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La cancellazione della memoria in Urss

di Gabriele Nissim

L'approfondimento a cura del presidente di Gariwo Gabriele Nissim uscito nella newsletter Storie di Storia di La Repubblica in occasione del Giorno della Memoria 2023. 
Questo editoriale si lega
 alla riflessione di Nissim "Le trappole che ci impediscono di comprendere il tentativo di genocidio in Ucraina" uscita su Il Foglio il 16 gennaio 2023. 

Se la Germania è stato il paese all'avanguardia nel riconoscimento della colpa, molti in Europa, come scrisse Istvan Bibo in un saggio sulla questione ebraica in Ungheria, hanno preferito scaricare le colpe sui tedeschi per non dovere affrontare le loro responsabilità. Emblematico è stato il ritardo con cui la Francia ha riconosciuto le responsabilità del governo di Vichy nella deportazione degli ebrei francesi. Mitterrand aveva sempre dichiarato, in riferimento al rastrellamento del famoso Vel'd'Hiv (il velodromo d'inverno di Parigi dove tra il 16 e il 18 luglio 1942 furono raccolti 13 mila ebrei francesi per la deportazione), che non avrebbe mai chiesto scusa a nome della Francia perché non la riteneva responsabile. Un altro aspetto importante per la battaglia per la memoria della Shoah è stato il riconoscimento dello statuto della "vittima del campo di concentramento". In Francia Simone Veil, dove ritornò a vivere in seguito alla sua prigionia ad Auschwitz, fece molta fatica ad essere creduta ed ascoltata. Lo stesso destino paradossalmente si presentò anche in Israele, dove fino al processo Eichmann del 1960 - che rappresentò un grande momento di riflessione morale in tutto il paese - i sionisti che erano venuti a vivere lì venivano presentati come eroi, mentre gli ebrei della diaspora finiti nei campi di concentramento erano considerati vittime passive. Fino al processo Eichmann, Moshe Bejski - l'artefice del Giardino dei Giusti di Yad Vashem - non rivelò mai la sua identità di sopravvissuto ad Auschwitz e la sua salvezza attraverso lista Schindler, perché non si sentiva a suo agio. E durante il processò si adirò pubblicamente con il giudice Hauser che gli aveva fatto a bruciapelo la domanda che più lo angosciava: "Perché non vi siete ribellati nel campo di Plaszow quando impiccavano i vostri compagni?" La sua risposta fu perentoria. "Lei non capisce, non c'era alcuna possibilità di ribellione nel campo e anche se ci fossimo riusciti, nessuno in Polonia ci avrebbe aiutati. Il nostro destino era di morire".


La rimozione della memoria in Russia

Se comunque in Europa la battaglia per la memoria - sia pure difficile e complessa - ebbe dei risultati importanti, fino alla caduta del muro di Berlino fu invece un argomento tabù in Russia e nei paesi dell'Europa sotto la dominazione sovietica. In Russia c'è sempre stato un processo di negazione della specificità del destino ebraico e le vittime ebraiche venivano equiparate alle vittime del capitalismo e del fascismo. Per nazismo si intendeva soltanto quello che aveva colpito la Russia durante la guerra. Un concetto del resto usato strumentalmente anche in occasione dell'aggressione all'Ucraina, descritta come un paese in mano ai nazisti nonostante l'intera comunità ebraica si sia schierata dalla parte del presidente Volodymyr Zelenski per la difesa della sovranità della nazione. Non è un caso che per impedire una riflessione morale sulla soluzione finale e sulla sorte degli ebrei venne censurato "Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945" a cura di Vasilij Grossman e Il'ja Grigor'evič Ėrenburg, che del resto era stato commissionato dal comitato antifascista ebraico. La motivazione fondamentale del sequestro del libro era che "il filo conduttore è l'idea che i tedeschi abbiano fatto la guerra all'Urss allo scopo di annientare gli ebrei." Così per anni in Russia non furono mai costruiti memoriali che ricordassero la distruzione degli ebrei.

Il caso più eclatante è quello del memoriale di Babij Jar in Ucraina (Anatolij Kuznecov, Babij Jar, 1970, Adelphi 2019) dove furono massacrati in un solo giorno 33.371 ebrei, ma la parola ebreo non appariva nella lapide. "Non c'è un monumento / A Babij Jar / Il burrone ripido / È come una lapide / Ho paura / Oggi mi sento vecchio come / Il popolo ebreo / Ora mi sento ebreo...", scrisse il poeta Evgenij Evtušenko nel celebre poema che dà il titolo alla Tredicesima Sinfonia (1962) di Dmitrij Šostakovi.

