Le Scarpe sulla riva del Danubio, Memoriale dell'Olocausto degli ebrei di Budapest
Pubblichiamo di seguito un estratto dal libro di Gabriele Eschenazi e Gabriele Nissim “Ebrei invisibili” (Mondadori), in cui il presidente di Gariwo analizza la riflessione di István Bibó sulle responsabilità della cosiddetta “zona grigia”.
È stato Bibo a scrivere le pagine più penetranti sul tradimento degli ebrei in Ungheria. E a tutt’oggi, a distanza di cinquant’anni, è uno dei pochissimi non ebrei dell’Est europeo ad aver avuto il coraggio di indagare sulla "zona grigia" attorno alla Shoah. Egli incentra la sua solitaria presa di posizione sul tema della responsabilità: quella terribile che ricade sui tedeschi non assolve il popolo magiaro. Osserva Bibo, mettendo bene in evidenza come la colpa estrema dei carnefici venga spesso utilizzata per ritrovare un’ingiustificata innocenza per sé da parte di chi è stato in qualche modo complice, o anche soltanto indifferente:
"Scartiamo dunque l'idea che noi dobbiamo portare la responsabilità degli atti perpetuati dai tedeschi ed interroghiamoci unicamente sulla parte di responsabilità che ci competono nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei, accompagnati dal concorso volontario delle autorità militari e civili ungheresi e sul modo come la società ungherese e i suoi diversi organismi amministrativi e sociali hanno assistito alla persecuzione, alla deportazione e all'assassinio degli ebrei.”
Bibo demolisce a uno a uno tutti gli alibi. Non ha senso, osserva a proposito delle leggi antiebraiche, sostenere che “il ruolo importante occupato dagli ebrei nella struttura del capitalismo era la causa del malessere diffuso nella vitae pubblica ed economica”. Il motivo della crisi non stava nella forza economica degli ebrei che s’intendeva colpire, ma “nell’arretratezza politica delle masse, che malgrado l’ascesa della borghesia nazionale erano rimaste allo stadio delle strutture gerarchiche feudali”. E Bibo non è disposto nemmeno ad avallare una giustificazione (molto in voga in Ungheria) secondo cui le leggi antiebraiche furono promulgate con l’obiettivo di rabbonire i tedeschi e salvare gli ebrei; precisa infatti: “Esse furono emanate sotto la pressione dell’estrema destra, sotto il segno della competizione e del compromesso con questa”. Con una delle sue osservazioni più acute Bibo rifiuta l’argomentazione principe per giustificare il mancato aiuto agli ebrei al momento della deportazione nazista, cioè l’impossibilità di credere alle notizie che denunciavano uno spaventoso livello di barbarie:
È la stessa osservazione di Primo Levi a proposito della mancata reazione dei tedeschi di fronte al genocidio: avrebbero potuto sapere molto di più circa quanto avveniva nei campi, ma non parlarono e non sentirono per non diventare colpevoli di ciò che intuivano. “Non la chiamerei rimozione” dice Levi “perchè la rimozione è interna. Si rimuove una cosa che si conosce. Qui invece si chiudono i battenti prima di conoscerla”. Ecco allora che il non credere diventa un escamotage per non vedere e non assumersi delle responsabilità di fronte alla propria coscienza.
In che modo spiegare, dunque, il meccanismo morale che ha spinto gli ungheresi all’indifferenza di fronte allo sterminio ebraico, per il desiderio di recuperare con Hitler i territori perduti nel 1920? “Malgrado l’orrore che ispirava loro lo sterminio degli ebrei”, sostiene Bibo, “pensavano di dover continuare a obbedire in tutta lealtà all’apparato di stato ungherese e, come buoni ungheresi, di dover auspicare la vittoria dei tedeschi. Cercavano di convincersi che stavano assistendo [soltanto] alla degenerazione di una causa fondamentalmente giusta, sostenuta da uomini di buona volontà”. Comunque, il fatto di aver seguito in modo diligente regole e comportamenti della morale dominante al punto di dirigere “eroicamente” eventi orribili non li assolve: anche nelle situazioni di peggior fanatismo c’è sempre la possibilità d’interrogare la propria coscienza, di scoprire il male. Come sostiene Bibo:
Essere adulti e liberi è prima di tutto intravedere la mediocrità dei nostri atti determinati unicamente dal nostro condizionamento, è anche cominciare a sentirsi responsabili e agire liberamente da responsabili. Tradotto nel linguaggio del cristianesimo, questo vorrebbe dire che il peccatore agisce sotto l’influenza del peccato originale, e che le sue stesse buone azioni subiscono la costrizione delle leggi e sono quindi private del loro valore, mentre l’uomo che ha beneficiato dell’opera della Redenzione è libero e agisce liberamente, secondo il dettato della propria coscienza.
