Gariwo
https://it.gariwo.net/editoriali/la-lezione-argentina-come-si-come-si-combatte-loblio-e-la-riflessione-sul-genocidio-26493.html
Gariwo

La lezione argentina: come si come si combatte l’oblio e la riflessione sul genocidio

di Gabriele Nissim

L’inaugurazione del Giardino dei Giusti a Mar de Plata, tutti gli incontri che abbiamo avuto con le donne di Plaza d Mayo, le visite ai memoriali della Esma a Buenos Aires e al Faro di Mar de Plata, ci permettono di fare alcune considerazioni sul tema complesso della memoria in un paese che ha vissuto uno dei più gravi crimini contro l'umanità del Novecento.

Prima di tutto, mi ha colpito l’uso del termine “genocidio” per descrivere la dinamica dell’omicidio di massa che ha portato all’annientamento di oltre trentamila desaparecidos. Sono numeri in difetto, perché il regime di Videla è riuscito a creare una onda lunga del terrore che ha portato molte famiglie a non raccontare pubblicamente la perdita dei famigliari. Non sapremo mai, forse, quanti erano.

In Argentina le associazioni della memoria e dei diritti umani hanno fatto proprio il pensiero originale di Raphael Lemkin, che riteneva che il concetto di genocidio non dovesse venire circoscritto a stermini di carattere etnico, ma dovesse essere esteso ad ogni forma di distruzione di esseri umani, compresa quella politica. È una definizione, invece, che erroneamente non viene utilizzata per i crimini di Stalin e nemmeno per le modalità dell’aggressione all’Ucraina. Lemkin non riuscì a fare approvare questo pensiero nella convenzione delle Nazioni Unite del 1948 per il veto posto dall’Unione Sovietica e dagli stessi paesi dell’America latina; mentre a Buenos Aires, per merito del procuratore Julio Céssar Strassera, nel processo del 1985 agli esponenti della giunta militare di Videla il concetto di genocidio “politico” è stato ripreso e rielaborato, divenendo così di grande attualità.

I genocidari agivano in quattro tappe, come viene spiegato con grande lucidità al memoriale della Esma, in quella che era la grande scuola militare della marina, vanto delle forze armate, in uno dei luoghi più belli della città.
La prima consisteva nel sequestrare e nascondere i prigionieri: nessuno dei famigliari conosceva la loro sorte e il regime negava la loro scomparsa. Poi c’era la tortura, che veniva usata per spingere i prigionieri alla delazione come possibilità di sopravvivenza in un meccanismo perfido di concorrenza per la vita. Poi la reclusione a tempo indeterminato, le vittime erano incappucciate per togliere loro qualsiasi relazione umana. Infine la soluzione finale descritta con eufemismo, “traslado”, che ricorda il trasferimento degli ebrei nelle camere a gas. In questo caso, la tecnica moderna della distruzione era quella di gettare le vittime dagli aerei, permettendo l’occultamento dell’omicidio di massa.

Chi visita la Esma, e vede esposto uno dei veicoli che gettava i corpi dei prigionieri nell’immenso Rio de Plata, ha la stessa sensazione di disagio quando nelle vicinanze passa un aereo che un visitatore del memoriale della Shoah di Milano quando sente il passaggio di un treno. La giustificazione usata dai carnefici per spiegare il loro operato nel corso dei processi era la stessa, di tipo vittimistico, che aveva usato Hitler nei confronti degli ebrei nel parlamento tedesco. "Erano in guerra contro i nemici" e il loro annientamento era per la salvezza della nazione dai guerriglieri peronisti.

Come dichiarò il giudice Strassera, ciò che colpiva in questo sterminio di massa è che “non si poteva credere che c’era una banda di assassini che uccideva mezzo mondo e nessuno sembrava accorgersi di nulla”. La reclusione e la preparazione al “traslado” (una parola da non dimenticare) non avveniva in luoghi nascosti, ma all’interno di caserme e di scuole militari dove le reclute vivevano e studiavano normalmente accanto ai percorsi di morte. Era dunque tutto un apparato militare ad essere a conoscenza del destino dei desaparecidos. L’implicazione diretta dello Stato argentino e dell’esercito nello sterminio è uno dei grandi problemi della memoria pubblica, come del resto è accaduto in altri paesi che sono stati responsabili di genocidi e leggi razziali.
Togliere l’innocenza allo Stato e riconoscere quindi la sua responsabilità nel corso di un periodo particolare della storia è qualche cosa che non viene digerito, perché si ha paura che venga meno il senso di appartenenza alle istituzioni e il senso di patria e di nazione. È stato così del resto per Mitterand in Francia, che ha negato la responsabilità dello Stato per il regime di Vichy, la Turchia, che ha negando di aver compiuto un genocidio, e oggi Putin, che mette fuori le legge le associazioni come Memorial, che ricordano i gulag dello Stato sovietico. Una tentazione che ha oggi Meloni sul passato fascista dello Stato italiano, in nome della innocenza della italianità.

