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​La strana speranza di Mohamed Diab

La democrazia dopo l’abisso. Una lezione per la società

Il mondo esterno visto dal blindato di Clash

Il mondo esterno visto dal blindato di Clash

Qualche volta un’opera d’arte può lanciare un messaggio che la politica non è in grado di dare. Guardando il mondo con l’occhio realista di un osservatore, tutto può sembrare perduto; guardandolo invece con quello di un regista di talento, improvvisamente si può scoprire che anche nelle situazioni peggiori può nascere una speranza.

Mohamed Diab vive in un Paese dove tutto è andato storto. Prima le grandi speranze di Piazza Tahrir, quando i giovani sognavano la nascita di un regime democratico con la fine del regime di Mubarak, poi la grande delusione, alle prime elezioni libere, per la vittoria Morsi, che invece di garantire la democrazia, cercò di imporre sulla politica il monopolio ideologico dei Fratelli Musulmani; infine il colpo di stato del generale Al Sisi, che in nome della difesa da una deriva islamista impose la nascita di un regime più oppressivo di quello di Mubarak, colpendo la libertà di espressione e la possibilità di una vita democratica e plurale.
Mohamed ha visto così nel suo Paese, l’Egitto, il dramma per certi versi simile di tutte le primavere arabe.
Abbattuti i dittatori come Gheddafi in Libia, Mubarak in Egitto, Ben Ali in Tunisia, oppure iniziato un grande movimento di protesta in Siria contro Assad, invece dello sviluppo di un rinascimento politico, i fondamentalisti di tutti i tipi hanno cercato di imporre la loro dittatura e questi Stati non sono state capaci di darsi delle strutture democratiche. A tutto questo si sono aggiunti l’espansione dell’Isis e il politicidio di Assad, che pur di non abbandonare il potere ha bombardato le città con armi chimiche e, aiutato militarmente dalla Russia e dall’Iran, ha creato la più grande ondata di profughi in Medio Oriente.

Colpa delle élite politiche, dei generali, degli imam, dei Paesi terzi che hanno cercato di condizionare ai loro fini gli eventi in corso? Certamente. Ma Mohamed Diab in Clash, un film geniale presentato all’ultimo Festival di Cannes, legge la realtà da un diverso punto di vista.
Non bisogna soltanto indagare sui meccanismi del potere, ma sui comportamenti delle persone che agiscono sulla base di culture e pregiudizi che le portano a contrapporsi, ognuno rivendicando una verità assoluta che non tollera dissensi.
La democrazia fallisce sul nascere perché se tutti sono d’accordo nell’abbattere i tiranni, quando arriva il momento della costruzione di una nuova società nessuno accetta l’idea che si possa vivere in un mondo plurale con delle opinioni differenti, riconoscendo che il dialogo e il confronto è alla base delle istituzioni democratiche.

Il regista ce lo spiega mostrando cosa può succedere in un blindato della polizia, quando dopo l’arresto si trovano insieme in uno spazio ristretto membri delle fazioni contrapposte: fondamentalisti islamici, partigiani dell’esercito egiziano, militanti pro Isis, liberali, golpisti, donne con il velo, donne emancipate, giovani rockettari, coopti. Ci mancano solo gli ebrei.
Tutta la scena si svolge nel giugno 2013, quando l’esercito di Al Sisi depone il primo ministro Morsi, colpevole di imporre un potere islamico, mentre nella capitale sfilano cortei delle fazioni contrapposte che inneggiano ai due poteri autoritari. Non ci sono vie di mezzo. 
La polizia per rispondere al caos arresta tutti, senza distinzioni politiche. Così in quel blindato che gira per la città per una giornata intera, nella vana attesa di trovare una prigione vuota, si ritrovano insieme i membri contrapposti delle fazioni in lotta, mentre fuori i cortei dei manifestanti di volta in volta solidarizzano con i prigionieri o li tempestano di sassi, pensando che in quel camion si trovino esponenti di una sola parte politica. 
Il clima all’interno del camion non differisce da quello delle piazze, come da quello dei palazzi politici del Paese: ogni prigioniero vede nell’altro il suo nemico, in attesa della vittoria della sua fazione. Il gruppo dei Fratelli Musulmani non vuole farsi “contaminare” dai laici e viceversa. Tutti si beccano, in attesa che l’altro soccomba. Non esiste dialogo, perché ognuno ha già la verità.

È la classica concorrenza tra le vittime di cui parla Primo Levi. Ognuno vuole sopravvivere a spese del prossimo, sperando di venire liberato dai manifestanti della propria parte.

Quando però i prigionieri si accorgono che in quel camion prima o poi sono tutti destinati a morire (come è accaduto in realtà in un blindato durante il golpe di Al Sisi), improvvisamente i nemici mortali scoprono la loro comune umanità.
La donna laica aiuta la giovane musulmana; il giovane rockettaro parla con il fondamentalista; insieme trovano il modo di urinare; si dividono a turno lo spazio di aria sulla finestra; persino cantano insieme. 
Capiscono che nessuno dei cortei li salverà perché nel caos più totale i manifestanti di una parte li uccideranno tutti perché non saranno in grado di distinguere da che parte sono schierati.
Così prima della fine accade il miracolo: scoprono che non si può vivere senza dialogo, perché per vivere questo mondo bisogna condividerlo e accettare la ricchezza della pluralità. Se la si soffoca - non importa se si è laici o religiosi, per i Fratelli Mussulmani o per l’esercito di Al Sisi - tutti si è destinati a morire.

Ecco la strana speranza di cui parla Mohamed Diab.
Avendo toccato l’abisso con l’esito nefasto delle primavere, alla fine i Paesi arabi dovranno ragionare sul valore della democrazia, l’unico sistema inventato dall’uomo, dove non ci saranno mai vincitori e vinti, perché tutti hanno sempre un ruolo da svolgere in una dialettica infinita.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

12 ottobre 2016

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