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Le tre ideologie che impediscono agli arabi di fare la pace (con Israele)

editoriale di Gabriele Nissim

Il 21 settembre nell’Università di Al Akhawayn di Ifrane, una città sui monti Atlas in Marocco a due ore dalla capitale Rabat, si è accesa una piccola luce di speranza. Un gruppo di studenti arabi ed ebrei ha organizzato una conferenza per ricordare la Shoah e rendere omaggio al coraggio del re del Marocco Mohammed V, che resistendo agli ordini del governo francese di Vichy, si rifiutò di imprigionare gli ebrei.
È un episodio in controtendenza, assieme alla vicenda di Khaled Kasab Mahameed, l’avvocato arabo di Nazareth. Il legale - sfidando i malumori della piazza - ha organizzato nel suo studio un piccolo museo sull’Olocausto per insegnare ai palestinesi che senza la conoscenza del dramma ebraico difficilmente potranno fare la pace con i loro nemici. “È un dovere di tutti gli arabi e di tutti i musulmani” - scrive polemicamente ad Ahmadinejad - “comprendere il significato dell’Olocausto. Non possiamo capire i nostri avversari se non conosciamo le loro storie. La Nakba (il disastro) che i palestinesi sperimentarono nel 1948 è poca cosa a paragone dell’Olocausto, ma le implicazioni sono diventate un peso per noi. Ne paghiamo le conseguenze nel conflitto con gli israeliani, ma la memoria della Shoah potrebbe invece diventare un ponte per la costruzione della pace”.

Nei paesi arabi, invece, la memoria della Shoah è un argomento tabù. Non esistono programmi educativi nelle scuole, non sono pubblicati libri sulla deportazione degli ebrei, non è mai capitato che un rappresentante di alto livello di un governo arabo visitasse il Museo dell’Olocausto di Washington. Immaginare che delegazioni di studenti arabi possano rendere omaggio alle vittime di Auschwitz è per ora soltanto un sogno. La cultura negazionista domina la scena e la maggior parte dei politici e degli intellettuali accusano il mondo ebraico di avere costruito un mito avulso dalla realtà.

Come osserva il saggista americano Robert Satloff, ci sono tre scuole di pensiero. C’è quella negazionista, tout court, che ritroviamo tra i fondamentalisti islamici e della quale il leader iraniano è il capofila. Amhadinejad, con la conferenza a Teheran dell’11 dicembre 2006 dal titolo provocatorio “Rivediamo la visione globale dell’Olocausto”, legittimò pubblicamente una tesi che fin dalla nascita di Israele è stata molto popolare, ma che mai aveva trovato una sistematizzazione così completa. L’Olocausto, argomentò il leader iraniano, è un’invenzione che è servita ai sionisti per sottrarre la terra ai palestinesi. Dunque negare la Shoah è un arma per sostenere la lotta dei palestinesi e rivendicare il diritto degli arabi che chiedono la distruzione dello stato ebraico e l’espulsione degli ebrei dai territori che hanno usurpato.
Ma quasi cinquanta anni prima, l’eroe del nazionalismo arabo Gamal Abdel Nasser, dichiarò a un giornale tedesco che “nessuno, nemmeno la persona più ingenua, crede seriamente alla menzogna che sarebbero stati sterminati sei milioni di ebrei”. A Gaza i dirigenti di Hamas da anni esprimono pubblicamente questa tesi. Il 29 novembre 2000 il professore di storia dell’Università di Gaza Isam Sisalim dichiarò alla televisione palestinese che l’Olocausto è una grande menzogna. “Non esistono Dachau, Chelmno e Auschwitz”. Gli ebrei, sostenne, usano questa bugia per giustificare la creazione di Israele, “un’entità straniera che si è insediata come un cancro” nel mondo arabo. “Gli ebrei si presentano sempre come vittime e hanno creato un Centro per l’Eroismo e l’Olocausto. Quale eroismo, quale Olocausto? L’eroismo appartiene alla nostra nazione, l’Olocausto è la guerra contro il nostro popolo”.

