sfida epocale che è già esplosa fragorosamente. Infatti l'unica vera rivoluzione in atto, a cui stiamo assistendo, è quella tra sciiti e sunniti per la conquista del potere nell'universo musulmano, e che ha per teatro la Siria. L'Iran sciita, di questa rivoluzione, non è una comparsa. È protagonista attivo. E quanto uscirà dalle urne potrà indicarci che cosa ci dovremo aspettare nel prossimo futuro.

Prima di entrare nello specifico del voto, vorrei dire che la guerra civile in Siria, come i più avveduti prevedevano, sta cambiando volto. A cambiarlo è stato l'intervento diretto, a fianco dei lealisti del presidente Bashar el Assad, delle ben attrezzate milizie dell'Hezbollah libanese filo-iraniano. Milizie allenate e determinate, che stanno cambiando l'esito del conflitto. La riconquista della città strategica di Qusair, non lontano dal confine libanese, ne è il segnale più evidente: che consente ad Assad e ai suoi alauiti - setta sciita - di respirare, e che permette di comprendere le ambiguità di quell'armata scomposta e permeabile del fronte dell'opposizione, sostenuto dal fronte sunnita, a cominciare da Arabia Saudita e Qatar, e guardato con compiacimento e tolleranza da troppi interessati osservatori occidentali.
   
L'Iran, in questo quadro, gioca con la consueta abilità la sua grande partita. E proprio l'impressionante mutazione del quadro politico regionale sembra aver ridotto la portata d'urto dell'"Onda verde", di cui da tempi non si sente parlare. Ma il sacrificio di Neda, e l'esempio dei tanti ragazzi che sono andati in piazza a manifestare la loro voglia di libertà, non è stato inutile. Al contrario. Vi è come un'atmosfera di attesa, prima di una sicura ripartenza: i ragazzi di Teheran seguono, affascinati, anche le proteste dei giovani turchi di piazza Taksim, protagonisti di un Paese libero e democratico, che vogliono contrastare l'arroganza del potere, e in particolare del loro primo ministro Recep Tayyip Erdogan.
 
Senza questo necessario preambolo è difficile collocare in una giusta prospettiva le elezioni iraniane del 14 giugno. Elezioni apparentemente strane, perchè a priori tutti i grandi protagonisti conosciuti sembrano (sottolineo sembrano, poi spiegherò perché) direttamente o indirettamente sconfitti. Il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione ha ricevuto 700 domande di concorrenti alla seconda carica del Paese, quella di Capo dello Stato al posto di Mahmoud Ahmadinejad. Su 700 richieste, il Consiglio ne ha scelte 8. Ma il problema non sono i nomi degli otto prescelti, quanto i nomi di alcuni esclusi. Colpisce l'offesa dell'esclusione riservata a Esfandiar Rahim Mashaei, braccio destro del presidente uscente Ahmedinejad: anzi, quasi la sua anima gemella. Colpisce la bocciatura di un attempato squalone della politica iraniana, l'ex presidente Ali' Ahbar Hashemi Rafsanjani, prima quasi intransigente e ora quasi moderato. Ma stupisce soprattutto che tra i trombati preventivi vi siano  due personaggi dell'estrema destra iraniana, che in realtà appartengono allo stesso gruppo dell'uomo più potente del Paese, la Guida Spirituale Alì Khamanei. Eppure, a ben vedere, almeno quattro degli otto prescelti sono più o meno vicinissimi a Khamanei. E questo rivela, se ce ne fosse ancora bisogno, la sofisticata abilità della teocrazia iraniana. In altre parole Khamenei vuole uno dei suoi alla presidenza, ma più che un  fedelissimo preferisce un alleato, uno che possa muoversi con disinvoltura tra le pieghe e le rughe di un regime complicato, che sembra sempre oscillare tra Costituzione e prassi.
 
Ecco perchè, più che il nome di chi sarà eletto, conteranno le prime mosse del nuovo presidente. Le sfide che attendono l'Iran, a cominciare da quella della minaccia o del deterrente nucleare, sono importantissime. Occorre poi ricordare che Ahmadinejad è un laico e non un religioso. Si può ragionevolmente ritenere quindi, pur tra mille distinguo, che la componente religiosa prevarrà. Forse diminuiranno le sparate propagandistiche, scomposte e insopportabili, che hanno caratterizzato la guida del presidente uscente. E poi bisognerà vedere e valutare quali saranno gli effetti sulla gente, sui giovani. Sulla sopravvivenza dell'"Onda verde", appunto.

Antonio Ferrari

Analisi di Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera

10 giugno 2013

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