A questa rimozione si aggiunse il marchio di vergogna che colpì il mondo ebraico in Russia: l'accusa di sionismo. Sionista era potenzialmente ogni ebreo, accusato di avere una mentalità cosmopolita, una doppia identità nascosta, un essere non affidabile, quinta colonna del capitalismo e dell'imperialismo che rappresentava una minaccia per il socialismo. Un aggiornamento sovietico dei Protocolli di Sion. Nell'ottobre del 1946, il ministro per la Sicurezza di Stato, Abakumov, inviò una nota al comitato centrale intitolata "Sulle tendenze nazionaliste del comitato antifascista ebraico" e il 19 dicembre 1947 cominciarono gli arresti dei membri del comitato. Solomon Mihoel's fu trovato morto a Minsk in seguito ad uno strano incidente stradale e il 21 novembre del 1948 il comitato antifascista ebraico fu chiuso con la motivazione che si era trasformato in un centro di attività antisovietica. Iniziò così la repressione contro gli ebrei. Centinaia di intellettuali furono arrestati. Furono colpiti decine di quadri ebrei che lavoravano nella Sicurezza. Fu arrestato lo stesso ministro della Sicurezza, Abakumov, accusato di avere tentato di "impedire che fosse smascherato un gruppo criminale costituito da nazionalisti ebrei infiltrati al più alto livello del Ministero della Sicurezza di Stato". Era iniziata in grande stile l'operazione che doveva denunciare il grande complotto "giudeo-sionista."

Nel febbraio del 1952 si svolse nella massima segretezza il processo ai membri del comitato antifascista ebraico: 25 dirigenti furono condannati a morte e immediatamente giustiziati, mentre un centinaio furono mandati nei gulag. Un anno dopo, il 13 gennaio 1953, la "Pravda" annunciò la scoperta di un complotto ordito dal "gruppo terrorista dei medici" per uccidere importanti capi sovietici, approfittando della propria posizione professionale. Si fece risalire a loro la morte di Andrej Zdanov e di Aleksandr Scerbakov. Dei quindici medici, arrestati in gran segreto fin dal mese di ottobre del '52, più della metà erano ebrei. Si disse che costoro erano stati ingaggiati dall'Intelligence Service inglese attraverso la più famosa organizzazione di assistenza ebraica: l'American Joint Distribution Commitee. Partì in grande stile una campagna che chiedeva la punizione esemplare dei colpevoli e denunciava il complotto sionista. Secondo quanto rivelato dall'ex Capo dello Sato sovietico Nikolaj Bulganin nel 1970, nelle intenzioni di Stalin il processo contro i medici ebrei doveva aprirsi a metà marzo e proseguire con le deportazioni in massa degli ebrei sovietici verso il Birobidzhan, ma la morte improvvisa del dittatore, il 5 marzo, bloccò la grande operazione antisemita. Tutto questo avveniva nel paese che milioni di uomini consideravano il campione dell'antifascismo e della lotta all'antisemitismo.


La battaglia per la Memoria in Europa centro-orientale

La campagna contro i sionisti ebbe immediate ripercussioni in tutto l'Est europeo. Un mese dopo l'arresto a Mosca dei medici ebrei, si apriva a Praga, il 20 novembre del 1952, il processo contro Rudolf Slansky e altri tredici dirigenti comunisti. Undici dei quattordici imputati erano ebrei. Furono accusati di avere costituito "un gruppo trockista-titoista-sionista", nonostante fossero tutti dei convinti assertori del comunismo come superamento definitivo dell'ebraismo e considerassero il sionismo una degenerazione nazionalista. Con il processo si voleva mandare alla società un messaggio molto chiaro: l'imperialismo stava cercando di sabotare il socialismo, utilizzando gli ebrei che si erano infiltrati nel partito comunista. Ogni ebreo era dunque un potenziale nemico, perché era il soggetto etnicamente e culturalmente più disponibile al tradimento.

Scriveva per esempio la "Pravda", organo del partito slovacco, il 23 gennaio del 1952: "Il sionismo è l'ideologia dello Stato borghese ebraico, del nazionalismo ebraico borghese, attraverso la quale la borghesia nazionalista ebraica, al soldo dell'imperialismo americano, cerca di influenzare i nostri cittadini di origini ebraiche. È per servire il nostro nemico di classe che gli ebrei si sono infiltrati nei partiti comunisti al fine di distruggerli dall'interno. Così, anche alcuni membri del nostro partito sono caduti sotto l'influenza del sionismo. Si sono lasciati sopraffare dall'ideologia del cosmopolitismo e del nazionalismo borghese ebraico".

