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La lenta agonia di Moacyr Barbosa

di Darwin Pastorin

Moacir Barbosa calcia via la palla dopo aver subito dall'Uruguay il gol che cambierà per sempre la sua vita

Moacir Barbosa calcia via la palla dopo aver subito dall'Uruguay il gol che cambierà per sempre la sua vita

Il nome di Moacyr Barbosa è rimasto indissolubilmente legato alla partita Brasile-Uruguay valida per l'assegnazione del Mondiale di calcio del 1950. Primo portiere nero della Seleção, un suo errore determinò la sconfitta del Brasile. Da allora, fu considerato "un uomo da seppellire nel disprezzo". Darwin Pastorin racconta l'incredibile storia dell'eroe trasformato in reietto.

Il 7 aprile del 2000, Moacyr Barbosa raccolse le briciole di una frugale cena. Quindi accarezzò la fotografia della moglie Clotilde e chiuse la finestra. Gesti consueti. Da tanto, troppo tempo. Si sentiva, a 79 anni, stanco di essere stanco. Decise, per quella notte, di non sfogliare le pagine di “O Globo”, il quotidiano di Rio de Janeiro. Gli piaceva leggere le pagine della politica e della cronaca. Lo sport, no. Quello lo saltava sempre: un altro gesto consueto da anni. Tirò un sospiro di sollievo, e attese - come sempre - l’arrivo dei suoi fantasmi. 

Erano puntali, gli bastava chiudere gli occhi: ed eccoli, tutti lì, ad aspettarlo. Ormai erano diventati, nel bene e nel male, i suoi compagni, la sua disperazione e il suo conforto. Poi, in fondo, non gli dispiaceva rivedere Clotilde ancora giovane e lui, Moacyr Barbosa, ancora portiere. Il primo portiere di pelle nera a vestire la maglia della nazionale brasiliana. Un idolo della folla. Del Vasco da Gama e della Seleçao. Sembrava una storia a lieto fine: aveva tutto, Moacyr, amore popolarità denaro. Tutto cambiò in 90’. Il 16 luglio 1950. L’eroe si trasformò in reietto. In un uomo da seppellire nel disprezzo, nell’oblio. Nell’estremo difensore mai esistito. “Barbosa? Mai sentito”, “Mi dispiace, non conosco nessuno con questo nome”, “Per carità, siete matti, quello non è mai nato...”.

Barbosa sentì una fitta alla schiena, maledetta età, da tempo si trascinava nuovi affanni. Ma il dolore, quello vero, risaliva a quel lontano giorno dei sogni capovolti e stravolti. Al giorno che i brasiliani attendevano da anni: doveva essere il momento della gloria, di un carnevale anticipato, mai visto, di un popolo che avrebbe ricordato quella partita per sempre. Nei secoli dei secoli. 16 luglio 1950, si disputa il match decisivo della Coppa del Mondo, Brasile contro Uruguay, giganti contro nani, sacerdoti contro vittime, lupo contro agnello. Ai verdeoro può persino bastare un pareggio, in quell’ultimo atto. E lo stadio, com’è immenso quello stadio! Moacyr riesce persino a sorridere. Il Maracanã imponente, il Maracanã dai duecentomila cuori, dalle duecentomila voci, il Maracanã costruito per l’occasione: il tempio più bello per il rito più amato. Il “futebol”. Moacyr si rivede ragazzino a Campinas: il lavoro alla fabbrica di imballaggi e poi le partite, su quel campo di pietre e polvere sino al tintinnare del tramonto. Tu amavi stare in porta: e come eri bravo! Talmente bravo che, subito, ti volle l’Ypiranga. Le tue mani non erano incerte e ruvide come quelle di adesso, mani che non hai mai smesso di tormentare da quel 16 luglio: le tue mani, a quel tempo, erano artigli d’acciaio, leggere solo nelle carezze per Clotilde.

