Aung San Suu Kyi in Birmania, Neda Agha-Soltan in Iran, Natalia Estemirova e Zarema Sadulayeva in Cecenia, e ora Lubna Hussein in Sudan. Ma anche Halima Bashir, Anna Politkovskaja, Mehrangiz Kar, Zeng Jinyan, Khalida Toumi Messaoudi, Taslima Nasreen, Sylvie Maunga Mbanga, Norma Cruz, Lydia Cacho, Maria Elena Mojano, Sunila Abeysekera........E poi Nadezda Maldel’stam, Jacqueline Mukansonera, Elif Shafak, Ayse Nur Zarakolu....
Donne di ogni parte del mondo che si ribellano a un potere aberrante che le vuole sottomesse, ubbidienti, relegate a strumento di piacere o di dominio, comunque mai persone, mai riconosciute per il loro valore di esseri umani. Donne che non accettano di dire sempre di sì. Donne che sanno scegliere, che sanno dire no. Donne che decidono di battersi per la propria dignità e donne che difendono il valore dei sentimenti, che condividono le battaglie dei mariti, dei figli, che rifiutano il ricatto di rassegnarsi per poter sopravvivere. Dalle mogli che respingevano la richiesta delle autorità sovietiche di divorziare dai mariti finiti nel gulag e rischiavano così di essere a loro volta deportate, e di non poter mantenere i figli perché perdevano il lavoro, la casa, gli amici; alle madri di Plaza de Majo che hanno preteso di conoscere la sorte dei loro figli, denunciando al mondo il dramma dei desaparecidos in Argentina, alcune subendo la stessa terribile fine.
Se la forza morale espressa dalle donne è così dirompente, è proprio perché la loro voce ha dovuto percorrere lande desolate sconfinate per arrivare a destinazione, per gridare il proprio NO! Un no che manifesta la volontà di resistere a ogni costo, un no altamente politico perché propositivo, che si oppone all’annientamento della dignità umana, che afferma il valore della persona, che chiede libertà, autodeterminazione, democrazia. Una battaglia per i diritti umani fondamentali che vale per tutti.
Per questo i dittatori hanno paura delle donne. Per questo i giudici dei tribunali asserviti al potere esistano a perseguitarle fino in fondo, quando attorno ad esse si crea la solidarietà delle altre donne. Per questo la loro azione è così eclatante, così caparbiamente irriducibile. E quindi così pericolosamente efficace.
Le donne fanno paura perché sanno vincere la paura. Che è l’obiettivo più difficile da realizzare, ma anche la condizione che rende invincibili. Nell’esperienza terribile dei totalitarismi che hanno insanguinato il Novecento in Europa, la paura diffusa in tutto il tessuto sociale è stata l’arma più potente, insieme all’ideologia, per mantenere il potere assoluto. Un meccanismo che si riproduce, oggi, nelle teocrazie dei vari continenti. Saper vincere la paura significa togliere le cartucce dalla pistola. Lubna Hussein l’ha fatto.