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​La trappola del mondo a parte

di Francesco Matteo Cataluccio

Proponiamo di seguito alcuni brani dell’introduzione di Francesco M. Cataluccio all’appena pubblicata nuova edizione italiana (Oscar Mondadori) di Un mondo a parte di Gustaw Herling, che contiene anche una ricca appendice di documenti sulle vicende politiche ed editoriali legate al libro sin dalla sua prima edizione in inglese (1951).

“I libri di polemica politica hanno vita effimera; essi durano quanto le circo­stanze della polemica; ma se un libro tocca il fondo della sofferenza umana, se esso la vede con occhi di pietà e la ritrae con i mezzi dell’arte, anche se la sua origine fu occasionale, essa certamente sopravvive ed entra a far parte del patrimonio spirituale che l'umanità si tramanda di generazione in genera­zione”,[1] scrisse di Un mondo a parte lo scrittore Ignazio Silone - uno dei migliori amici italiani di Gustaw Herling – che fu tra i primi a comprendere la natura di “classico” di questo troppo a lungo ignorato e osteggiato libro. Mantenere infatti la distanza dai fatti narrati aiuta a comunicarli nella loro profonda e semplice drammaticità dando alla testimonianza una grande efficacia politica e civile.

(…)

Gustaw Herling-Grudziński (da quando si trasferì in Italia, a Napoli, nel 1955, decise, per semplicità, di farsi chiamare soltanto Herling) nacque il 20 maggio 1919 a Kielce, nel sud della Polonia[2], dove studiò fino alla Maturità (1937). Qui intraprese i primi tentativi letterari (pubblicando dal 1935 sulla rivista Kuźnia Młodych, La fucina dei giovani) e conobbe una breve fascinazione per il comunismo. Si trasferì poi a Varsavia dove studiò Lettere e scrisse regolar­mente di letteratura sul bisettimanale dell'Unione della gioventù democra­tica polacca (ZPMD). Le sue idee politiche oscillavano tra la giovane intelli­gencija di sinistra, che simpatizzava per il defunto maresciallo Piłsudski, e il Partito socialista polacco (PPS). Lo scrittore co­minciò ad avventurarsi nel campo della critica letteraria rivelando subito una notevole acutezza e molti interessi culturali. Divenne redattore della parte letteraria del battagliero mensile socio-letterario Orka, fu tra gli animatori del club letterario Parabumba (che si riuniva nella pasticceria Francuska, sulla via Miodowa), e frequentò il Circolo dei polonisti animato dal critico neotomista Ludwik Fryde (1912-1942) – il quale gli fece apprezzare Arte e scolastica (1920)[3] di Jacques Maritain, e lo avvicinò al pensiero di Benedetto Croce.

Il filo­sofo italiano giocherà un grande ruolo nel pensiero e nella vita di Herling: in primo luogo con la sua “filosofia della libertà” e le sue concezioni estetiche, in seguito con gli incontri a Villa Tritone[4], nel marzo del 1944, dove l'anziano filosofo discu­teva di politica e cultura con ufficiali polacchi e alleati, e in ultimo per ragioni familiari (Herling sposò, in secondo nozze, la terza figlia del filosofo: Lidia). Nella prolu­sione per la laurea honoris causa all'Università di Poznań (20 maggio 1991)[5], Herling ricordò una riunione, svoltasi nella tarda primavera del 1939, nella casa di campagna del socio­logo Aleksander Hertz, dove un gruppo di una quindicina di persone (tra le quali Fryde) discussero della Storia d'Eu­ropa nel secolo decimonono (1931) di Croce: “Sedevo intimorito in un angolo, cercando di non perdere una sola parola di ciò che dicevano gli illustri ospiti. (...) Di quella discussione posso ricordare esili brandelli. Due in particolare. Innanzitutto l’affermazione di Croce secondo cui nel XIX secolo fiorì, ma­turò e mise le sue radici in Europa, la religione della libertà. Poi, la sua profonda convinzione che i tentativi di estirparla non sarebbero riusciti, an­che se sarebbero stati continuamente intrapresi, arrecando catastrofi e sciagure”.

