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La ninnananna della memoria

di Francesco M. Cataluccio

“Sono anni che cerco i miei genitori o qualcuno della mia famiglia. Ho esaurito tutte le possibilità. Nessuno mi ha aiutato, nemmeno la Croce Rossa. Non sono riuscita a trovare nessuno, neanche in Francia, perché probabilmente i miei genitori avevano la cittadinanza francese e io sono nata lì. C'è un’istituzione a Gerusalemme dedicata alla ricerca delle famiglie ebree, ma non hanno rintracciato nessuno. Le chiedo quindi vivamente che il mio caso sia reso pubblico. Forse, con il suo aiuto, qualcuno risponderà a questo appello. Forse qualcuno, qualcuno della mia famiglia, mi troverà. Vorrei tanto che questo giorno, questo momento arrivasse il più presto possibile…”. Anna Zielonka, una trentina di anni fa, indirizzò questo appello allo scrittore polacco Henryk Grynberg.

La signora così gli spiegava la sua storia: “Questo è ciò che so dalla mia defunta tutrice e da un’altra persona della sua famiglia. I miei genitori, quando non poterono più nascondersi, mi consegnarono a delle persone che avevano perso la figlia di due anni. Mi fu passato il certificato di nascita della bambina. Avevo forse due anni in più, ma a quei tempi si poteva nascondere. I miei genitori dettero ai tutori i documenti di famiglia e gioielli preziosi. Concordarono che se qualche membro della famiglia fosse sopravvissuto, si sarebbe fatto vivo e li avrebbe risarciti per il fatto di avermi salvata. Se però nessuno si fosse fatto avanti, i miei tutori dovevano restituirmi i documenti quando sarei diventata maggiorenne. In realtà qualcuno della famiglia sopravvisse e si presentò a loro, ma gli dissero che ero morta e che tutto era stato perso durante la guerra. La mia tutrice mi disse che era stata la famiglia di suo marito per impossessarsi delle proprietà dei miei genitori. Mi face anche sapere che tutti i documenti di famiglia e i gioielli li aveva la sorella di suo marito. Lei non si ricordava i nomi dei miei genitori nè la mia data di nascita. Così ho chiesto i documenti a sua cognata. Le ho assicurato che non volevo nuocerle: desideravo solamente ritrovare qualche membro della mia famiglia. Lei negò tutto e alla fine mi disse apertamente che non mi avrebbe restituito nulla, tanto non avevo nessuna prova in mano. Denunciai il caso alla magistratura, ma non successe niente. Non ho mai nemmeno ricevuto una risposta. Il tribunale di Cracovia si è comportato allo stesso modo. La mia tutrice ha detto che avevo quattro anni quando sono stata affidata a loro. Lei dette alla luce un altro figlio nel 1942 e ricordo molto bene quel fatto. Solo un anno fa ho scoperto dettagli su di me da una persona che è venuta a trovarmi dopo la morte della mia tutrice. Ha fatto i nomi di Engenstadt o Engenstein e Rosenberg, e quelli di Elisabeth (probabilmente il mio vero nome), Róża (forse era mia madre) e Samuel. Anche se non è certo come si chiamassero i miei genitori, forse qualche altro parente è vivo e ricorda che avevano una figlia, o che c’era una bambina in famiglia da cui i genitori dovettero separarsi per salvarla…”.

Henryk Grynberg (1936), emigrato nel 1968 negli Stati Uniti in seguito alla compagna antisemita del regime comunista, è noto anche in Italia, tra l’altro per I bambini di Sion. Il viaggio più lungo (Felici editore, 2019) dove ricostruisce, attraverso interviste realizzate al loro arrivo in Palestina, la storia di bambini ebrei polacchi che, passati dalle violenze del III Reich alle deportazioni nell’Unione Sovietica, a partire dal 1942 vennero liberati e fatti fuggire in Palestina.

L’appello di Anna Zielonka conteneva anche un riferimento a un libro:

Ho anche scritto a New York, alla casa editrice che ha pubblicato, nel 1945, un libro della signora Mary Berg, Diario del Ghetto di Varsavia. La signora Berg era nel Ghetto di Varsavia durante l'occupazione. Sto cercando un contatto con la signora Berg, perché mentre era nel Ghetto potrebbe aver conosciuto i miei genitori o qualcuno della mia famiglia, o potrebbe aver sentito parlare di un caso come il mio”.