Bibo sembra qui anticipare la tematica della banalità del male elaborata da Hannah Arendt durante il processo Eichmann, secondo cui non esiste una demoniaca grandezza del totalitarismo che rende gli uomini completamente condizionati e schiavi di un ingranaggio, ma ci sono sempre possibilità di comprendere e resistere. Insomma, di diventare responsabili di fronte al male e di trovare delle forme, anche solo passive, per opporvisi. Casi del genere si sono verificati anche in Ungheria. Molti ebrei devono la vita all’aiuto degli ungheresi, ma per Bibo ciò rappresenta soltanto “una goccia nel mare, non nel mare dell’ostilità, ma quel che è peggio, nelle acque torbide dell’indecisione e della vigliaccheria. Non assistere i perseguitati in pericolo era nella normalità delle cose”. I 100 mila ebrei che si sono salvati a Budapest durante l’occupazione tedesca non lo devono “agli interventi in loro favore e men che meno al comportamento della società ungherese”, ma al poco tempo a disposizione dei carnefici per portare a termine i loro piani. Il ricordo dell’esperienza della zona grigia, il senso di angoscia per essere stati abbandonati, è per Bibo un marchio quasi indelebile nella memoria dei sopravvissuti, che muta radicalmente i loro rapporti con gli ungheresi.
Mentre in Danimarca - da lui assunta come esempio di solidarietà collettiva, come una possibilità alternativa in circostanze analoghe - l’ebreo sapeva che per salvarsi bastava trovare rifugio nella casa di un vicino, e “anche se questo aiuto non arrivava fino al sacrificio personale, il perseguitato era comunque sicuro di trovare persone che si immedesimavano con lui e ne condividevano le preoccupazioni”, in Ungheria, se osava bussare alla porta di qualcuno incontrava indifferenza, rifiuto e, in alcuni casi, la denuncia. Per Bibo, comunque, che scava nelle differenti forme di zona grigia, non sono questi i comportamenti che più hanno segnato la memoria dei sopravvissuti. Non sempre è il male estremo a rimanere impresso nella mente; spesso è quello più banale, fatto anche di parole e di gesti. Nell’elaborazione del ricordo ebraico, quel che è più difficile da dimenticare è il “comportamento indispettito e ambiguo degli ungheresi onesti, che pur continuando a frequentare gli ebrei e a compartirli per i loro guai non ne comprendevano la situazione di animali braccati, l’angoscia mortale davanti alla crudeltà, la ferocia e il nichilismo morale dei persecutori[…] e antibolscevichi convinti, continuavano malgrado tutto ad augurarsi la vittoria dei tedeschi”.
Questa memoria della solitudine morale non provocherà, come nella maggioranza degli ebrei sopravvissuti in Polonia, una rottura radicale con la terra d’origine. Nel dopoguerra gli ebrei ungheresi ritenteranno l’assimilazione totale. Eppure, come vedremo in seguito, il ricordo di quel tradimento, che molti ebrei per ricominciare a vivere hanno relegato nell’inconscio, riemergerà alla luce del sole ogniqualvolta l’Ungheria attraverserà momenti di crisi. Il 1956 ne sarà un esempio clamoroso. Rimarrà sempre la paura che si possa ripetere la situazione degli anni Venti: un Paese così accogliente per gli ebrei che, in una sola notte, si è trasformato in un luogo di pogrom e isteria antisemita. E ancor oggi, dopo la caduta del comunismo, ogni volta che si sentono discorsi antisemiti in molti ebrei ritorna l’inquietudine. Alla domanda se abbiano paura dell’antisemitismo, il 90% degli ebrei assimilati risponde come la filosofa Agnes Heller: “Non abbiamo paura degli antisemiti. Sono poca cosa. La loro percentuale non è superiore a quella degli Stati Uniti, ed è inferiore a quella francese”. Ma proprio perché da “America” per gli ebrei l’Ungheria si era trasformata in un incubo, la risposta non è mai del tutto sincera. Si citano le percentuali per aggrapparsi a qualcosa di concreto, di evidente, che scacci le paure, come forma di autorassicurazione.