Allo scoppio della guerra, Herling non fu richiamato ma fu tra gli organizzatori, a Varsavia, di uno dei primi gruppi di resistenza ai tedeschi: il PLAN (Azione Popolare Polacca per l'Indipendenza) che pub­blicò, alla fine di ottobre, anche due numeri del bollettino clandestino Biuletyn Polski. Passato nella parte della Polonia occupata dai sovietici il 17 settembre (in base al Patto Ribbentrop-Molotov), lo scrittore si stabilì prima a Leopoli e poi a Grodno, dove, ad opera dell'Armata Rossa e dell'NKVD, era iniziata la “sovietizzazione, e di­versi intellettuali polacchi si mettevano con entusiasmo al servizio della “pa­tria del proletariato”.

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Nel marzo 1940, ricercato dalla polizia segreta sovietica, tentò di passare in Lituania per andare in Francia o in Inghilterra a combattere con l’esercito polacco ricostituito in esilio. A causa di una soffiata, fu arrestato e rinchiuso nella prigione di Vitebsk, in Bielorussia. Durante l’interrogatorio disse che, come molti suoi coetanei, voleva andare a combattere contro i tedeschi. “Non sapete,” gli fu chiesto, “che l’Unione Sovietica ha firmato un trattato di amicizia con la Germania?”.[6]

Herling fu condannato a cinque anni e inviato, via Leningrado, al campo di lavoro di Ercevo, che faceva parte del comprensorio concentrazionario di Kargopol’, vicino ad Arcangelo (sul Mar Bianco). Vi rimase fino al 20 gennaio del 1942, quando tornò libero grazie al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra l'Urss e la Polonia, dopo l'invasione tedesca della Russia. Assieme a molti altri polacchi scampati al Gulag si arruolò, in Kasachistan, nelle truppe del generale Władysław Anders (1892-1970) che combattè - sotto ban­diera polacca - nell'esercito inglese in Egitto e poi in Italia, a Monte Cassino e lungo tutto il versante adriatico fino ad arrivare a liberare Bologna.

Dall’esperienza nel lager sovietico nacque Inny Świat (Un mondo a parte).

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A World Apart[7] fu pubblicato nel 1951 in Gran Bretagna ed ebbe un grande successo. Nella sua introduzione, il filosofo Bertrand Russell scrisse: “Dei molti libri che ho letto sulle esperienze delle vittime delle prigioni e dei campi di lavoro sovietici, Un mondo a parte di Gustaw Herling è il più impressionante e quello scritto meglio. Egli pos­siede a un grado assai raro il potere della descrizione semplice e vivida, ed è del tutto impossibile mettere in dubbio la sua sincerità in ogni punto. I compagni di strada che rifiutano di credere all'evidenza di libri come quelli di Herling, sono necessariamente gente destituita di umanità, perché se così non fosse essi non respingerebbero l'evidenza, ma al contrario ne sarebbero turbati...”.[8]

Il libro - che si ispirava anche nel titolo alle Memorie da una casa di morti (1861-'62) di Fëdor Dostoevskij - non è un romanzo, né un pamphlet. Il critico Paolo Milano lo definì giustamente un Bildungsroman (romanzo di formazione). Il lavoro è basato su una forma narrativa particolare che unisce un mosaico di storie e racconti, con osservazioni filosofiche e sociologiche, informazioni storiche, denuncia poli­tica e morale. La scrittura colpisce soprattutto per il sorprendente distacco, quasi freddezza, con cui Herling racconta l’orrore del lager dove trascorse due anni. Questa scelta è il frutto di una lunga riflessione: “Subito dopo la fine della guerra mi interrogavo su quale forma potesse restituire gli anni dell’occupazione. Mi resi conto che l'unica soluzione era la cronaca, pura o legata al diario. (...) La lezione di A Journal of the Plague Year di Daniel Defoe consiste nel fatto che certi capitoli della nera storia dell'umanità (cataclismi, peste, stermini, invasioni barbariche, olocausti) possono essere aperti soltanto con la penna il più possibile impersonale del cronachista”.[9]

