Ancora una volta di fronte a delitti efferati che colpiscono donne e bambini si usa il termine “mostri” per indicare i colpevoli. Alcuni uomini, secondo questa tesi, si dimostrerebbero più inclini al male e sarebbero l’espressione della presenza demoniaca che agisce su questa terra e da cui dovremmo difenderci.
Secondo un’altra rappresentazione delle pulsioni umane, si tratterebbe dell’emergere di un male quasi metafisico che si anniderebbe in ogni uomo e che potrebbe apparire ovunque sfuggendo al controllo degli esseri umani. Si diventa mostri perché è presente qualche cosa di malvagio in ogni uomo che può esplodere all’improvviso.
Quando si grida al mostro e si arriva a invocarne il linciaggio - sia pure in modo mediatico - in realtà si cade in questo doppio errore. Si pensa che il male venga commesso da uomini con una natura malvagia, dunque diversi dagli altri uomini e si mette in secondo piano il concetto di responsabilità, perché il male sarebbe commesso da piccoli demoni che agirebbero in modo naturale, sfuggendo così ad ogni possibilità di scelta e di libero arbitrio. Oppure si teme il “raptus” improvviso, imprevedibile, che ci trova impreparati a difenderci, quando il male che alberga in ogni uomo prevale e spazza via ogni forma di autocontrollo, scatenando la violenza cieca e assassina.
In entrambi i casi l’unica possibile risposta sarebbe quella di difenderci dalla presenza di questi mostri, come si farebbe di fronte a dei predatori fuggiti dallo zoo. Ecco perché nasce la tentazione della giustizia sommaria nella piazza: sono soltanto delle bestie, oppure dei pericolosi squilibrati, dunque liberiamocene, ecco la soluzione magica.
In realtà questi assassini non sono mostri, e nella stragrande maggioranza dei casi neppure degli squilibrati: sono uomini accecati dall’insofferenza verso il proprio coniuge o il vicino di casa o il compagno di lavoro, oppure spinti da pulsioni sessuali aggressive, che hanno volontariamente abdicato agli elementi fondanti della personalità umana: la capacita di pensare, di giudicare, di mettersi al posto degli altri, di provare compassione. Dunque perfettamente “capaci di intendere e di volere”, responsabili perché per libera scelta hanno deciso di non essere più umani. Tutti gli individui possono farsi prendere da un’ira quasi incontrollabile, da un’insofferenza improvvisa, o anche covare un risentimento, ma poi hanno in qualunque situazione la possibilità di trattenersi, di riflettere, di pensare in modo umano.
È stata questa la grande lezione di Hannah Arendt, che si è rifiutata di definire Eichmann un mostro o un demonio, perché lo considerava un uomo che aveva abdicato alla capacità di pensare e di provare una pietas verso il proprio simile.
Il criminale nazista andava giudicato dal tribunale di Gerusalemme perché era un assassino, non perché era un mostro, anche se aveva commesso delitti mostruosi.
In questo modo la filosofa di Hannover voleva indicarci che l’educazione all’etica della responsabilità, al dialogo interiore con la propria coscienza, è l’unico antidoto, anche se mai risolutivo e definitivo, nei confronti dell’emergere di un male estremo nella nostra società.
L’etichetta di mostro è in realtà molto più rassicurante, perché porta a ritenere che il male venga compiuto da esseri alieni, e non da persone comuni, che a partire dalla propria ottusità e meschinità si spogliano del loro bene più prezioso: il carattere morale.
"Mostri", un'etichetta rassicurante?
di Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, la foresta dei Giusti
- Tag:
- Hannah Arendt,
- male
17 giugno 2014
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