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"È mio dovere dire quello che so"

dalle memorie di Valerij Legasov

Proponiamo di seguito alcuni stralci dei messaggi lasciati da Valerij Alekseevič Legasov sul disastro di Chernobyl prima della sua tragica scomparsa. 

In tutta la mia vita non avrei mai immaginato che, a quest'età, avendo appena compiuto 50 anni, avrei scritto le memorie di una parte della mia vita, tragica e, per molti aspetti, confusa e incomprensibile. Ma sono accaduti degli eventi di grande portata, che hanno coinvolto persone con interessi e interpretazioni della realtà diverse. In una certa misura, quindi, è mio dovere dire quello che so, quello che ho compreso e come l'ho visto accadere. 

Era il 26 aprile 1986, un sabato, una bella giornata... Ricordando adesso il viaggio verso il luogo del disastro, devo dire che non mi era nemmeno venuto in mente, all'epoca, che ci stavamo muovendo verso un evento di portata planetaria, che probabilmente sarebbe entrato per sempre nella storia dell'umanità. Come il famoso vulcano che ha decimato la popolazione di Pompei, o qualcosa di simile. Non ne avevamo ancora la minima idea, abbiamo pensato: Quale sarà il lavoro che ci aspetta? Era chiaro che il reattore fosse stato completamente distrutto. Dalla natura della distruzione, potei constatare che c'era stata una massiccia esplosione. [...] Era evidente che un’intensa attività stava continuando al di fuori del quarto isolato. Ma la prima domanda che preoccupava tutti noi era se il reattore o parte di esso fosse ancora in funzione. Cioè se il processo di generazione di radioisotopi di breve durata fosse ancora in corso. 

Dato che ho menzionato il reattore, forse è giunto il momento di raccontare quello che so della storia e della qualità della crescita dell'energia atomica, per come la comprendo ora (è raro che qualcuno di noi ne parli in modo sincero e onesto). L'approccio alla sicurezza nucleare, che, a mio avviso, si applica anche a qualsiasi oggetto tecnologicamente complesso o potenzialmente pericoloso, deve essere composto da tre elementi:

Il primo: rendere l'oggetto, ad esempio un reattore nucleare, il più sicuro possibile.
Il secondo: rendere il funzionamento di quell'oggetto il più affidabile possibile. Anche se non è mai possibile arrivare al 100% di affidabilità. La filosofia di sicurezza richiede inoltre un terzo elemento, quello che ipotizzi che, anche rispettando i primi due, si verifichi comunque un incidente, e che la radioattività o qualche tipo di sostanza chimica si disperda al di fuori dell'oggetto. Proprio per l'eventualità di tale scenario, è necessaria una recinzione dell'oggetto pericoloso: che noi chiamiamo isolamento.

Ebbene, nell'energia nucleare sovietica, il terzo elemento, dal mio punto di vista, è stato ignorato criminosamente. A quell'epoca, infatti, era già stato definito uno standard internazionale che esigeva esattamente i tre elementi di sicurezza. Vale a dire: un reattore affidabile, un funzionamento affidabile e un isolamento obbligatorio. Se ci fosse una filosofia di isolamento obbligatorio di tutti gli oggetti nucleari poi, il RBMK (classe di reattori nucleari costruiti in Unione Sovietica di cui fa parte quello di Chernobyl), per la sua geometria e per la sua costruzione, semplicemente non potrebbe esistere. La struttura di questo tipo di impianti, dal punto di vista delle norme di sicurezza internazionali - e in realtà del tutto normali - non sarebbe consentito. 