Mary Berg (1924-2013) si chiamava in realtà Miram Watterberg. Tra il 10 ottobre 1939 e il 5 marzo 1944, scrisse un diario della sua vita nel Ghetto di Varsavia (Il ghetto di Varsavia, Einaudi 1991), prima di poter raggiungere gli Stati Uniti: fu salvata dal fatto che sua madre aveva la cittadinanza americana e i tedeschi, per uno scambio di prigionieri, liberarono l'intera famiglia e permisero loro di lasciare la Polonia. Uscito subito, a guerra ancora in corso, negli Stati Uniti (L.B. Fischer, 1945), e anche in Italia (Edizioni De Carlo, Roma 1946), il Diario di Mary Berg è stato in assoluto la prima testimonianza diretta dell’Olocausto a essere pubblicata.

È impossibile sapere quanti bambini ebrei polacchi riuscirono a sopravvivere alla Shoah. Molti di loro persero l’identità. Soprattutto quelli più piccoli di età ebbero cancellate le proprie origini, assieme ai loro genitori e parenti.

Nel 1987, a New York, fu aperta una Fondazione che ha tra i suoi scopi, oltre la costruzione dell’identità ebraica attraverso l’educazione, quello di rintracciare i “bambini della Shoah”. Il suo fondatore è Ronald Steven Lauder (1944), miliardario, proprietario assieme al fratello Leonard della multinazionale di cosmetici Estée Lauder (creata dai suoi genitori nel 1946), politico conservatore, collezionista d’arte (nel 2006 acquistò, per 135 milioni di dollari, da Maria Altmann e la sua famiglia, il conteso dipinto Ritratto di Adele Bloch-Bauer di Gustav Klimt), presidente del World Jewish Congress. L’ufficio di rappresentanza polacco della Fondazione Ronald S. Lauder iniziò la sua attività nel 1991, con il permesso del Ministero della Cultura e dell'Arte, sotto la direzione del rabbino Joseph Kanofsky (Józef Kanowski). In decine di giornali polacchi furono pubblicati annunci che invitavano quelli che erano stati bambini durante la Shoah a presentarsi a incontri che si tennero in varie città. Così, alcuni di loro, potettero ritrovare i propri parenti.

Emblematica è la storia di Maria Kowalska, nata il 26 dicembre del 1939 a Vilnius (Wilna), prima e unica figlia di due avvocati: Jakub Abramowicz Fajnsztejn e Chana Nasielewna Zusmanowicz. Fu chiamata Masza. Nel giugno del 1941 furono rinchiusi nel Ghetto della città (a Wilna abitavano circa centomila ebrei, il 45% della popolazione, c’erano un centinaio di sinagoghe ed era chiamata “la Gerusalemme del Nord”). La mamma, sicura che sarebbe morta, nell’ottobre del 1941, approfittando del fatto che era autorizzata a uscire dal Ghetto per lavorare, la portò con sé (il tedesco che controllava gli ebrei si voltò dall’altra parte) e la consegnò alla sua giovane tata: “La mia tata era una polacca, Stanisława Butkiewicz, che mi registrò col suo cognome, modificando la data di nascita. Divenni Maria Butkiewicz, nata il 12 maggio 1939 a Vilnius. A causa della permanenza nel Ghetto ero in condizioni di salute molto precarie. Iniziò un periodo di nascondigli e fughe. Ricordo i risvegli notturni e le corse nei boschi, attraversati dai tedeschi in motocicletta che ci cercavano. Pur mezza assonata dovevo essere in grado di dire come mi chiamavo e dimostrare che non ero un’ebrea. Anche se era difficile perché avevo i capelli ricci e neri. Tutta la mia famiglia fu sterminata”.

Dopo la fine della guerra, e l’occupazione sovietica della Lituania, la tata e Maria si trasferirono in Polonia, in un carro merci stipato di gente e bestie. Furono sistemate, assieme ad altri profughi, nei territori tolti alla Germania, a Wegorzewo, una cittadina semidistrutta vicino a Olsztyn (la tedesca Allenstein): “Ricordo il primo albero di Natale. La tata portò l’albero e realizzammo gli addobbi con la carta da parati tedesca. Accendemmo due candele in candelieri di metallo, che illuminavano l’intero albero di Natale. Una stella era appesa sulla punta e dai ramoscelli pendevano delle caramelle e tre biscotti sfornati dalla tata. I nostri alberi di Natale divennero ogni anno più ricchi, ma considero il primo il più bello della mia vita. Lo stavo a fissare per ore. Nella stufa di maiolica c’era il fuoco, una lampada a olio sul tavolo e la stanza era così calda e accogliente che non volevo andare a dormire. Non volevo perché di notte sognavo spesso incubi, fughe, freddo; quell’altro mondo in cui non avrei mai più voluto tornare. Sfortunatamente, questi incubi mi perseguitano ancora oggi”.

