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Isis, cancro nell'Islam

di Janiki Cingoli

Pubblichiamo di seguito l'editoriale di Janiki Cingoli, comparso sul sito del CIPMO il 24 novembre 2015

La discussione se il jiadismo islamico, quello di ISIS o Al-Qaeda, sia un fenomeno interno o esterno all’Islam, è fuorviante.

Si tratta tuttavia di una questione non chiarita, come emerso anche dalla manifestazione di Milano “Not in my name”, indetta dalle comunità musulmane in contemporanea a quelle di Roma e di molte città italiane, per protestare contro gli attentati parigini, manifestazione cui ho partecipato portando l’adesione e la solidarietà del CIPMO. Negli interventi si ripetevano le rivendicazioni di estraneità dell’Islam rispetto al terrorismo, e di condanna per l’ISIS, e questo era certamente importante. Ma raramente il problema veniva approfondito in tutte le sue implicazioni.

L’ISIS nasce dentro l’Islam, e ne costituisce un fenomeno mutante, un cancro. Un cancro maligno che ha già prodotto metastasi, dentro e fuori dell’Islam.
Affermare questo vuol dire che questo cancro ha attaccato delle cellule sane ma predisposte, le cellule presenti nel fondamentalismo islamico, riuscendo a corromperne molte e a mutarle, e si è nutrito del brodo di cultura del Wahhabismo sunnita, radicato in Arabia Saudita e negli Emirati. Il wahhabismo si fonda infatti su una interpretazione letterale e integrale del Corano, e considera tutti coloro che non praticano l'Islam secondo le modalità da esso indicate come apostati e nemici dell'Islam.
Se l’ISIS è un cancro, è necessario che sia tutto l’organismo dell’Islam a reagire, concentrando le sue forze contro l’intruso, per espellerlo o annientarlo.
È necessario che le grandi scuole coraniche diffuse in tutto il mondo intervengano per combatterlo e denunciarne la falsità, promuovendo interpretazioni non deformate e non integraliste dell’Islam (se invece ci sono delle scuole coraniche o delle moschee che lo sostengono e lo propagandano, queste vanno chiuse, come è stato deciso di fare in Francia).

È necessario che la Umma, la comunità dei fedeli, lo riconosca come tale, reagendo contro le cellule maligne, isolandole e se necessario denunciandole ai medici, (cioè alle autorità preposte e alle stesse forze di sicurezza), che sono in grado di intervenire, prevenendo la loro diffusione e se necessario intervenendo anche chirurgicamente, rimuovendolo e poi continuando a mettere in atto i necessari trattamenti perché non si rigeneri.
È necessario che l’ambiente in cui l’Islam vive non sia inquinato da fattori tossici, come le guerre civili tra le diverse comunità di uno stesso Paese, come avviene in Siria e in Iraq, o dall’esasperato confronto ideologico ed anche militare tra le due grandi aree dell’Islam, quella sunnita e quella sciita.

È necessaria infine la solidarietà attiva della Comunità internazionale, che deve sapersi unire, andando oltre risorgenti logiche di blocco, creando un’ampia unità tra tutti i grandi player dell’Area, dagli Stati Uniti, alla Russia, alla UE, agli Stati arabi, alla Turchia, all’Iran, verificando e esigendo da ognuno di questi paesi il superamento di possibili comportamenti ambigui o contradditori, contribuendo a dare soluzioni positive ai punti di crisi più gravi presenti nell’area, della Siria all’Iraq, allo Yemen, allo stesso Afghanistan, delineando le possibili vie di soluzione politica di tali crisi, ed anche adottando entro il necessario quadro di legalità internazionale, l’ONU, le possibili misure di peace enforcing.

Il contrario, quindi, di quella guerra di civiltà e di quello scontro tra religioni, cui ci chiamano i nuovi crociati dell’intolleranza, e i vari sciacalli in caccia per volgari e bassi interessi elettorali.

Noi in Italia abbiamo avuto l’esperienza delle Brigate rosse, che non furono uno strumento inventato dal nemico di classe o dalla Cia, ma nacquero e si svilupparono dentro il movimento operaio, trovando i loro proseliti nei gruppi più estremisti, e il loro brodo di cultura in uno sviluppo estremo del leninismo, che è stato una deformazione robespierrista del marxismo. Fu necessario al movimento operaio guardarsi dentro, riconoscere il male, confrontarsi con esso ed espellerlo, con l’aiuto delle istituzioni e in nome della solidarietà repubblicana e democratica. Ci aiutò il sacrificio di chi, come Guido Rossa, guidò quella riscossa col sacrificio della sua vita, combattendo i terroristi in fabbrica e denunciandoli all’autorità giudiziaria.

Quell’esempio ci deve di essere di guida anche oggi, che ci troviamo ad affrontare un pericolo molto più grande e globale, che mette a repentaglio la democrazia e la libertà in tutto il mondo.

Janiki Cingoli

Analisi di Janiki Cingoli, già presidente di CIPMO - Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

24 novembre 2015

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