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La domanda che è al centro della nostra memoria

di Stefano Levi Della Torre

Primo Levi e le figure con il filo

Primo Levi e le figure con il filo (Ph. Mario Monge)

Pubblichiamo di seguito il contributo di Stefano Levi Della Torre al dibattito su queste pagine sulla Memoria e la sua funzione nel nostro tempo. 

Virtù e vizi della memoria

Storia e memoria hanno diversa natura. La ricerca storica tenta di ricostruire con obiettività documentata i fatti anche recenti ma in quanto passati; al contrario la memoria ( individuale o collettiva) seleziona soggettivamente i fatti che - in qualunque tempo si siano verificati - percepiamo come attuali per noi, che avvertiamo agire sul nostro presente, sulla nostra identità e coscienza.

La memoria è lo spessore stratificato del nostro vissuto in atto. E seppure l’argomento della memoria è il passato, la sua funzione vitale è nell’attualità e nel presente. Ma poiché il presente è orientato verso il futuro, che è intessuto di paure e di speranze, queste retroagiscono sulla memoria, ne organizzano le evidenze e le rimozioni. La memoria seleziona i ricordi e l’oblio. Poiché la memoria è la sedimentazione dell’identità, seleziona ciò che vogliamo o riusciamo ad ammettere riguardo a noi stessi e ciò che riguardo a noi stessi siamo indotti a rimuovere.

La storia ha le modalità della conoscenza, la memoria ha invece quelle dell’esperienza, vissuta o tramandata. In una biografia lo storico legge in trasparenza dei fatti oggettivi; all’inverso, dai fatti storici la memoria trae una biografia, un’autobiografia. Seleziona i fatti e li orienta o li re-inventa, secondo gli interessi e le intenzioni della vita. La memoria è la materia della propria identità, e ogni persona, ogni gruppo umano, ogni cultura o civiltà si narra eventi o miti che, in funzione di memoria, rendano conto di sé a sé stessi e del proprio esserci nel mondo. La memoria è una funzione della vita, e della costituzione di sé. Chi perde la memoria di sé, di sé non sa più nulla, perde sé stesso. Se non avessimo memoria di noi nel passato, non potremmo sentirci noi stessi ora, nella nostra attualità di soggetti.

Dunque la memoria è la percezione vissuta dell’influenza attiva del passato sulla nostra attualità, pre-occupata del futuro: è una combinazione di tempi assai problematica. Ha una funzione vitale ma non è univocamente virtù. È virtù se è consapevolezza volta a superare errori ed orrori del passato, ma può essere anche un vizio. Pregiudizi e stereotipi sono infatti memoria, ma congelata e cristallizzata. Egoismi, familismi, fondamentalismi e nazionalismi sono fissazioni maniacali o idolatriche della memoria. Memoria che ispira conservazione e reazione aggressiva.

Bene allora coltivare la memoria, meglio se accompagnata dalla critica della memoria. In quanto sostanza dell’identità, la memoria implica comunque un interesse privato in atto storico. La conoscenza della storia può essere condivisa, dimostrata dalle fonti documentali e dai dati; la memoria lo può molto meno, perché intrisa di identità, di giudizio su sé e sull’altro. I fascisti possono ammettere i dati storici circa il regime, ma non la loro interpretazione etica e politica. Eppure la storia può essere, come si dice, magistra vitae (maestra buona o cattiva) solo in quanto venga tradotta in termini di esperienza, ossia di memoria, cioè interiorizzata come attività della coscienza. E per questo magari deformata. Poiché i racconti della memoria non sono analitici ma sintetici, condensati in figure, in episodi esemplari e simbolici, sono predisposti alla forma mitica e alla stilizzazione. Il paesaggio della memoria è accidentato, fatto di rilievi che emergono in luce dalla nebbia del dimenticato, evidenze monumentali che imbastiscono e riassumono le trame discontinue del ricordo.

In La memoria collettiva Maurice Halbwachs scrive che “l’atto di ricordare non esiste se non a condizione di collocarsi dal punto di vista di una o più correnti del pensiero collettivo”. Al pari del linguaggio, il ricordo vive come atto sociale, dialogico. La condizione per cui il ricordo non si trasfiguri in illusione o allucinazione, è che sia sentito come un fatto non solitario, ma comunicabile o messo in comune, almeno nell’immaginazione. Il ricordo vive se trova riscontro in una “comunità di ricordo”, reale o anche immaginata e interiorizzata dalla singola persona. La difficoltà di percepire una “comunità di ricordo” per la sua esperienza estrema del Lager è così espressa da Primo Levi in Se questo è un uomo (Einaudi 1984, p 131):

Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute.