Bibo si sforza di far sì che lo specifico dramma degli ebrei sia riconosciuto pienamente. Vuole stabilire una riconciliazione che faccia tesoro di quella terribile esperienza. Chiede agli ungheresi di assumersi le proprie responsabilità: il riconoscimento delle colpe non è un marchio d’infamia per un popolo, ma un indice del livello di maturità di una nazione. “È tempo di rompere con la pratica che attenua il valore morale dell’accettazione delle nostre responsabilità […] sul lungo periodo la stima che il mondo potrà provare nei nostri confronti, e che metterà sul piatto della bilancia paragonandoci alle altre nazioni, non dipenderà dalla quantità di torti che avremo ammesso o negato, ma dalla serietà e dalla determinazione con cui avremo stabilito le nostre responsabilità”. E qui Bibo non solo polemizza con il romanticismo nazionalista tipico dell’Est europeo, che legge la propria storia attraverso il mito dell’innocenza, ma è soprattutto il primo intellettuale dell’Est a capire che sarà proprio l’ideologia comunista a fornire l’argomento più raffinato per questa chiave di lettura, l’alibi ideale al mito dell’innocenza: essa infatti fa discendere il comportamento antisemita dal contesto capitalista o reazionario dei rispettivi regimi, assolvendo quindi i singoli da ogni responsabilità morale. Il determinismo marxista, individuando nel sistema sociale e nei suoi dirigenti i soli colpevoli, scarica come per magia la zona grigia da qualsiasi responsabilità e assolve tutti. Osserva Bibo con parole tanto dure quanto anticipatrici:
Se sosteniamo che i dirigenti erano particolarmente attivi nella persecuzione degli ebrei mentre il popolo evitava coscientemente di parteciparvi, saremo vittime di un romanticismo ingannevole e pericoloso, perché genera l’illusione che, con la scomparsa del vecchio regime dei potenti e con la conquista del potere da parte del popolo, sia impossibile in avvenire, in una situazione analoga, che il popolo si comporti in maniera altrettanto irresponsabile e mostri la stessa indifferenza dei suoi ex dirigenti. Perché sia così, non basta un cambiamento politico e sociale; questa è soltanto la condizione preliminare; ci vuole anche un miglioramento sostanziale del livello politico e morale.
Perché quel terribile passato sia riscattato bisogna garantire nella nuova Ungheria un diverso tipo di assimilazione. Non più quello organico di tipo romantico, che chiede agli ebrei di rinnegare le proprie caratteristiche, ma un’integrazione che permetta di vivere liberamente e pienamente i vari aspetti della propria identità. L’assimilazione non significa rimozione della coscienza ebraica. Bibo azzarda un’affermazione che farebbe inorridire gli antisemiti: “La solidarietà tra ebrei dopo l’assimilazione non ostacola per nulla l’assimilazione”, e riconosce una pluralità di modi di essere ebreo. Esprime simpatia per i sionisti, intuendo che dopo quanto è successo il nascente stato ebraico avrà una funziona importante per la coscienza ebraica; attribuisce pari dignità all’ebreo religioso e a quello che si sente semplicemente membro di una minoranza etnica. Prende posizioni nette contro chi, nelle file del nascente potere comunista, equiparava le vittime ebraiche a tutte le altre vittime del fascismo, come se le loro sofferenze “fossero equivalenti alle altre sofferenze della Seconda guerra mondiale”. Il riconoscimento della specificità dell’Olocausto non è solo un obbligo morale verso le vittime, ma un passo necessario per una vera accettazione dell’identità ebraica in Ungheria.