Barbosa senti le palpebre abbassarsi. E già sapeva. Stavano per arrivare, al suono dei tamburi, delle trombe, di quel Maracanã che era un’anima di cemento, con quei tifosi che, da ore, non smettevano di scandire “campioni, campioni, campioni!”. Il Brasile doveva vincere: non poteva esserci altra soluzione, altra scrittura. Eccoli: i giocatori dell’Uruguay, l’arbitro con i guardalinee, tutti quei volti felici, sorridenti. E i suoi compagni: sereni, nemmeno un’ombra di preoccupazione, nemmeno un tremore. Ed eccolo, Moacyr. Salutare con la mano il suo pubblico, quel pubblico che lo amava per la sua eleganza, per il suo stile senza eccessi. L’orgoglio dei mulatti, che finalmente avevano il loro portiere. Aveva sconfitto il razzismo, e quel numero uno sulla maglia significava molto per gli emarginati, gli esclusi, i senza identità e senza terra.

Quel 16 luglio 1950 il cielo si rovesciò, i brasiliani passarono dalla risata al pianto, dalla consapevolezza allo smarrimento, dal tutto al niente. Nel secondo tempo, la Seleçao si portò in vantaggio con l’attaccante Friaça. Ecco, dissero in molti, dissero tutti: è l’inizio della danza. “Brasil! Brasil! Brasil!”. Ecco l’Uruguay pronto a crollare. Invece l’Uruguay aveva il suo Santo Calciatore. Un gigante, un centrocampista dalla tempra d’acciaio, un uomo nobile: Obdulio Varela. Obdulio, dopo il gol, prese il pallone e se lo tenne tra le mani, come una madre con il bambino al seno. La folla ululava, i brasiliani avevano fretta di riprendere lo spettacolo, l’arbitro chiedeva di restituirla subito, quella maledetta palla. Ma Obdulio, no. Lui aveva capito. Aveva capito che spettatori e avversari si stavano innervosendo, che quel tempo fermo, isterico avrebbe favorito la sua squadra. Alla ripresa del gioco, l’Uruguay divenne padrone della scena. Segnò Schiaffino e, a undici minuti dalla fine, Ghiggia.

Ghiggia, forse, non voleva nemmeno tirare in porta. Il suo era, probabilmente, un cross: ma la sfera assunse un effetto che ingannò Barbosa. Quando si rialzò, dopo l’inutile tentativo di parata, Moacyr rimase in ginocchio, mentre lo stadio fermò tutti i respiri. In quel preciso istante, il primo portiere nero della nazionale brasiliana capì che la sua vita era finita. Sull’erba del Maracanã. Lì, su quell’erba che avrebbe dovuto portarlo dalla cronaca alla leggenda, lui e Clotilde ricevuti dal presidente della Repubblica, come il re e la regina delle favole. Lì, su quell’erba diventata di ghiaccio, ormai un’ombra vagante, simbolo di quella sconfitta, il giocatore da mettere in croce e subito da dimenticare, da cancellare.
Sì, il 16 luglio 1950 cominciò la lenta agonia di Moacyr Barbosa. Nessuno più lo salutava, nessuno più divideva con lui una birra al bar, una sera al cinema, una passeggiata per le vie del centro. “Lasciatelo stare, non avvicinatevi: porta sfortuna. È il maledetto del Maracanã!”. Lui, che per ironia della sorte venne eletto miglior portiere di quella Coppa del Mondo, cominciò a mettersi in disparte, vivendo di ricordi e delle carezze di Clotilde. Lo spettro di Rio non urlò mai, non chiese spazio sui giornali e in televisione, non fece nessun gesto clamoroso. Sapeva di essere innocente. Di pagare una colpa assurda. Si raccolse nella propria malinconia, vedendo passare il tempo e le stagioni. Festeggiò da solo, nella sua stanza, la vittoria del Brasile nel 1958 in Svezia, sperando in un miracolo, in un risarcimento dei danni: ma anche quel successo non bastò a cancellare il 1950.

Quel 7 luglio 2000, però, Barbosa non visse più il suo incubo. Quella notte si addormentò sereno, per la prima e ultima volta. A prenderlo per mano, con la tenerezza di sempre, venne Clotilde.

Per approfondire: I portieri del sogno, storie di numeri 1 (Darwin Pastorin, prefazione di Gigi Buffon, Einaudi, Torino 2009).

Darwin Pastorin, scrittore e giornalista

Analisi di

6 aprile 2020

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