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L’epidemia è un evento formativo. Quando scomparirà, si presenteranno nuove possibilità

di David Grossman

Mercato delle pulci, Jaffa

Mercato delle pulci, Jaffa (Foto di Moti Milrod)

Proponiamo di seguito la riflessione di David Grossman, pubblicata su Haaretz.

Quando finirà la pandemia di coronavirus, alcuni non vorranno più tornare alla propria vita precedente, scrive David Grossman.

È più grande di noi, questa epidemia. È più forte di qualsiasi nemico in carne e ossa che abbiamo mai incontrato, più potente di qualsiasi supereroe che abbiamo immaginato o visto in un film. Di tanto in tanto si fa strada nel nostro cuore un pensiero straziante, che forse stavolta, nella lotta a questa epidemia, perderemo, perderemo davvero. Una sconfitta mondiale. Come ai tempi dell’ “influenza spagnola”. È un pensiero che scartiamo subito, perché come è possibile perdere? Dopotutto, siamo l’umanità del 21° secolo! Siamo avanzati, informatizzati, dotati di innumerevoli armi e mezzi di distruzione, protetti dagli antibiotici, immunizzati... Eppure, c’è qualcosa, qualcosa che riguarda questa epidemia, che ci suggerisce come stavolta le regole del gioco siano diverse da quelle cui ci siamo abituati - a tal punto, in effetti, che si può dire che per ora non ci sia alcuna regola. Con terrore contiamo ogni ora i malati e le vittime in ogni angolo del mondo. Mentre il nemico che si è scagliato contro di noi non mostra segni di stanchezza o di rallentamento, mentre imperversa fra di noi senza sosta e utilizza i nostri corpi per moltiplicarsi.

“Un flagello non è fatto su misura dell’essere umano; perciò ci diciamo che il flagello è una semplice creazione della mente, un brutto sogno che passerà”, ha scritto Albert Camus nel romanzo “La Peste”. "Invece non sempre passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare… [Pensavano] che tutto per loro fosse ancora possibile; il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro?”.

Lo sappiamo già: una certa percentuale della popolazione verrà infettata dal virus. Una certa percentuale morirà. Negli Stati Uniti, si parla di un milione di persone. La morte è molto tangibile adesso. Chi può farlo, reprime questa idea. Ma chi ha un’immaginazione molto vivida - come questo scrittore, per esempio: pertanto prendete ciò che scrive con dubbio e scetticismo - diventa vittima di elucubrazioni e scenari che si moltiplicano a una velocità non inferiore al tasso di contagi provocato dal virus. Quasi ogni persona che incontro fa previsioni lampo sulle varie possibilità sul proprio futuro dettate dalla roulette dell’epidemia. E sulla mia vita senza di loro. E sulla loro vita senza di me. Ogni incontro, ogni chiacchierata, potrebbe essere l’ultimo.

L’anello si stringe sempre più. All’inizio ci hanno detto: “Stiamo chiudendo i cieli” (che termine!). Successivamente sono stati chiusi i tanto amati bar, i teatri, i campi sportivi, i musei. Gli asili, le scuole, le università. Una dopo l’altra, l’essere umano sta spegnendo le sue lanterne.

Improvvisamente, nella nostra vita è entrata una catastrofe di dimensioni bibliche. “Allora il Signore mandò una piaga sul suo popolo”. E il mondo ne fu afflitto. Ogni persona al mondo sta partecipando a questo dramma. Nessuno ne è esente. Non c’è nessuno la cui intensità di partecipazione sia inferiore a quella degli altri. Da un lato, a causa della natura del massacro di massa, i morti che non conosciamo sono solo un numero, sono anonimi, senza volto. Ma d’altro canto, quando guardiamo oggi coloro che ci sono vicini, i nostri cari, sentiamo quanto ogni persona sia un’intera cultura, infinita, la cui scomparsa allontanerebbe dal mondo qualcuno che sarà ora e sempre insostituibile. L'unicità di ogni persona si fa sentire improvvisamente a gran voce partendo dal profondo, e proprio come l’amore ci porta a distinguere una persona dalle masse che scorrono attraverso la nostra vita, ora vediamo che anche la consapevolezza della morte ci porta a farlo.

E che sia benedetto l’umorismo, il modo migliore per resistere a tutto questo. Se riusciamo a ridere del coronavirus, in realtà stiamo dicendo che non ci ha ancora portati alla paralisi totale. Che dentro di noi c’è ancora libertà di movimento nell’affrontarlo. Che stiamo continuando a combatterlo e che non siamo solo la sua vittima indifesa (più precisamente, in realtà siamo la sua vittima indifesa, ma abbiamo inventato un modo per aggirare l’orrore di tale consapevolezza e persino per divertirci con essa).

Per molti, l’epidemia potrebbe diventare l’evento fatale e formativo nel prosieguo della loro vita. Quando finalmente finirà e le persone usciranno dalle proprie case dopo una lunga chiusura, si potrebbero presentare possibilità nuove e sorprendenti: forse aver toccato le fondamenta dell’esistenza promuoverà tutto questo. Forse la tangibilità della morte e il miracolo di salvarsi da essa scuoteranno e risveglieranno donne e uomini. Molti perderanno i loro cari. Molti perderanno il lavoro, il proprio sostentamento, la propria dignità. Ma quando l’epidemia finirà, potrebbero esserci anche persone che non vorranno tornare alla propria vita precedente. Alcuni - quelli che possono farlo, ovviamente - lasceranno il lavoro che per anni li ha soffocati e repressi. Alcuni decideranno di lasciare la propria famiglia. Separarsi dal proprio partner. Far nascere una nuova vita, oppure astenersi dal farlo. Alcuni usciranno dall'armadio (da tutti i tipi di armadi). Alcuni inizieranno a credere in Dio. Ci saranno credenti religiosi che rinunceranno alla propria fede. Forse la consapevolezza della brevità e della fragilità della vita spingerà uomini e donne a stabilire un nuovo ordine di priorità. A insistere molto di più nel distinguere il grano dalla paglia. A capire che il tempo, non il denaro, è la loro risorsa più preziosa.