Herling mette in luce come, per un crudele paradosso del comunismo realizzato nei campi di prigionia sovietici, il mezzo di oppressione e tortura era il lavoro, usato come forma di distruzione: la fatica schiantava i corpi, riduceva i prigionieri alla febbre, alla cecità per avitaminosi. L’unico modo per cercare di sopravvivere era riuscire a farsi ricoverare. L’automutilazione divenne così una prassi comune per poter trovare una pausa dal lavoro.

La descrizione dell'abisso dei lager sovietici si trasforma, nelle pagine dell’autore, in un deciso e ostinato rifiuto del nichilismo. A differenza del suo compatriota Tadeusz Borowski (1922-1951) - il tragico personaggio, nascosto sotto la sigla di “Beta” ne La mente prigioniera (1953) di Czesław Miłosz[10], che dall'espe­rienza della reclusione ad Auschwitz trasse la convinzione che non esistono i valori e che i la­ger altro non sono che l’esasperazione della spietata lotta per la sopravvivenza e la sopraffazione che caratterizzano la storia umana[11]- Herling racconta a quali bassezze veniva costretta la gente nei Gulag, sottolineando però sempre che la “civilizzazione concentrazionaria” è una condizione temporanea con­tro la quale chi si vuol salvare deve cercare di ribellarsi, in nome dei valori umani che gli aguzzini fanno di tutto per annichilire. “L'uomo è umano qu­ando si trova in condizioni umane, trovo che sia uno spettrale nonsens della nostra epoca il tentativo di giudicarlo per le azioni che si è permesso in con­dizioni inumane”.

Lo scrittore polacco sintetizza inoltre la filosofia che ha tratto dalla sua esperienza e il principio al quale si è attenuto con la sua testimonianza, con una frase di Albert Camus sulla peste: “Bisogna dire semplicemente quello che si impara in mezzo ai flagelli: che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”.[12]

La conclusione politica invece, che formulerà in seguito, è che i Gulag so­vietici furono una “macchina di annientamento” pari ai lager nazisti: "Ora che ho letto qualche testimonianza sui campi di concentramento tedeschi mi rendo conto che un trasferimento a Kolyma, nei campi di lavoro sovietici, era l'equivalente della scelta delle camere a gas dei tedeschi. L'analogia di­viene ancora più precisa quando si considera che, come per le camere a gas, i prigionieri per Kolyma erano presi tra quelli in peggior stato di salute; in Russia tuttavia non venivano inviati ad una morte immediata, ma a un la­voro durissimo che richiedeva una forza e una resistenza fisica eccezio­nali"[13].

In proposito, Herling ricordava spesso, nelle conversazioni private, il finale del bellissimo saggio autobiografico del poeta russo Iosif Brodskij, intitolato In una stanza e mezzo (1985)[14], dove il figlio parla con il padre del passato: “Mi sorpresi a domandargli quali campi di concentramento, secondo lui, fossero peggiori: quelli dei nazisti o i nostri. ‘Per conto mio,’ fu la risposta ‘mi farei bruciare sul rogo, subito, piuttosto che morire di morte lenta e scoprire che senso ha’.”

