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La responsabilità dei giovani nel mondo così com’é

di Giovanni Cominelli

E’ da quando avevo i calzoni corti che sento parlare di “disagio giovanile”. Ogni epoca ha il proprio. Il disagio è la condizione esistenziale di ogni adolescente che si stacchi dalla placenta familiare e che cerchi la propria strada. Questo processo accade sempre dentro un contesto storico-sociale, che sovradetermina largamente i contenuti specifici e le modalità espressive del disagio e, ancora più radicalmente, gli esiti. 

All’immaginario dei Boomer appartiene “Gioventù bruciata”, un film americano del 1955 – ma il titolo originale è “Rebel without a Cause” - interprete principale James Dean, destinato nella realtà a tragica morte prematura. L’inquietudine dell’adolescente si staglia sullo sfondo delle prime ribellioni alla società opulenta e consumista americana del secondo dopoguerra, dominata da quello che lo stesso Eisenhower definì il “complesso militare-industriale”. Il rock di Elvis Presley rappresentò di quella incipiente ribellione un’altra modalità espressiva, con esiti assai meno drammatici di quelli toccati a Jim Stark, il protagonista del film. La curva del disagio di quella generazione americana precipitò nelle risaie del Vietnam. Si trattò di tutt’altro “disagio”, che film famosi hanno documentato. E’, invece, del 1962 il film inglese “Gioventù, amore e rabbia”, nel quale si rispecchia il disagio di una generazione, che non riesce a salire lungo i gradini sociali della società inglese, povera e ferocemente classista del dopoguerra. Gli anni ’60 in Europa e in Italia non sono gli anni del disagio. Le giovani generazioni sono protese in avanti, verso le promesse dello sviluppo e dello Stato sociale. Le tensioni intrafamiliari si possono sciogliere agevolmente verso l’esterno: la società è accogliente, in via di apertura. Si può conflittualmente abbandonare il tetto paterno per trovarne un altro. 

Gli anni del disagio, in Italia, cominciano dopo. Il Movimento del’68 finisce con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Da quel trauma nascono la sinistra extraparlamentare, il partito armato di sinistra e di destra. Quello che viene agli inizi chiamato “riflusso”, nelle giovani generazioni diventa ripiegamento, fino agli estremi dell’eroina. Si tratta della generazione X (1965-1980). Nonostante ricorrenti fiammate di movimento nelle scuole e nelle Università, le generazioni successive – la generazione Y o "Millennials", la generazione Z o "Centennials" , la generazione Alpha o "Screenagers" – si inabissano nella società civile, nella quale trovano poche ragioni di impegno civile e molte di frustrazione e di disagio. Il fatto è che la società italiana ha incominciato dagli anni ’70 ad abbassare il ritmo dello sviluppo, mentre si alzava il livello delle pretese, dei diritti acquisiti e del debito pubblico. Dagli anni ’90, salvo una breve impennata del primo governo Prodi, lo sviluppo si blocca al di sotto delle necessità del Paese, il debito pubblico aumenta esponenzialmente, il calo demografico sta diventando inarrestabile.

Nel quadro del declino del Paese e della contrazione di potenza economica, scientifica e demografica dell’Occidente storico, si apre uno scarto tra le aspettative indefinitamente crescenti e il reale declino, che obbliga ad aspettative decrescenti. Così accade che la “Generazione X” (1965-1980), grosso modo i genitori degli adolescenti attuali, cresciuta negli anni del Welfare e dei diritti in perpetua espansione, stia facendo intravedere ai propri sempre meno numerosi figli un futuro, che pare essere solo il prolungamento dei loro anni migliori: un futuro che non ci sarà, “un’isola che non c’è”, quella dei soli diritti, niente doveri, niente fatica, niente sacrifici. L’isola facile. L’effetto più evidente di quello scarto è la fragilizzazione degli adolescenti, allorché si imbattono in una realtà, cui non sono stati né accompagnati né preparati. Una terra che non è quella promessa.

Il loro disagio è la risultante delle dinamiche “naturali” figli-genitori, intrecciate con quelle della storia umana, della storia dell’occidente, della storia d’Italia che oggi si trova a questo tornante. La fenomenologia del disagio giovanile è variegatissima: depressione e aggressività sono le punte più visibili. In mezzo stanno l’indifferenza, la passivizzazione, il lasciarsi andare alla corrente dei giorni. Di qui alcol, droghe, piccole gang, NEET - in Italia sono circa tre milioni, il 25% dei ragazzi/giovani tra i 15 e i 34 anni - l’eremitaggio sociale, che i Giapponesi chiamano Hikikomori: lo “stare in disparte”.

Per riprendere il titolo di un libro di Andrea Graziosi, il tempo storico che stiamo vivendo in questa parte del mondo ha “Il futuro contro”. Non si tratta di proiezioni ideologiche, ma di fatti, che la vicenda ucraina ha scoperchiato e che erano in gestazione da qualche decennio. Il tempo degli “Anni gloriosi” dello sviluppo è finito, la demografia è in perdita secca, la geopolitica si è complicata e incattivita, la guerra è tornata in Europa, a Taiwan sono già accese le micce di un potenziale conflitto nell’Indo-Pacifico. Si deve certo fare ricorso agli psicologi, agli assistenti sociali, alle comunità di recupero contro le dipendenze, ai moralisti e ai teologi, ma occorre che da subito qualcuno si assuma il compito di raccontare ai ragazzi la verità del mondo così com’é. Nec ridére, nec lugére, sed intellìgere: così Spinoza. Questo continua ad essere il metodo, attraverso il quale ogni individuo e ogni ragazzo costruisce faticosamente il senso della sua vita e le sue speranze, nelle circostanze date. Date, trovate, capitate, non create. Possiamo inventare o manipolare simboli, ma se non rispecchiano la realtà, sono destinati ad infrangersi. “Intellìgere” significa che non siamo padroni della realtà, che viviamo dentro un limite ontologico essenziale, che dobbiamo fare i conti con il mondo e con gli altri.

Gariwo è impegnata in questa direzione. Si possono suscitare energie umane di assunzione individuale di responsabilità nel mondo se riusciamo a dirlo, in verità, così com’é. Solo di fronte alla verità del mondo, può scattare la libertà di ciascuno. Perché e in che modo si può parlare di generazioni? Secondo il sociologo Karl Mannheim, tra i 16 e i 25 anni di età, quando gli individui si affacciano alla “vita pubblica” e iniziano a fare esperienza di ciò che sta fuori dalla famiglia, entrano in contatto con eventi storici e politici che formano una sorta di “memoria collettiva generazionale”, fatta appunto di credenze, convinzioni, simboli, miti, attribuzioni di senso, che è destinata a durare relativamente a lungo.

Giovanni Cominelli

Analisi di Giovanni Cominelli, giornalista

15 maggio 2023

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