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Lettera di un armeno sul Medio Oriente

Baykar Sivazliyan: la mia angoscia per le morti inutili

Attacchi aerei su Gaza

Attacchi aerei su Gaza (AP Photo/Lefteris Pitarakis)

Carissimi Amici,

ho atteso qualche giorno prima di scrivere e condividere con voi i miei pensieri su quello che sta accadendo in Terrasanta. Speravo che la folle guerra fra Israele e Palestina, ormai diventata una sorta di pazzia generale incontrollabile, uscisse fuori dalla sua vecchia logica di vendetta tra fratelli ed entrasse nei canoni di richieste civili di Giustizia e di Verità. Ciò non è accaduto, perciò, con sempre maggiore disagio tento di esternare la mia profonda tristezza davanti a centinaia di morti innocenti, perlopiù bambini. Se tanti di noi avessero modo - come è capitato a me, da armeno diasporano - di conoscere da vicino i loro nomi, la disperazione delle loro madri, i volti attoniti dei compagni davanti alla notizia della loro morte, forse anche i cuori più duri e insensibili inizierebbero a collegarsi finalmente con il proprio cervello e a trovare un giusto equilibro fra sentimento e ragione. 

Ero forse troppo piccolo per capire la gravità e la complessità dell’accaduto, ma tutt'ora sento un dolore acuto nel profondo del mio cuore. Era il 1967 quando rientrando dal Collegio di Venezia a Costantinopoli a casa dei miei genitori, sono corso al piano di sotto nell’appartamento dei nostri vicini ebrei in cerca del mio amico d’infanzia Moscé, come facevo ogni anno al mio rientro. Aveva qualche anno più di me, era un ragazzo allegro e gioioso, sicuramente più dei suoi fratelli, che a Costantinopoli non scoppiavano di troppa allegria. Lo sguardo di sua madre e l’abbraccio troppo forte e prolungato, mi fecero subito presagire qualcosa di molto strano. Il mio amico Moscé era caduto in guerra, una delle tante, quella che gli storici chiamano la terza guerra fra Israele e arabi. Era uno dei tanti giovani ebrei che, partiti dalle proprie case sparse in tutti gli angoli del mondo, si erano recati a difendere l’ideale dei loro nonni. Esattamente come avrebbero fatto, trent’anni dopo, tanti giovani della Diaspora Armena per il Naghorno Gharabagh. 

In questi giorni di lutto e di disperazione non ho sentito voci convinte e incisive che aiutassero a riportare il dramma ormai pluridecennale alla sua giusta dimensione. Dobbiamo tutti smettere di fare gli equilibristi nel tentativo di mantenere a tutti i costi una posizione bipartisan. Il sangue dei giovani e dei bambini non può essere scambiato con le ragioni di Stato. Non riuscirò a darmi pace davanti al fatto che tutta questa carneficina non stia suscitando nessuna indignata, seria protesta della comunità internazionale. Sono angosciato nel sentire la notizia dei ragazzi palestinesi falciati sulla spiaggia da proiettili sparati da un mezzo navale israeliano; la stessa angoscia mi deprime se penso che la pioggia di razzi palestinesi che cadono su Sderot e su Tel Aviv potrebbe nuocere ad altri miei amici ebrei che abitano lì. 

Se incontrassi qualcuno con una sua reale influenza su questi fatti, lo supplicherei anche in ginocchio: “smettete di ammazzarvi a vicenda, sedete sulla vostra sabbia rovente, guardate negli occhi l'uno dell’altro, tenetevi per mano e, per amore dei tanti Moscé e Suleiman o Hamid, trovate una giusta via d’uscita. Cercate per una volta la Verità e la Giustizia per tutti, smettete di pensare solo agli interessi di pochi”. 

Bisogna fare presto, prima che la scia di sangue diventi un profondo lago e invada l'intero Mediterraneo.

Baykar Sivazliyan, Presidente Unione degli Armeni d'Italia

Analisi di

17 luglio 2014

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