(…)

Tra gli scrittori russi, Herling rivolse in particolare la sua attenzione a Varlam Šalamov (1907-1982), autore de I racconti di Kolyma,[15] il testimone più profondo della realtà del Gulag, dedicandogli, nel Diario scritto di notte[16], un bellissimo racconto che descriveva la sua terribile fine nel mani­comio dove il KGB lo aveva fatto rinchiudere. Herling trovò in Šalamov delle affinità anche stilistiche così descritte: “Nel suo quadro dell'inferno di Kolyma, egli non va mai al di là di una relazione breve, secca, quasi incolore, sulle mo­struosità di quel fondo dell'esistenza umana, resistendo alla tentazione di adattare lo stile e la lingua alla crudeltà dei fatti descritti. (...) Avverto in lui una paura istintiva, o consapevole, di fronte alle insidie della letteratura 'brutale', impressionante, e una volontà di restare fedele alla sua memoria. Questa fedeltà è così pura e assoluta e, allo stesso tempo, così profondamente radicata nella realtà del mondo della Kolyma, che trasmette ai racconti di Šalamov lo splendore dell'arte".[17]

L’opera di Šalamov risulta quasi come un completamento ideale di Un mondo a parte. In un’intervista,[18] Herling raccontò: “Šalamov ha scritto oltre cento racconti sull'esperienza del Gulag, a mio avviso ancora più importanti dell'opera di Solženicyn. Tant'è vero che lo stesso Solženicyn gli chiese di fare da coautore ad Arcipelago Gulag, ma Šalamov, già molto malato e preoccupato forse di perdere il suo posto nell'o­spizio dei poveri, rifiutò. (...) In Di fronte all'estremo[19], il filosofo e saggista bulgaro-francese Tzvetan Todorov cita un concetto di Šalamov che mi sembra centrale: ‘Il gulag fu un grande esame morale per gli uomini, ma è assurdo giudicare un uomo costretto ad agire in condizioni disumane’. E Šalamov aggiunge che, comunque, il novanta per cento non ha superato l'esame”.

A Herling interessava anche un altro aspetto che Šalamov, seppur ateo, e in conflitto il padre pope, ha messo in luce: quello della fede religiosa come risorsa per sopravvivere e non trasformarsi in bestie che schiacciano gli altri. Proprio riprendendo una sua idea esposta in Un mondo a parte, confermata da Todorov (“dove non c’è scelta non c’è nemmeno spazio per qualunque vita morale”), Herling dice: “Il lato atroce dell’esperienza concentrazionaria è la mancanza di scelta, una cosa davvero orrenda, che pregiudica qualsiasi possibilità di vita morale. Perciò è giusto quanto dice Šalamov a proposito dei credenti che più spesso sono sopravvissuti: credere significa avere una chance, e anche la speranza in un’altra vita”.[20] Ma non bisogna dimenticare che si tratta di eccezioni: “Non si può chiedere troppo ai prigionieri del lager. Šalamov suscita grande ammirazione perché cerca, in condizioni disperate, di mantenere la sua umanità e moralità, ma in generale penso che sia ingiusto chiedere a persone che vivono in situazioni disumane di restare umane. E’ il campo che costringe i prigionieri a degradarsi completamente”.[21]

Su questo piano, Herling sembra toccare la questione dei Giusti nel Gulag con molto scetticismo verso la possibilità di esserlo (salvo rare eccezioni) ma anche comprensione verso chi, trovandosi chiuso in una gabbia, sbrana, per sopravvivere, il vicino. Ma non è così: Herling è stato un uomo che, allora come successivamente, chiedeva molto a se stesso e pretendeva dagli altri un comportamento altrettanto morale (a costo di apparire troppo rigido e non sfiorato dall’idea di perdono cristiano). Nell’Epilogo di Un mondo a parte si parla di un architetto polacco, comunista, che era stato arrestato, nel 1940, per aver rifiutato l’esilio volontario nelle zone remote della Russia. Quando ritrovò Herling nel giugno del 1945 a Roma, aveva bisogno che lo aiutasse a togliersi un peso. Aveva “dovuto” denunciare quattro tedeschi innocenti della sua brigata per non esser rimandato a lavorare nella foresta. I quatto erano stati fucilati la mattina dopo. L’uomo, dopo aver raccontato questa terribile storia, implorò Herling: “Tu sai a che punto ci hanno trascinati, quanto ci hanno avvilito. Di’ solo che capisci…”. Herling tuttavia si rifiutò: “Avrei potuto pronunziare la parola che egli mi chiedeva, il giorno dopo la mia liberazione dal campo. Forse avrei potuto. (…) Ma ero tornato da tre anni in mezzo alla gente, con criteri e concetti umani, e dovevo adesso fuggirne via, abbandonarli, tradirli volontariamente?”.[22]