Che il sionismo fosse una colpa "ebraica" era sottolineato dal modo in cui la stampa presentava gli imputati. Si metteva in rilievo che erano ebrei e si ricordavano i loro vecchi nomi: "Il trockista ed ebreo nazional borghese Bedrich Geminder... André Simone, che in realtà si chiamava Otto Katz, una spia internazionale, sionista e trockista... Hanus Lomsky, che si chiamava Gabriel Lieben...".

Eduard Goldstucker, che era stato ambasciatore in Israele, e che quindi aveva tutte le caratteristiche per essere messo sotto accusa, ricorda come l'associazione fra i termini "ebreo" e "sionista" venisse sottolineata in continuazione durante i lunghi interrogatori. "Dal giorno del mio arresto fui isolato dal mondo e sottoposto a interrogatori continui per ben diciotto mesi. Ogni volta che saltava fuori un nome ebraico, il poliziotto mi chiedeva: "è sionista?". Voleva sapere se la persona in questione era ebrea, ma chiedeva: "è sionista?". A un certo punto ne ebbi abbastanza, persi il controllo e gli domandai: "Mi dica, se venisse fuori il nome di Marx, lei mi chiederebbe ancora se è sionista?". Rimase senza parole per qualche secondo e poi, dimenticandosi per un attimo della linea politica, mi chiese: "Era ebreo anche lui?". Disse ebreo, non sionista! Che Marx fosse ebreo, infatti, non veniva mai detto. Nell'enciclopedia sovietica il particolare era taciuto".

Durante il processo gli imputati furono costretti sotto tortura e in nome del bene del Partito ad ammettere le proprie colpe. Tra queste c'era anche quella di essere ebreo. Rudolf Margolius, uno degli imputati, così confessò il suo peccato originale: "La mia attività sovversiva e ostile è la conseguenza del mio odio verso la classe operaia e il partito comunista. Sono stato educato a questo odio sin da bambino. Sono nato da una famiglia ebrea capitalista. Mio padre era socio di una azienda tessile e membro di una loggia massonica ebraica. Mia madre militava nella Wizo (Women International Zionist Organization - Organizzazione internazionale delle donne sioniste). Tutti i miei parenti erano attivisti sionisti, ed io sono stato educato nello spirito sionista. Ho aderito al partito comunista nel 1945. A quel tempo non solo ero in disaccordo con il programma del partito, ero anche un suo nemico. Intendevo assicurarmi una posizione vantaggiosa e ho approfittato dell'influenza di elementi ostili penetrati nell'apparato del partito, che appoggiavano l'infiltrazione della borghesia, in particolare di elementi ebrei borghesi insediatisi nell'apparato governativo e in quello economico."

Il 27 novembre 1952 undici imputati, fra cui otto ebrei, furono condannati a morte; altri tre all'ergastolo. La corte motivò le condanne a morte affermando che "simili nemici della classe operaia devono essere eliminati dalla comunità umana." Il processo Slansky costituì una sorta di mobilitazione popolare in nome della crociata antisemita, ma fortunatamente la risposta della società, in Boemia e Moravia, fu alquanto tiepida. Nonostante tutti gli sforzi, il partito comunista più antisemita di tutta l'Europa orientale non riuscì a portare dalla propria parte la popolazione che ai tempi di Masaryk, prima della Seconda guerra mondiale, aveva dimostrato uno spirito di solidarietà nei confronti degli ebrei. I cechi non caddero nella trappola di associare le accuse agli ebrei comunisti con accuse indiscriminate nei confronti di tutti gli ebrei.

Altrettanto complessa fu negli altri paesi del blocco sovietico in Europa la questione della memoria e la condizione ebraica. Da un lato molti ebrei, dopo il trauma subito, preferirono rimuovere la loro identità e cercarono di trovare attraverso il comunismo una nuova assimilazione per non dovere più sentire il peso di un destino che tanti lutti aveva arrecato nelle loro vite. Furono i cosiddetti "ebrei invisibili" che preferirono persino cambiare i loro nomi pur di non doversi ritrovare una situazione simile all'Olocausto. E immediatamente il dominio sovietico creò pesanti attriti tra gli ebrei e parte della popolazione.