Alcuni si porranno per la prima volta domande sulle decisioni prese, su ciò che hanno lasciato e sui compromessi che hanno fatto. Sugli amori che non hanno osato amare. Sulle vite che non hanno osato vivere. Uomini e donne si chiederanno - per un breve periodo, probabilmente, ma la possibilità si presenterà comunque - perché hanno sprecato i propri giorni con relazioni che rendono la loro vita una sofferenza. Ci saranno anche alcuni cui il proprio credo politico sembrerà improvvisamente sbagliato, basato solamente su paure o valori che si sono disintegrati nel corso dell’epidemia. Forse alcuni metteranno improvvisamente in dubbio i motivi che hanno indotto la loro nazione a combattere il nemico per generazioni e a ritenere che la guerra fosse un editto divino. Forse vivere un’esperienza umana così difficile indurrà le persone a detestare le visioni nazionalistiche, per esempio, e a respingere atteggiamenti che promuovono la separazione, la xenofobia e l’autosufficienza. Forse alcuni si chiederanno per la prima volta, per esempio, perché israeliani e palestinesi continuino a combattere gli uni contro gli altri, affliggendo le loro vite da oltre cento anni con una guerra che si sarebbe potuta risolvere molto tempo fa.

L’atto stesso di esercitare l’immaginazione dal profondo della disperazione e la paura che ora prevale ha una forza propria. L’immaginazione non può solo vedere il destino, può anche sostenere la libertà della mente. In tempi paralizzanti come questi, l’immaginazione è come un’ancora che gettiamo dal profondo della disperazione verso il futuro, verso la quale iniziamo a spingerci. La capacità stessa d’immaginare una situazione migliore significa che non abbiamo ancora permesso all’epidemia e allo sgomento che provoca, di nazionalizzare tutto il nostro essere. In quanto tale, è possibile sperare che forse, quando l’epidemia finirà e l’aria si riempirà di sentimenti di guarigione, ripresa e salute, uno spirito diverso pervaderà l’umanità; uno spirito di semplicità e di nuova genuinità. Forse le persone inizieranno a rivelare, per esempio, segnali coinvolgenti d’innocenza che non possono essere contaminati neppure da un briciolo di cinismo. Forse la morbidezza diventerà d’improvviso, per un certo periodo, corso legale. Forse capiremo che questa letale epidemia omicida ci ha dato la possibilità di tagliarci di dosso strati di grasso, di avidità suina. Di pensiero denso e non discriminatorio. Di abbondanza che è diventata un eccesso e che ha già cominciato a soffocarci. (E perché nel mondo abbiamo raccolto così tanti oggetti? Perché abbiamo accumulato nelle nostre vite fino a quando la vita stessa è rimasta sepolta sotto montagne di oggetti che non hanno alcun oggetto?).

Può darsi che le persone, guardando ogni sorta di contorto artigianato della società dell’abbondanza e dell’eccesso, non abbiano altro che voglia di rimettere. Forse saranno improvvisamente colpiti dalla banale e ingenua consapevolezza che è assolutamente abominevole che ci siano persone così ricche e altre così povere. Che è assolutamente abominevole che un mondo così ricco e sazio non dia a tutti i bambini che nascono le stesse opportunità. Di certo, siamo tutti un tessuto umano infetto, come stiamo scoprendo ora. Di certo, il bene di ogni persona è in definitiva il bene di tutti noi. Di certo, il bene del pianeta su cui viviamo è il nostro bene, è il nostro benessere e il nostro chiaro respiro e il futuro dei nostri figli.

E forse anche i media, la cui presenza è quasi totale nello scrivere la storia della nostra vita e della nostra epoca, si chiederanno onestamente quale sia stato il loro ruolo nel sentimento di disgusto generale in cui ci trovavamo impantanati prima dell’epidemia. Perché siamo rimasti con la sensazione che le persone con interessi inestimabili ci stessero manipolando senza sosta, facendoci il lavaggio del cervello e saccheggiando le nostre tasche. E che i nostri media ci raccontavano la nostra complicata e tragica storia in modo cinico e volgare. Non parlo della stampa seria, investigativa, coraggiosa, ma dei “mass media” che da tempo si sono trasformati da media mirati alle masse a media che trasformano gli esseri umani in una massa. E non di rado, anche nel popolino.

Si verificherà qualcosa di ciò che è stato descritto finora? Chissà? E anche se dovesse accadere, temo che svanirà in poco tempo e che le cose torneranno a ciò che erano prima che fossimo afflitti dall’epidemia, prima del diluvio. Ciò che subiremo fino a quel momento è estremamente difficile da indovinare. Ma faremo bene a continuare a fare domande, come una sorta di farmaco, fino a quando non verrà trovato un vaccino per questa epidemia.

David Grossman, scrittore

Analisi di

23 marzo 2020

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