In fondo, in questa impossibilità, o grandissima difficoltà, ad agire bene sta l’essenza del Male. Nel suo "testamento spirituale", Variazioni sulle tenebre. Conversazione sul male[23], dopo aver definitoil Novecento “un secolo del Male”, Herling si dichiarò "manicheo": convinto cioè che il Male esista davvero come entità autonoma, e non, come ritengono i cristiani, come assenza del Bene. Il Male Herling lo vedeva tangibile e si lamentava che la gente fosse diventata insensibile ad esso, quasi assuefatta. Lo preoccupava (come preoccupava Primo Levi nel finale de I sommersi e i salvati) che non si riuscisse più a percepirlo nel suo sorgere. “Bisogna abituarsi a guardare l'uovo di serpente che lascia trasparire dal suo guscio opaco la bestia terribile che nascerà” (metafora questa usata dal regista Igmar Bergman per intitolare il suo film sul nazismo). Del resto, Herling era disposto ad ammettere che oggi il Bene e il Male non sono più riconoscibili in modo preciso. Il male “E' come il cancro, una modificazione interna non immediatamente percepibile. E' una devastante malattia spirituale; è necessario del tempo per rinvenire la malvagità dell'uomo (...) Quando leggo i giornali o vedo la televisione mi rendo conto che la gente non ha più il senso del Bene e del Male, non percepisce nemmeno la propria colpevolezza. C’è un'atrofia della sensibilità. Il Male si espande a tal punto che investe anche le persone che sembravano buone”.

Rifacendosi alla propria esperienza nel Gulag, e alle considerazioni di Šalamov, l’autore concluse la sua conversazione sostenendo che l’unico rimedio contro il Male era la solitudine: “Secondo Šalamov, l’unica cosa che difende dal Male, nella cui esistenza crede fermamente dopo l’esperienza della Kolyma, è la solitudine. (…) Pure io, sebbene fossi molto giovane allora, ventuno, ventidue anni, mi resi conto istintivamente che solo così potevo salvarmi dal terribile male dei campi di concentramento.(…) Avevo amici, ma mi sentivo più forte quando ero solo. Quando tutti si addormentavano, io restavo sveglio, e solo, e quelli erano per me i momenti più belli. (…) Ritrovavo la mia identità originaria rimanendo sveglio. La solitudine era allora una vera difesa contro il Male”.[24]

(…)

Con gli anni Novanta, potendo Herling tornare liberamente in Polonia (dove era diventato molto popolare), la fama di Un mondo a parte si diffuse di riflesso anche in Italia e in Europa. La nuova edizione del 1994, presso Feltrinelli, riscosse numerosi e duraturi consensi e produsse, nel 2004, un’edizione tascabile, uscita dopo la sua morte (2000). Proprio in quella occasione, Roberto Saviano scrisse: “In un unico amarissimo sorso, dovrebbe essere bevuto Un mondo a parte di Gustaw Herling, che riappare presso Feltrinelli in edizione economica. Da leggere tutto in una volta, subendo un pugno nelle viscere, uno schiaffo in pieno volto, sentendo la dignità squarciata, la paura di poter crollare prima o poi nello stesso girone infernale descritto nelle pagine. Un testo prezioso e tremendo, una testimonianza sui campi di concentramento sovietici, sulle barbarie compiute dal regime stalinista dell’URSS contro milioni di persone”.[25]

[1] I. Silone, Presentazione di Un mondo a parte per il "Bollettino del Circolo Italiano del libro" (1958).