All’inverso, una collettività può costruire ricordi di fatti mai avvenuti, ridotti a stereotipo, a senso comune, e magari a conformismo identitario di appartenenza a un gruppo.

In fine, la memoria può porsi facilmente a pre-giudizio: quando interpretiamo la situazione secondo il già accaduto, o secondo le nostre testarde aspettative, allora il nostro sguardo, troppo volto al passato, ci farà leggere gli eventi come ripetizione, e non coglieremo ciò che è senza precedenti. In base alla memoria di altre secolari persecuzioni, troppi, ad es., non seppero o non vollero comprendere a suo tempo la natura inedita della “soluzione finale” nazista; per via di memoria si preferì credere che il nazismo costituisse una riedizione grave di persecuzioni già conosciute nella storia. La memoria fu allora impedimento a cogliere l’inedito, ispirò interpretazioni preveggenti dei fatti. La storia invece è maestra nel sorprenderci, come dimostrano le catastrofi ambientali o la pandemia in corso.

Monumenti

La memoria in quanto tale, come ho detto, si organizza per “monumenti”, per poli di riferimento dove gli eventi vissuti o tramandati sono interiorizzati e incorporati come elementi di una visione del mondo, e del proprio esserci nel mondo. In definitiva, come cultura.

La memoria ebraica è fatta di “monumenti” – l’Esodo, il roveto ardente, il Sinai, il Vitello d’oro - che sono rappresentazioni del passato e insieme paradigmi sempre attuali delle scelte decisive di ogni epoca, di ogni generazione e di ogni giorno (“come se tu stesso, oggi, fossi uscito dalla casa di schiavitù”). Ma non è questa un’esclusiva ebraica. È piuttosto il fatto che l’ebraismo ha assunto il funzionamento della memoria in genere, quale modalità della propria cultura e della sua trasmissione di generazione in generazione. È il selezionare le narrazioni che siano paradigmi dell’esperienza e che perciò siano messaggi declinabili in ogni tempo. Non dunque gli eventi conclusivi delle riuscite, delle vittorie o delle catastrofi definitive, ma quelli della prova, delle crisi, delle svolte e delle resilienze. La memoria è una strategia per la propria durata come minoranza dispersa tra le nazioni.

In questo senso, anche la memoria della Shoà è “monumentale”. Ma non nella sua accezione consueta, di monumento santificante o trionfale che si dedica agli eroi e ai martiri. Piuttosto un monumento immateriale, opposto al trionfo e alla consolazione, un ammonimento della catastrofe come prodotto umano, un memoriale che potrebbe portare l’iscrizione di Primo Levi: “Perché il mondo conosca sé stesso”.

Nell’ultima pagina de I sommersi e i salvati di Primo Levi (Einaudi 1986), uno dei testi fondamentali per la nostra conoscenza e riflessione su Auschwitz, ci imbattiamo in un’affermazione che ci sorprende e ci spiazza. Dice che nei campi di sterminio tra i tedeschi i sadici erano una presenza trascurabile:

[La realtà di ciò che è avvenuto] fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni non erano mostri, avevano lo stesso nostro viso, ma erano stati educati male.

Che cosa ci saremmo aspettati? Che quell’atrocità organizzata su vasta scala e senza limiti non potesse venir condotta se non da esseri “disumani”. Questa era la nostra aspettativa “logica”. Un’aspettativa in un certo senso rassicurante: gente normale come noi non arriverebbe mai a fare simili cose; solo dei sadici patologici potrebbero spingersi a tanto, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Questo è un nostro meccanismo di riparo dall’orrore: spontaneamente cerchiamo un sollievo dall’angoscia pensando “logicamente” che, nel suo complesso, il personale del Lager fosse di una specie animale diversa da noi.

