Intervento di Gabriele Nissim al Parlamento europeo di Bruxelles in
occasione del 70esimo anniversario del salvataggio degli ebrei bulgari
In tutta Europa si celebra la Giornata dei Giusti
per ricordare gli uomini che durante la Shoah e in tutti i genocidi
hanno cercato con il loro coraggio di opporsi alla barbarie e si sono
prodigati per salvare delle vite umane.
Come ha sottolineato Yehuda Bauer,
uno dei massimi studiosi della Shoah, il modo migliore per ricordare la
memoria dello sterminio nazista è quello di impegnarsi per la
prevenzioni di tutti i genocidi.
È questa la nostra
responsabilità: ce lo hanno insegnato gli uomini Giusti che sono stati
onorati a Yad Vashem, per l’opera infaticabile di Moshe Bejski, e che
oggi sono indicati dal Parlamento europeo come un esempio morale per il
futuro della nostra comunità.
Essi ci insegnano il valore della responsabilità personale.
Auschwitz ci ha trasmesso una verità molto amara: non esiste un Dio che
può salvare gli uomini durante i genocidi, ma il compito è affidato
esclusivamente all’azione degli esseri umani. Gli uomini possono
diventare i più terribili predatori della terra e uccidere con
indifferenza non solo gli animali, ma una parte cospicua della stessa
umanità; tuttavia possono anche impedire che tutto ciò possa accadere e
rischiare la loro vita per la salvezza degli altri uomini, quando
diventano consapevoli che quando si colpisce un altro uomo ne viene meno
una parte di loro stessi.
Il motivo della responsabilità verso l’altro è molto semplice: è la nostra fragilità umana.
Poiché siamo tutti deboli e mortali abbiamo sempre bisogno degli altri,
per potere sormontare tutte le difficoltà della nostra esistenza. Ecco
perché siamo chiamati a prenderci cura l’uno dell’altro, perché
capiterà sempre nella nostra vita che qualcuno si dovrà prendere cura di
noi.
I tedeschi avranno sempre bisogno degli ebrei, i turchi degli
armeni, gli Hutu dei Tutsi, come i padri
dei figli e gli uomini delle donne.
È infatti la pluralità umana che
sorregge la nostra esistenza e la socialità degli esseri umani è
l’unico potere non effimero di cui possiamo godere nella nostra vita
così breve.
Chi ha capito molto bene questo concetto è stato Dimitar Peshev, il vicepresidente del parlamento bulgaro, che è stato il grande artefice del salvataggio degli ebrei del so Paese.
La
sua storia merita di essere ricordata oggi in tutta Europa perché
Peshev non è stato né un santo, né un eroe classico, ma addirittura un
uomo politico che era stato affascinato da Hitler e che aveva
votato in parlamento le leggi razziali antisemite.
Egli è stato
probabilmente in tutta la storia del Terzo Reich e dei paesi alleati
alla Germania, l’unico statista di peso capace di una straordinaria metamorfosi personale che lo ha portato a mettere in discussione la stessa ideologia in cui aveva creduto.
Lo
scrive lui stesso senza reticenze nelle sue memorie, anche dopo il
successo della sua iniziativa per il salvataggio degli ebrei, quando
avrebbe potuto presentarsi al mondo come un eroe senza macchia. “Avevo
approvato quelle misure perché ritenevo che fossero importanti per
cementare la nostra alleanza con la Germania e così salvaguardare i
nostri interessi nazionali. Non pensavo che quei provvedimenti potessero
diventare permanenti ed assumere le proporzioni di quelli applicati in
Germania.”
Quando il suo amico ebreo Jako Baruch, a poche
ore dall’imminente deportazione, lo invita a prendere un’iniziativa a
sostegno degli ebrei che erano già stati raccolti nei depositi di
tabacco per essere trasferiti in Polonia, Peshev si trova di fronte a
due possibilità.
Comportarsi come Eichmann e tutti coloro che
assecondavano la soluzione finale, sostenendo che un cittadino onesto,
anche se le cose non gli piacevano, doveva conformarsi agli ordini dello Stato e alle leggi in vigore e dunque ubbidire, per il bene supremo
della Bulgaria, al governo della Corona e non provare imbarazzo di
fronte alle richieste di aiuto.
Oppure interrogare se stesso e mettersi al posto degli ebrei, immaginando le loro possibili sofferenze.
Egli, come direbbe il filosofo lituano Emanuel Levinas, decide di così
di ubbidire al comando dell’altro uomo e non a quello di re Boris, e con
una delegazione di parlamentari si reca nell’ufficio del Ministro dell'Interno Petar Gabronski, minacciando uno scandalo politico.
Messo alle
strette, il Ministro gli promette la sospensione del
procedimento in corso, ma Peshev rimane comunque sospettoso e lo costringe a telefonare
in sua presenza a tutte le prefetture per fare liberare gli ebrei che
erano già stati trasportati nei centri di raccolta. È questo l’unico
caso nella storia di tutta la Shoah in cui un Ministro dell’Interno viene
costretto a fare marcia indietro e a liberare migliaia di ebrei pronti
per essere deportati sui treni.