[2] Per gli aspetti biografici di Herling, cfr. Gustaw Herling, Breve racconto di me stesso (2000), l’ancora del mediterraneo, Napoli 2001.

[3] Nell'introduzione a Wyścia z milczenia (Uscita dal silenzio), scritta a Napoli nel novembre 1992, Herling, ricordando il suo debito umano e intellettuale con Fryde e con la sua “scuola”, disse: “La Bibbia della nostra scuola era Arte e scolastica (in polacco: Sztuka i mądrość) di Maritain" (p. 6).

[4] G. Herling, Villa Tritone, in: G. Herling, Gli spettri della rivoluzione e altri saggi, a c. di F. M. Cataluccio, Ponte alle Grazie, Firenze 1994, pp. 263-276.

[5] G. Herling, Ho cessato di essere uno scrittore in esilio, ibid, pp. 284-294.

[6] G. Herling, Inny świat (1951), Czytelnyk, Warszawa 1994, p.14 (trad.it. Un mondo a parte, Feltrinelli, Milano 1994, p.19). Un’edizione del libro ricca di note, documenti e testi: G. Herling, Inny świat, a cura di W. Bolecki, Wyd. Universitas, Kraków 2007.

[7] G. Herling, A World Apart, trad. di Joseph Marek, Heinemann, London 1951.

[8] B. Russell, Introduzione all'edizione inglese, in: G. Herling, Un mondo a parte, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 277-278.

[9] G. Herling, Dichiarazione fatta nel 1975, riportata in: W. Bolecki, Ciemny staw. Trzy szkice do portretu Gustawa Herlinga-Grudzińskiego (Il nero stagno. Tre schizzi per un ritratto di Gustaw Herling-Grudziński), Plejada, Warszawa 1991, p. 21.

[10] Cz. Miłosz, La mente prigioniera, Adelphi, Milano 1981, pp.141-166.

[11] Cfr. T. Borowski, Paesaggio dopo la battaglia, Il Quadrante, Torino 1988.

[12] G. Herling, Diario scritto di notte, Feltrinelli, Milano 1992, p.180.

[13] G. Herling, ibid., p.123.

[14] J. Brodskij, Less Than One (1986), trad, it. Fuga da Bisanzio, Adelphi, Milano 1987, p.243.

[15] V. Šalamov, Kolymskie rasskazy (1989-1990); trad.it. I racconti di Kolyma , Einaudi, Torino 1999.

[16] G. Herling, Il marchio. L'ultimo racconto della Kolyma (1982), in Diario scritto di notte, op.cit., pp.165-170.

[17] G. Herling, Dziennik pisany noca (1973-1978), op.cit., p. 288 (trad. it. ibid., p.115).

[18] G. Herling, Šalamov e i racconti di Kolyma, "il mattino", 11/II/1993.

[19] Tz. Todorov, Di fronte all'estremo, Garzanti, Milano 1992.

[20] G. Herling, T. Marrone, Controluce, op.cit, p. 48.

[21] G. Herling, P. Sinatti, Ricordare, raccontare, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 1999, p. 38. Questo testo doveva essere l’introduzione all’edizione einaudiana de I racconti di Kolyma (1999), ma fu censurato dall’editore che forse non apprezzò alcune giuste critiche che Herling faceva a Primo Levi, storico autore Einaudi, per la sua sottovaluzione della realtà dei Gulag.

[22] G. Herling, Un mondo a parte, op.cit., p. 273.

[23] G. Herling, Entretien sur le mal (1999), a cura di E. de la Héronnière; trad. it. Variazioni sulle tenebre. Conversazione sul male, l'ancora del mediterraneo, Napoli 2000.

[24] Ivi, pp.49-50.

[25] R. Saviano, Su Gustaw Herling, “Pulp”, n. 48, 2004 (ripubblicato in “nazione indiana, 3/III/2008).

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

15 dicembre 2017

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