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L'Italia non è un Paese per donne

di Silvia Golfera

Dal rientro dalle vacanze estive, c’è un’immagine, statica come una fotografia, che torna ogni tanto a visitarmi: è quella di una donna tutta vestita di nero. Indossa una tuta, maniche e pantaloni lunghi, berretto e occhiali scuri. Passava le giornate parcheggiata sotto l’ombrellone accanto al mio. Non l’ho mai vista allontanarsi da lì. Marito e bambini, in costume da bagno, scorrazzavano per la spiaggia, e pietosamente le portavano ogni tanto un gelato o una bottiglietta d’acqua. Quali pensieri avranno attraversato la testa dei suoi figli? La bambina, costumino rosa pieno di balze, gambette esili e veloci, quale immagine costruirà di sé adulta?

Poi si è aggiunto altro.

In questi giorni, a pochi chilometri da casa mia, una donna è stata uccisa a bastonate dal marito.

Per l’ennesima volta in un Paese la cui Costituzione recita “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso”, rompere un rapporto con un uomo può costare la vita.

E ancora una ragazza, la cui intimità finisce esposta al pubblico in una sorta di moderna flagellazione, viene spinta al suicidio. Lo stesso linciaggio colpirebbe un uomo che esibisse le sue prestazioni?

Sul medesimo social network che ha dato la povera Tiziana in pasto agli sciacalli, ecco la foto di un gruppo di sindaci della mia regione: nella fila conto una donna. Evidentemente le quote rosa si arrestano alla soglia del potere.

Possibile che in oltre 60 anni di democrazia l’Italia non abbia saputo esprimere un primo ministro o un presidente donna? Non sono mancate figure di grande spessore, a cominciare da Nilde Iotti fino a Emma Bonino.

Forse neppure l’Italia, nonostante le dichiarazioni, è un Paese per donne.

Per capirlo basta qualche elementare, basica attenzione al linguaggio, e ci si accorge di quanti modi di dire, barzellette, tic linguistici sessisti passino di bocca in bocca, come se fossero neutri. I termini “troia” e “puttana” sono talmente abituali da essere utilizzati anche in riferimento al sesso maschile, perché chiaramente non esiste un vocabolo corrispondente, ugualmente carico di disprezzo, riferito all’uomo.

Certo vent’anni di berlusconismo hanno fatto scuola, ma i suoi discepoli, che vanno ben oltre lo schieramento politico del suo pifferaio, erano (e sono) ben felici di farsi incantare da un modello culturale che sotto l’apparenza della “modernità” resuscita quanto di più ancestrale tanti continuano a portarsi dentro: un sentimento confuso fatto di pregiudizio, disprezzo, macismo, diffidenza nei confronti delle donne.

Ma forse al mondo non esistono paesi per donne.

Per millenni le donne hanno subito le discriminazioni più feroci, si è dubitato della loro appartenenza al genere umano, della loro natura spirituale, della capacità di accedere al pensiero, le si è ritenute incapaci di controllare gli impulsi, facendo da specchio e da parafulmine a tutte le paranoie maschili.

Sono state per secoli derubate del loro corpo, il cui controllo era il contraltare della mancanza di controllo dell’uomo.

Quando oggi si parla di razzismo e di discriminazione, troppo facilmente si omette di dire che le privilegiate vittime di tali fenomeni sono state, e continuano a essere, le donne.

La donna in nero viene a ricordarmi che anche io appartengo a una “razza” in bilico, il genere femminile, la cui libertà e la cui dignità sono perennemente a rischio.

Non solo nel mondo islamico, irreparabilmente malato di misoginia, ma anche in quello occidentale, che purtroppo ha debolissimi anticorpi per combatterne la malattia e rischia, al contrario, di venirne contagiato. Napolislam, il documentario di Ernesto Pagano, racconta lucidamente come la sottocultura delle periferie ben si sposa con una religione autoritaria e misogina, che libera i suoi adepti dalla fatica di pensare.

La donna in nero mi ricorda che quel sudario è stato pensato per tutte le donne e anche per me. E che “la dignità sociale” e i diritti delle donne stanno ben poco a cuore anche a chi dovrebbe difenderli.

Silvia Golfera

Analisi di

22 settembre 2016

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