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L’esperienza interiore del virus

di Pietro Barbetta

Toni Thorimbert, “Finestra”. «Costretti a guardarci allo specchio mentre guardiamo dalla finestra». Milano, 9 maggio 2020

Toni Thorimbert, “Finestra”. «Costretti a guardarci allo specchio mentre guardiamo dalla finestra». Milano, 9 maggio 2020 (© Toni Thorimbert)

Ma tu pensi: I poeti sono matti.
Guardi appena; lo trovi stupidino.
(Umberto Saba)

L’interlocutore

Quando parli del tuo virus agli altri, rivivi - in modo ridotto e, certo, non paragonabile - la stessa esperienza psichica che descrive Primo Levi quando scrive dell’indifferenza degli altri. Loro sembrano distratti, parlano d’altro. Guardando la loro reazione, a te non sembra di avere espresso il tuo stato d’animo a sufficienza.

Le obiezioni e l’impressione di disinteresse mi offendono. Prima non mi accadeva. Prima esprimevo opinioni, elaboravo pensieri, partecipavo al dibattito: osservazioni “politiche”, “scientifiche”. Ora mi viene da pensare: “l’unico modo per essere ascoltato, per rendere il senso delle mie parole, sarebbe la morte, ma se fossi morto, non potrei raccontare”. Sento che, qualsiasi cosa io dica, è inadeguata a smuovere le coscienze. Mi sembra di essere uscito salvo dalle viscere di un terremoto, ma chi non era là con me, mi compatisce, nel senso deteriore che si dà a questa parola.

La reazione altrui, alle parole che proferisci, conta assai, in generale e in queste circostanze assume valore massimo. Dopo questa esperienza faccio molta più fatica a partecipare a quei dibattiti in cui ci si cita tra noti, come se i noti avessero sempre qualcosa di originale da dire, ma non è solo quel che dici, ma come risuona nell’altro.

Naturalmente non accade sempre. Per esempio: l’intervista fatta da me e Rita Finco presso la Casa della Cultura, con Ferruccio Capelli, è stata un’esperienza positiva, mi sono sentito ascoltato con passione e attenzione, le domande rivolteci dal nostro interlocutore erano piene di stupore e partecipazione, benché indiretta, alla catastrofe. Ci sono state altre esperienze positive in questo senso, ma non è sempre andata così. Basta subire una volta quell’atteggiamento blasé, tipico dell’intellettuale cittadino, che si mostra al pubblico come onnisciente, per venire feriti, umiliati, amareggiati. 


Soprattutto nei dibattiti aperti, con interlocutori a te sconosciuti, che partecipano per dire la loro, senza riguardo alla delicatezza della questione: un giornalista di una grande testata che, senza neppure chiedermi “come sta?”, dice che cerca uno psicologo della val Seriana, che abbia pazienti in val Seriana e mi chiede: “Lei vive in val Seriana?” (AAA: Cercasi). Chiusi la telefonata. Come potevo parlare in quelle circostanze? Alcune esperienze mi sembrano: “Raccontami! Sono curioso di eccitare il mio pubblico con i tuoi dolori! Dai!”. Sono sensazioni che si provano dopo avere attraversato il virus e dopo la morte di altri che sembravano averlo superato e ci sono tornati.

Queste righe non sarebbero state così amare se non fosse scomparso, alcuni giorni fa, un conoscente e un amico prezioso: Giulio Giorello. Giorello è morto nelle circostanze meno attese, dopo che qualcuno urlava, in modo sguaiato, dal pulpito della “scienza”, che il virus ha perso la carica virale e qualcuno veniva ripreso a scorazzare, tra Milano e Roma, gridando che il virus non esiste.

L’esperienza del virus come soggetto collettivo

Chi, come me, è stato attraversato dal virus può capire la testimonianza della morte di Giulio, la lettera sul corriere di sua moglie Roberta. Forse, o forse no. Non so se si tratti di capire di più o di stare dalla sua parte, di prendere posizione al fianco di qualcuno che se n’è andato. Ascoltando la vicenda di Giorello mi risuonano le raccomandazioni del mio medico: “io la dimetto, ma, mi raccomando, lei ha ancora la polmonite, può peggiorare da un momento all’altro, stia in quarantena, si curi e torni in ospedale se non respira, misuri il flusso respiratorio, se scende corra in pronto soccorso di nuovo”.

Sei a casa, in quarantena, e sai che la situazione può precipitare, aspetti, ogni giorno ti misuri il flusso respiratorio, un giorno il misuratore del flusso perde la taratura, 83, ma tu stai bene, ieri era 95. Che sta succedendo? Il misuratore viene riportato in farmacia, era un errore tecnico di misurazione. Ti viene in mente un vecchio motto: se funziona, può non funzionare, o, come disse un noto psicoanalista, a proposito della psicoterapia: “funziona, come no! Per il peggio!”.

Quando muore un conoscente, un amico, un parente, vicino o lontano, quando muore, o si aggrava qualcuno, chiunque sia, io - e credo chi, come me, è stato attraversato dal virus - rivedo da capo la scena della prossimità alla morte. Quando il fiato se n’era andato, la voce era un falsetto o spariva, la testa girava e ti impediva di stare in piedi.