Maria era spesso malata: una bambina debole e anemica. La tata le insegnò a leggere e scrivere. Si diplomò nel 1957 e subito andò a lavorare come ragioniera: “Con i primi soldi che ho guadagnato (ricordo: 600 złoty) ho comprato un cretonne colorato per un vestito per la mia tata e ho pagato una sarta. La tata ha mostrato il vestito a tutti i vicini. Eravamo entrambe molto felici. Nel 1957, all'età di 19 anni, mi sono sposata e sono partita con la mia tata per Żagań, dove viveva mio marito. Ho tre figli, quattro nipoti. Tutti i miei figli sono stati tirati su dalla mia tata, che è rimasta con noi fino alla fine dei suoi giorni, nel 1990”. Alla tata di Maria è stata conferita postuma, nel 1992, la medaglia "Giusto tra le Nazioni".

“Nel luglio 2003 mio marito è morto. Sono rimasta sola. Dopo la guerra, non ho avuto nessuno della mia famiglia. Non ho mai pronunciato le parole: mamma, papà, zio, zia. Avevo un grande sogno: parlare con qualcuno che avesse conosciuto i miei genitori e potesse dirmi qualcosa su di loro. Quello che è successo nel 2006 può esser definito una coincidenza, la mano della Provvidenza o semplicemente un miracolo. Nel giugno di quell’anno avevo deciso di partecipare a un viaggio organizzato in Israele che sarebbe durato dal 27 ottobre al 7 novembre. La sera, alla vigilia della mia partenza, il telefono squillò. Una voce di una giovane dell’Associazione Bambini della Shoah, ha chiesto:

- Sto parlando con Maria Kowalska?

- Sì.

- È la signora Masza Fajnsztejn?

- Sì.

- Lei ha pubblicato, nel 2003, tramite noi, un appello su Internet che sta cercando la sua famiglia? Le passo una persona.

- Ciao, cara Masha, sono tuo zio: Daniel Fajnsztejn…

Ci siamo messi a piangere. Erano passati 65 anni. Lo zio mi ha visto per l’ultima volta nel Ghetto, quando avevo due anni. Ci siamo poi rincontrati in un hotel sul Mar Morto. Era con sua figlia. Abbiamo parlato fino a sera. Due giorni dopo lo zio ha organizzato una riunione di famiglia in un hotel di Tel Aviv. Sono venuti la zia Lea, sua figlia, lo zio con le sue figlie e il figlio, i suoi generi, il nipote della zia Dina con la moglie e il figlio: circa 30 persone. In un istante mi sono ritrovata una famiglia numerosa”.

I parenti di Masha Fajnsztejn erano sopravvissuti all'Olocausto e, dopo la guerra, si erano trasferiti in Israele. Cercarono a lungo Masha, ma senza successo, perché non avevano modo di sapere che il suo nome era diverso. C’era solo una Maria Kowalska, nata Butkiewicz.

Durante gli incontri organizzati dalla Fondazione S. Lauder, nei saloni degli alberghi polacchi, si presentarono molte persone che non sapevano nemmeno se erano di origine ebraiche: le bambine soprattutto, ma anche i bambini che non avevano fatto in tempo a essere circoncisi (o che, per prudenza, i genitori avevano preferito rimandare la cerimonia). Erano stati adottati quando erano molto piccoli, parecchi di loro erano stati educati al cattolicesimo. Per molti anni, anche se avevano avuto sospetti che i loro genitori ufficiali non fossero i loro genitori naturali, preferirono non fare domande o non ottennero nessuna risposta. I sospetti sorgevano da alcune foto sbirciate di nascosto, da voci di qualche amico di famiglia, dal confronto impietoso tra i propri tratti somatici e quelli delle persone che chiamavano padre e madre. Ma era impossibile, in mancanza di documenti, risalire alle proprie vere origini.

Durante uno di quegli incontri, nei quali nessuno dei presenti era in grado di dire con un minimo di certezza di avere origini ebraiche, e se ne stavano tutti in silenzio in attesa che qualcosa accadesse, il rabbino iniziò a intonare una dolce e popolare ninnananna yiddish: Rozhinkes mit mandlen (Uvetta e mandorle). Qualcuno ricordò e pianse.

Testo pubblicato, in una versione leggermente diversa, sul mensile REVIEW, n. 2, novembre 2021.

In calce un racconto, "I leoni di pietra", di Roberto Salerno, ricordo scaturito dalla lettura di questa storia. 

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

1 dicembre 2021

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