L’affermazione di Primo Levi ci impedisce questo sollievo, questo pensiero rassicurante su noi stessi. La sua affermazione ci dice che, in genere, gli stessi funzionari del Lager erano gente comune, e ci pone una domanda inquietante: che cosa ci garantisce da che ciascuno di noi, in determinate circostanze e sotto la pressione di una propaganda capace di produrre un senso comune pervertito non sarebbe indotto (per conformismo, per opportunismo, per bisogno di un posto di lavoro e di uno stipendio) a farsi parte di un immenso meccanismo di oppressione e di strage? Il burocrate che gestiva i documenti e gli archivi, il ferroviere che conduceva i convogli della deportazione di massa verso i campi della morte, la guardia che conduceva i semi-vivi al loro lavoro di schiavi e alle camere a gas una massa umana, resa repellente dalla sporcizia, dalle privazioni e dalle violenze, erano padri e madri di famiglia che svolgevano le loro mansioni parcellizzate pensando amorevolmente ai propri figli ecc.

La domanda centrale

Si può dare per scontata la nostra solidarietà con le vittime delle atrocità di massa nel passato. Molto meno la nostra capacità di essere solidali, nell’animo e ancor più nella pratica, con le vittime del presente, con la gente che muore in mare, con gli oppressi da regimi autoritari; e lo dimostrano le vaste adesioni ai populismi xenofobi. Quella con le vittime del passato è però una solidarietà che può riposare troppo facilmente sul nostro desiderio di sentirci dalla parte giusta. Spostiamo allora la questione.

L’affermazione di Primo Levi sulla normalità dei funzionari del Lager (erano fatti della nostra stessa stoffa; avevano lo stesso nostro viso) non diminuisce l’orrore; al contrario lo aumenta, perché ci dice come la normalità, la nostra stessa normalità, possa trovare mille giustificazioni private che la rendano disponibile a far funzionare, ciascuno per la sua parte, un colossale sistema di distruzione dell’uomo, o dell’ambiente. Ora consideriamo che quando viene avanti l’idea che la nostra vita o la nostra sicurezza possa valere cento, mille volte la vita e la sicurezza degli altri; o quando in nome di una superiorità morale, civile o religiosa ci si abbandona ad atti che contraddicono e smentiscono proprio i principi di cui ci si vanta; o quando nella concorrenza per le risorse del pianeta si decide che alcuni gruppi umani hanno diritto alla libertà e al benessere e si condannano altri alla fame, alla schiavitù e alla morte; allora Auschwitz non apparirà solo come un gigantesco crimine del passato; ma anche come una oscura profezia di qualcosa che è sempre possibile, se non in atto.

La riflessione su Auschwitz ci pone questa domanda: che cosa ci può accomunare, se non ai carnefici diretti, al conformismo consenziente o anche solo prudente, o indifferente al destino altrui, o al non voler sapere per evitare responsabilità o inquietudine, tutti quegli atteggiamenti, insomma, individuali e sociali, che hanno permesso che Auschwitz avvenisse? Al di là della giusta e necessaria indignazione e memoria per le atrocità di massa, del necessario ricordo delle vittime, la domanda che si pone per la nostra attualità è questa: che ne è della nostra normalità, dove porta o è portata? Questa è la domanda al centro della nostra memoria.

Erano stati educati male, scrive Primo Levi. Quali sono i nostri educatori di fronte alle atrocità di massa? Sono in primo luogo coloro che si sono opposti, a loro rischio, alle persecuzioni, per salvare persone e diritti, affrontando il senso comune, il conformismo e il terrore fomentati dalla propaganda di forze politiche, religiose e militari dominanti. Sono i “giusti delle nazioni” che hanno saputo e sanno occuparsi delle persone rompendo i criteri della propaganda persecutoria che al contrario omologa le persone allo stereotipo. È un fatto di coscienza. Ma la coscienza non è un fatto puramente personale: è lo sguardo interiorizzato di una comunità virtuale di persone con cui abbiamo via via condiviso idee morali e politiche, uno sguardo che ci osserva, e una voce collettiva che ci giudica e ci avverte di ciò che è degno e di ciò che è vergogna. Il minimo che ciascuno di noi può fare è di partecipare attivamente a una tale comunità di valori, che incida nel senso comune a conferma di una frase consueta ai giusti: “Non avrei potuto agire diversamente”.

Stefano Levi Della Torre

Analisi di Stefano Levi Della Torre, architetto, pittore e saggista

14 settembre 2020

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