L'intellettuale ungherese Erdélyi fotografava così la diversa percezione che ebrei e non ebrei avevano a Budapest dell'Armata rossa: "Noi e gli altri ebrei sopravvissuti abbiamo solo potuto constatare che erano stati i soldati sovietici e non altri ad averci strappato a una morte certa. Questo fatto però ci separava dagli altri ungheresi piuttosto che unirci a loro, che avevano vissuto in modo completamente diverso la liberazione da parte dell'Armata rossa. Potevano gioire oppure considerarla una catastrofe nazionale. Altri potevano provare vergogna per essersi mostrati incapaci di liberarsi con i propri mezzi. Altri ancora, con meno vergogna di sé stessi, potevano domandarsi se non sarebbe stato meglio essere liberati dagli anglosassoni, piuttosto che dai russi. Per noi invece le cose erano chiare: eravamo sopravvissuti perché erano arrivati i russi."

I soldati sovietici erano dunque per gli ebrei i veri eroi, mentre la maggioranza degli ungheresi li vedeva come nemici che occupavano e smembravano il paese. L'Armata rossa rappresentava per loro il segno più tangibile dell'inizio dell'oppressione da parte di una potenza straniera. Il caso più clamoroso fu quello della Polonia. Ebrei e polacchi avevano avuto lo stesso nemico, avevano pagato l'invasione tedesca con milioni di morti, eppure ebbero una percezione completamente opposta della nuova situazione determinatasi con la presenza sovietica. Non solo i sogni di un possibile riscatto non si incontrarono, ma ad un certo punto divennero addirittura antitetici. L'anelito ebraico alla fine delle discriminazioni sembrò realizzabile nel quadro di un regime che però contemporaneamente minava le aspirazioni nazionali polacche. Così tra polacchi ed ebrei sopravvissuti nacque un nuovo cortocircuito. Per molti ebrei chi si opponeva al comunismo era sicuramente antisemita, nazionalista e di destra. Per i polacchi funzionò invece il meccanismo opposto: gli ebrei furono considerati la quinta colonna del regime comunista. Nacque così il mito della "giudecomune".

Vedendo ai vertici del potere alcuni polacchi di origine ebraica arrivati da Mosca assieme all'Armata rossa, come Jakub Berman, Hilary Minc, Roman Zambrowski, molti ebbero l'impressione che alla resa dei conti i polacchi fossero le vere "vittime" della Seconda guerra mondiale, mentre gli ebrei erano i vincitori. Ma era solo un'illusione ottica. Notava il grande medico polacco Jerzy Szapiro: "Un polacco dopo la guerra era cosciente che gli ebrei erano stati le vittime, ma poi si accorgeva che governavano il paese. Risultato: pensava che la situazione degli ebrei fosse migliore della loro, mentre le vere vittime erano i polacchi...". Così nel 1968 in Polonia l'antisemitismo diffuso nella popolazione fu strumentalizzato dal segretario del partito Władysław Gomułka che lanciò una campagna per cacciare dai vertici del potere tutti i dirigenti comunisti di origine ebraica. Fu una vera e propria rivoluzione culturale contro gli ebrei, che in assemblee pubbliche furono messi sotto accusa. Ci volle la nascita di Solidarnosc, a cui parteciparono il vice comandante della rivolta del ghetto di Varsavia Marek Edelman e i due intellettuali ebrei Adam Michnik e Kostanty Gebert, perché finalmente potesse nascere una discussione pubblica e libera sulla condizione ebraica in Polonia. Poi la caduta del muro di Berlino nel 1989 permise che il percorso di elaborazione della colpa e la consapevolezza della dimensione della Shoah cominciato in Europa dopo la guerra potesse finalmente allargarsi al resto d'Europa. L'unificazione europea riguardò dunque anche la costruzione di una memoria comune. Finalmente gli "ebrei invisibili" d'Europa poterono far sentire la loro voce, senza paura e senza vergogna. Un percorso che invece ancora oggi in Russia risulta molto difficile.

Le citazioni sono tratte da:

Gabriele Eschenazi, Gabriele Nissim, Ebrei Invisibili. I sopravvissuti dell'Europa Orientale dal comunismo ad oggi, Mondadori, Milano 1994

Gabriele Nissim, Il tribunale del bene. La storia di Moshe Bejski, l'uomo che creò il Giardino dei Giusti, Mondadori Milano 2014

Gabriele Nissim, Auschwitz non finisce mai. La memoria della Shoah e i nuovi genocidi, Rizzoli, Milano 2022

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

30 gennaio 2023

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