Invece di comprendere che il riconoscimento pubblico della colpa da parte dell’apparato statale e dell’esercito non è mai un handicap, ma un segno di maturità di una nazione, come aveva sostenuto Habermas in Germania, si cerca oggi in Argentina, alla vigilia delle elezioni, di rimuovere il peso del passato con una operazione di tipo negazionista. Non si dice che i crimini non sono accaduti, ma li si presenta come uno scontro tra opposti estremisti, cercando di togliere la responsabilità allo Stato. In questo modo, si introduce con uno stratagemma: il concetto di responsabilità delle stesse vittime che hanno subito lo sterminio.

In questo modo i negazionisti in Argentina cercano di mettere a tacere le voci delle famiglie e delle donne di Plaza de Mayo che ancora oggi si battono per conoscere la verità su tutte le persone scomparse. Così, chi visita oggi l’Argentina si accorge che la battaglia per la memoria dei desaparecidos non è qualche cosa di limitato agli anni settanta della dittatura di Videla, ma un tema di grande attualità che riguarda il futuro degli assetti politici del paese.

In questa battaglia in corso per la memoria c’è poi un elemento che ci tocca da vicino e che dovrebbe diventare un punto importante di riflessione per la sua grande originalità. All’ingresso del memoriale della Esma c’è un enorme blocco di granito che spiega il senso del luogo con una grande scritta che ne descrive la sua funzione educativa: “Spazio per la memoria e per la difesa dei diritti umani”. Ovvero, la memoria può vivere solamente se diventa uno strumento per il miglioramento costante della vita delle persone e dei diritti umani in una battaglia che non finisce mai.

È il tema che con grande lungimiranza aveva lanciato al termine della sua requisitoria il procuratore Strassera il 18 settembre 1985. "Desidero rinunciare a qualsiasi pretesa di originalità nel chiudere questa locuzione. Vorrei usare una frase che non è mia, perché appartiene già a tutto il popolo argentino. Con il vostro rispetto: nunca más!".

Qual è il senso di tutto questo me lo spiega Pedro Becchi, un docente di italiano all’università di Mar de Plata. “Può sembrare strano, ma per i giovani argentini gli avvenimenti accaduti negli anni '70 sembrano una storia di cento anni fa. È come se quella vicenda non li riguardasse perché appare come di un’altra epoca. Per questo dobbiamo attualizzare la memoria”.

Non è nulla di così tanto diverso della sensazione di quando nelle scuole italiane arrivano calati dall’alto discorsi sulla memoria della Shoah e della resistenza. Per molti ragazzi di oggi sembrano storie di un altro mondo...

Qual è la soluzione allora? Me lo spiega Ana Pecoraro, la coordinatrice del Faro, il centro della memoria di Mar de Plata, costruito nella stessa caserma dove erano reclusi 400 desasparecidos e dove ancora oggi hanno sede i militari che spesso guardano di traverso i visitatori. Ana Pecoraro, figlia di genitori sequestrati, uno dei quali non ha mai fatto ritorno, mi spiega che vuole trasformare il centro in luogo di assistenza per i migranti e per i diritti umani. “Così quella memoria non sarà dimenticata, perché diventerà un modo per continuare a lottare oggi”.

Ancora di più mi sorprende Vera Vigevani Jarach, madre di Franca, gettata da un aeroplano, e infaticabile protagonista della lotta in Plaza de Mayo.

Lei, cieca, novantaseienne, con la foto vicina di sua figlia e il foulard simbolo della battaglia delle donne, mi racconta che in Argentina bisogna fare comunità per aiutare le persone bisognose. “Per me comincia sempre un nuovo inizio e ogni volta sono dell’opinione che le persone si possono mettere assieme per nuove battaglie”.

E chi le fa queste battaglie?

“Non sono gli eroi, ma le persone piccole e comuni. Il punto che cerco di spiegare a tutti, andando ancora oggi tra i ragazzi nelle scuole, è che ognuno può nella sua piccolezza fare la differenza con tanta gioia, pure nella sofferenza”.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

14 settembre 2023

Non perderti le storie dei Giusti e della memoria del Bene

Una volta al mese riceverai una selezione a cura della redazione di Gariwo degli articoli ed iniziative più interessanti. Per iscriverti compila i campi sottostanti e clicca su iscrizione.




Grazie per aver dato la tua adesione!

Contenuti correlati

Scopri tra gli Editoriali

carica altri contenuti