 La seconda tendenza è di tipo riduzionista e considera la memoria della Shoah come un’esagerazione coltivata ad arte dal mondo ebraico. Nel 1982 a Mosca la esplicitò nella sua tesi di dottorato il presidente palestinese Mahmoud Abbas che accusò gli storici ebrei di avere gonfiato il numero delle vittime per i loro interessi politici. “Nel corso della Seconda guerra mondiale perirono quaranta milioni d’individui appartenenti a diverse nazioni del mondo; tra i sovietici venti; il resto proveniva dalla Jugoslavia, dalla Polonia e da altri Paesi. Dopo la guerra, però, fu annunciato che tra le vittime c’erano sei milioni di ebrei, e che lo sterminio era stato diretto prima di tutto contro gli ebrei, e in secondo luogo contro gli altri popoli europei. La verità è che nessuno può verificare questa cifra, né negarla del tutto”. Nel 2003, quando un giornalista israeliano gli chiese di precisare meglio questo concetto, Abbas rispose in modo sibillino: “C’è chi ha scritto che erano 12 milioni e chi 800 mila. Non ho nessuna intenzione di entrare nel merito delle cifre”.
Lo scopo di quest’approccio è quello di ridurre la dimensione della Shoah e di presentarla come uno dei tanti massacri della storia. Se la Shoah diventa un male minore e viene meno la percezione che fu qualche cosa di unico per la sua gravità, allora non c’è più la necessità di risarcire le vittime e di considerare l’abbandono degli ebrei come una lacerazione morale dell’umanità intera e dunque anche del mondo arabo.
La terza tendenza è quella che ha portato molti intellettuali arabi a una perversa identificazione dei sionisti con i nazisti. Paradossalmente si ricorda il nazismo non per elaborare la tragedia della Shoah, ma per sottolineare la continuità tra gli israeliani e i carnefici di Hitler. Secondo questi commentatori, i sionisti avrebbero guardato con favore alle persecuzioni dei tedeschi, con la speranza di portare il maggior numero di ebrei in Palestina. Invece di aiutare le vittime, scrive per esempio Ahmad Jaber, chiesero agli angloamericani di impedire che gli ebrei fossero accolti nei loro Paesi “condannandoli così a una morte certa”.
Gli israeliani vengono presentati come i nuovi adepti della teoria dello spazio vitale e della superiorità della “razza”. I palestinesi si trasformano così nelle nuove vittime dei continuatori del nazismo e Gaza e la Cisgiordania vengono descritte come una riedizione del ghetto di Varsavia e dei campi di concentramento, come per esempio sottolinea una dichiarazione distribuita dal Ministero dell’informazione palestinese il 22 aprile del 1996. “Che cosa è peggio: il sionismo o il nazismo?” scrive in un articolo Abd-al Aziz al-Rantisi, dirigente di Hamas, prima di venire ucciso in un’operazione antiterrorista. “Quando paragoniamo i sionisti ai nazisti insultiamo i nazisti, nonostante l’abominio di cui si sono resi colpevoli e che non possiamo esimerci dal condannare. I crimini perpetrati dai nazisti contro l’umanità, nonostante siano atroci, sono poca cosa se paragonati al terrore scatenato dai sionisti contro il popolo palestinese”.
Il negazionismo arabo ricorda una delle caratteristiche poco note del totalitarismo sovietico. Fino al 1989 nei Paesi comunisti non era lecito ricordare la Shoah e le vittime ebraiche erano spogliate della loro identità e definite genericamente come vittime del capitalismo. Stalin impedì a Vasilij Grossman di pubblicare il suo libro sulla memoria della Shoah in Russia e poco dopo iniziò la campagna contro gli ebrei, accusati di sionismo, una definizione che li indicava come i nuovi nemici del socialismo.
Per anni chi rivendicava nell’Est la sua identità ebraica era bollato con questo marchio (che da allora assunse un valore dispregiativo), nel 1968 il leader comunista Wladislaw Gomułka in nome dell’antisionismo espulse migliaia di ebrei dalla Polonia. C’è voluta la forza dei movimenti antitotalitari e la caduta del Muro perché finalmente la memoria della Shoah venisse rielaborata in quella parte d’Europa che l’aveva negata.
Riusciranno oggi i movimenti democratici nei Paesi arabi a rimuovere i pregiudizi antisionisti e a superare il negazionismo dei vecchi regimi? È una sfida aperta, da cui non solo dipende la pace in Medio Oriente, ma anche la maturazione politica delle difficili e complesse primavere arabe.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

10 ottobre 2011

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