Ma a parte questo, l'impianto aveva anche tre evidenti sviste di progettazione. La prima di queste era che, come richiesto dalle norme internazionali e, in generale, dal buon senso, il numero dei sistemi di protezione di emergenza deve essere almeno di due. Inoltre, uno di essi dovrebbe funzionare indipendentemente dall'operatore. Deve spegnere automaticamente il reattore in caso di incidente. Il reattore RBMK non era dotato di un sistema di protezione secondario di questo tipo, indipendente dalle azioni dell'operatore. È stato un grande errore, perché se ci fosse stato quel sistema, certamente non ci sarebbe stato nessun incidente a Chernobyl. E, infine, il terzo errore di progettazione, in realtà difficile da spiegare, è stato che i sistemi di protezione di emergenza erano accessibili al personale della stazione. (Gli operatori del reattore 4 di Chernobyl avevano disattivato manualmente alcuni dei sistemi di sicurezza per condurre il test che stavano facendo prima dell’esplosione). Non c’erano codici speciali, né la duplicazione del processo per disabilitare le protezioni automatiche, che, generalmente vengono operati in complessi missilistici e armi nucleari. Non è stato utilizzato nulla del genere: una cosa alquanto particolare.

Per quanto riguarda la fisica e la tecnologia dei reattori (sovietici), si tratta di un ambito che mi era stato interdetto, sia a causa della mia formazione, sia a causa del tabù imposto da Anatoly Petrovich Alexandrov, capo dell'Istituto Kurchatov, e dai suoi subordinati che lavorano in quel settore. [...]

Naturalmente, anche gli errori commessi dagli operatori di Chernobyl sono ben noti e mostruosi e il comportamento della direzione della centrale è difficile da motivare. La punizione dei principali responsabili dell'incidente è quindi corretta. Ma la ragione primaria non sono stati nemmeno gli errori nella costruzione del reattore, che ovviamente hanno un rilievo e di cui probabilmente dovranno rispondere gli specialisti del caso. La ragione principale è stata la violazione del principio di garanzia della sicurezza degli impianti, ovvero della collocazione di sistemi pericolosi in una sorta di capsula che limitasse la possibilità di dispersione dell'attività nucleare oltre il confine dell'apparecchio stesso. 

È necessario ora considerare le possibili misure per isolare i 28 reattori sovietici che ancora non hanno un contenimento. Poiché non è tecnicamente o economicamente fattibile costruirvi cupole intorno, oggi dobbiamo considerare metodi non tradizionali di localizzazione di possibili incidenti all’interno degli apparecchi. Questo è principalmente un compito della comunità sovietica. È un nostro problema.

Il secondo giorno sul luogo del disastro - credo - ho proposto di organizzare immediatamente un gruppo di informazione, composto dalla commissione di governo e comprendente 2-3 giornalisti esperti che avrebbero ricevuto dagli  specialisti informazioni di carattere tecnico, medico e radiologico. Essi avrebbero dovuto pubblicare ogni giorno, o possibilmente più volte al giorno, appositi comunicati stampa che riportassero ciò che stava accadendo, come la popolazione doveva comportarsi, che cosa fosse esattamente un rem o roentgen. Ma quella non era la strada del governo. Il materiale informativo preparato che avrebbe potuto essere distribuito rapidamente alla popolazione - per spiegare quali dosi fossero sicure e quali estremamente pericolose, come comportarsi in un'area a elevato rischio di radiazioni, le istruzioni sistematiche su cosa misurare e come, come trattare frutta e verdura - era completamente assente. C'erano informazioni mancanti. Qual era il livello di radiazioni in cui stavano lavorando i minatori? Cosa stava succedendo nelle vicinanze, nella regione di Brest Oblast?

Ciò che i giornalisti hanno pubblicato, in senso storico, in senso archivistico, ha ovviamente un significato colossale, come materiale documentario. Ed è necessario e indispensabile. Ma nonostante questo, a causa della diffusione parziale delle informazioni, non è stato fornito al Paese un completo resoconto, giornaliero o settimanale, della situazione.

Valerij Legasov, chimico inorganico sovietico, primo vice direttore del Kurchatov Institute of Atomic Energy, poi capo della commissione che indaga sul disastro di Chernobyl

Analisi di

11 febbraio 2020

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