Ma ancora più importante da un
punto di vista morale è l’azione politica che Peshev conduce in
Parlamento. Il vicepresidente della Sobranie è infatti consapevole che
la situazione degli ebrei rimane comunque in bilico, poiché l’ordine
della deportazione è soltanto sospeso. Intuisce che ci vuole un segnale
politico dal Parlamento bulgaro, affinché il governo non ceda nuovamente
alle pressioni della Germania.
Scrive allora il 17 marzo 1943 un
documento con l’obiettivo di raccogliere il massimo numero di firme da
parte dei deputati della maggioranza filonazista da inoltrare al primo ministro Bogdan Filov, responsabile con il re Boris dell’ordine della deportazione.
Il
testo è un vero capolavoro, poiché si propone di fare capire come il
male fatto agli ebrei si ripercuoterà prima o poi sulla nazione bulgara.
Peshev
non chiede ai parlamentari di difendere gli ebrei per compassione, in
nome di un amore universale verso gli altri, un argomento che certamente
non può convincere chi ha abbracciato la spirito nazionalista del
tempo, ma li invita ad immaginare il peso insopportabile della colpa che si abbatterà sul paese intero.
Peshev
capovolge così il discorso patriottico. Per le ambizioni territoriali
non si può diventare complici di un genocidio. L’amputazione “morale” è
ben più grave dell’amputazione “territoriale”. “Tali misure sono
inammissibili - scrive nel documento - non solo perché queste persone, cittadini bulgari, non possono essere espulse dalla Bulgaria, ma anche
perché ciò avrebbe serie conseguenze per il Paese. Sarebbe un’indegna
macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che costituirebbe un grave
peso morale, ma anche politico, privandola in futuro di ogni valido
argomento nei rapporti internazionali.
Le piccole nazioni non
possono permettersi di trascurare questi argomenti che, qualsiasi cosa
accada in futuro, costituiranno sempre un’arma potente, forse la più
potente di tutte. Per noi questo è molto importante, perché, come Lei
forse ricorderà, in un recente passato abbiamo sofferto pesanti perdite
morali, a causa delle deviazioni dalle leggi umane e morali da parte di
alcuni bulgari e spesso per colpa di persone irresponsabili.
È
facile prevedere le conseguenze che una simile situazione potrebbe
avere, ed è per questo che ciò non deve succedere. L’onore della
Bulgaria e del popolo bulgaro non è solo una questione di sentimento, è
soprattutto un elemento della sua politica. È un capitale politico del
massimo valore ed è per questo che nessuno ha il diritto di usarlo
indiscriminatamente se il popolo intero non è d’accordo.”
Il contenuto dell’appello ricorda il testo della lettera che lo scrittore tedesco Armin Wegner aveva
mandato invano ad Hitler dieci anni prima alla cancelleria di Monaco
nell’ aprile del 1933, quando lo aveva messo in guardia dalla vergogna
che sarebbe ricaduta sulla Germania con le persecuzione antiebraica.
“La
vergogna cui va incontro la Germania a causa di ciò non sarà
dimenticata per lungo tempo! Infatti, su chi cadrà un giorno lo stesso
colpo che ora si vuole assestare agli Ebrei, se non su noi stessi?”
Come
noi sappiamo ancora oggi la Germania paga ancora questo prezzo morale,
mentre la Bulgaria può vantare per merito di Peshev e di tutti coloro
che seguirono lo spirito di questa lettera di avere in parte salvato la
sua reputazione nel mondo.
Peshev con la sua protesta è riuscito a
fermare la deportazione dei cinquanta mila ebrei di Bulgaria, ma non è
riuscito a bloccare quella dei 12 mila ebrei di Tracia e Macedonia.
Poteva farlo re Boris, ma non lo ha fatto. È una responsabilità di cui
non possiamo tacere.
A loro va il nostro ricordo in questa giornata nel parlamento di Bruxelles.
La lettera di Peshev, se riletta oggi a 70 anni dalla sua stesura, trasmette all’Europa due insegnamenti di grande attualità.
La ricchezza di una nazione non la si misura solo dal Pil, ma dalla sua forza morale.
Se viene meno la sensibilità per i diritti umani, o si tace sui crimini
che avvengono verso altre popolazioni, come accade per esempio oggi in
Siria, si crea la povertà più ignobile per qualsiasi paese: quella
dell’indifferenza.
Quando Peshev parla della vulnerabilità delle
piccole nazioni, lascia intendere che un comportamento insensibile verso
chi soffre, viene perseguitato, o si trova in una situazione economica
disagevole ( pensiamo alla Grecia nella comunità europea) può un giorno
ritorcersi contro chi ne diventa responsabile, poiché non c’è nessuna
nazione, come d’altronde nessun essere umano che, come ha sostenuto
Rosseau nella sua lettera ad Emile, non possa cadere un giorno in
disgrazia e non debba contare sulla solidarietà altrui.
Tutti abbiamo bisogno degli altri per la nostra soppravvivenza. È questa l’eredità morale
che ci hanno tramesso gli uomini giusti in tutti genocidi, da quello
armeno, alla Shoah, ai gulag, al genocidio dei Tutsi, alla Cambogia.
Hanno rischiato la vita per questi valori. Ecco perché li onoriamo oggi. In nome di Peshev.