Qui non c’è alcuna crudeltà umana diretta, non si tratta di un massacro diretto, si tratta di un fenomeno di rivolta della Natura a ciò che l’uomo contemporaneo considera normale, lo sfruttamento della Terra, al di là di ogni ragionevolezza. L’epoca in cui antropo può produrre la propria distruzione, considerando normale la sua attività. Non credono, deridono, snobbano, trascurano l’ipotesi Antropocene, l’era geologica in cui antropo potrebbe autodistruggere la propria specie.

Invero, tutti gli scettici riguardo a questa ipotesi, hanno sviluppato una sorta di struttura psichica a corazza. Il problema non è se questo accadrà o meno; si tratta di un’ipotesi, esattamente come quelle riguardo al virus, benché di più lunga durata. Il problema è la corazza che esclude drasticamente questa possibilità. La difesa a oltranza del neo-liberismo, che spesso ha reso la scienza un’industria produttrice di “evidenze”, confondendo la funzione ipotetica della ricerca scientifica con la produzione di evidenze tecniche immediate. La scienza riconosciuta è, oggi, in buona parte, un ufficio brevetti, più che un sistema di pensiero complesso. Ma con questo virus le scienze sono state costrette a tornare a formulare ipotesi, il virus ha smascherato i sistemi di autorevolezza interni alla scienza, ha sconvolto le evidenze.

Benché alcune evidenze siano importanti, come quella pubblicata dal New England Journal of Medicine a proposito delle ecatombi di anziani prodotte dai portatori asintomatici e con sintomi lievi, il “tallone d’Achille”, così lo hanno definito, delle morti nelle residenze per anziani negli Stati Uniti come in Italia.

Queste cose, che leggi, ascolti, che ti vengono riferite, prima, durante e dopo la tua esperienza diretta con la malattia, che il virus ha prodotto - il tuo incontro con la morte; queste cose risuonano in te in modo potente. Sono una seconda fonte di turbamento, vorresti far capire agli altri, a chi non è stato attraversato dal virus, che risuonano in te come una ripetizione, non sono considerazioni astratte, teoriche, politiche o geopolitiche, né asserzioni scientifiche, neppure sul piano ipotetico. Sono espressioni dell’animo umano, ma sono espressioni che cercano attenzione, disposizione all’ascolto, un tendere l’orecchio, stare dalla tua parte, produrre un tipo di sensibilità e avere coraggio di togliersi, almeno per un momento, la corazza.

Bisogna però riconoscere gli aspetti positivi che stanno per emergere da questo virus.

Esiste oggi una comunità. La comunità degli afflitti, che si comprendono, che sono soggetto collettivo, l’avere attraversato le stesse condizioni mortali, crea una senso di solidarietà tra i sopravvissuti, così come tra i morti. Una senso di vicinanza.

Il ritorno alla scienza come processo ipotetico

La scienza è stata costretta a riformulare ipotesi, ad assumere un atteggiamento interdisciplinare, ad abbandonare, almeno in parte, non del tutto, quell’atteggiamento di mera competitività. Sì ci sono quelli che si stanno dannando per arrivare prima al vaccino per prendere il brevetto, ma ci sono anche coloro che mostrano incertezze fanno ipotesi sulla possibile molteplicità delle reazioni al virus, cercano di rivalutare un’epidemiologia comunitaria, che comprenda la differenza di virulenza tra differenti spazi urbani e territoriali, si occupano di pensare alle connessioni tra l’evento virus e i sintomi psichici che ne possono conseguire, coloro che calcolano la potenza di diffusione in base alla variazione della carica virale: urbanisti, sociologi, psicologi, matematici.

Insomma, il virus oltre lo sguardo medico. Senza togliere l’importanza degli studi medici, per far sì che non accada come nel disastro del Vajont, dove fantastici ingegneri, che pensavano di avere fatto il meglio e tenuto tutto sotto controllo, non ascoltarono i geologi che parlavano della fragilità dei terreni circostanti. Un esempio di finalità cosciente contro la Natura.

È importante che questo confronto non si trasformi in uno scontro tra discipline “più” o “meno” scientifiche, ma in un dialogo tra persone che si ascoltano, credo che questo lo chiedano i morti, i sopravvissuti e i loro parenti, amici, compagni di vita.

Per quanto riguarda la mia esperienza di psicologo clinico, i miei sintomi poso descriverli come un flusso di cambiamento di stati d’animo, l’angoscia di morte, la reazione alla clausura in due fasi: la fase depressiva e poi quella di abitudine alla vita dentro la clausura, poi, quando fu il momento di uscire, dopo due mesi, la claustrofilia, una sorta di pigrizia, composta da un attaccamento ai luoghi di clausura e una mancanza di coraggio ad affrontare il mondo là fuori, dopo il virus, uscito per le prime volte, una nostalgia della clausura, secondo sintomo claustrofilico, più avanzato, desiderio di regressione alla clausura, poi, oggi, la sensazione dell’indifferenza altrui descritta all’inizio di questo testo, la sensazione di tornare indietro per ogni persona che conosco che muore o si ammala di nuovo.

Pietro Barbetta, direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia

Analisi di

22 giugno 2020

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