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Nagorno-Karabakh: “Siamo sotto le bombe. Aiutaci”

di Simone Zoppellaro

Scontri fra Armenia e Azerbaigian

Scontri fra Armenia e Azerbaigian (ANSA/AFP)

Ieri mattina mi sono svegliato con una serie di messaggi scritti da amici armeni del Karabakh: “Siamo sotto le bombe. Aiutaci”. In una guerra che sembra lontana e non lo è, in una terra splendida, ricca di monumenti e di una natura incontaminata e rigogliosa, questi messaggi sono arrivati dritti come pugni allo stomaco. Ho avuto voglia di urlare, come adesso. Lacrime di rabbia, ma anche di impotenza, trattenute a stento, per una guerra che è nostro dovere fermare ora, prima che si riveli l’ennesima strage, annunciata da infinite escalation (l’ultima solo a luglio) che hanno generato più indifferenza che impegno – inutile negarlo – da parte dei nostri governi e delle istituzioni europee. Ma anche, senza dubbio, da parte di tutti noi.

A pochi luoghi al mondo sono così legato come a questo fazzoletto di terra, dove una parola come umanità non è soltanto retorica, dove ho incontrato persone ferme, dure e sagge come le montagne che dominano imponenti i suoi paesaggi. Pochi altri luoghi al mondo, in una serie di pogrom e sofferenze atroci più che centenaria, meriterebbero ora pace, prosperità e la solidarietà di tutti noi. A un secolo dal genocidio armeno, non possiamo di nuovo voltarci dall’altra parte e fingere di non sapere quanto avviene oggi agli armeni. E quello che rischia di capitare ancora, di qui a breve, forse anche nei prossimi giorni: massacri e distruzione, e forse la cancellazione di un intero popolo.

Da ieri, piovono bombe sui civili e postazioni militari in Nagorno-Karabakh, in un attacco, avviato alle 8 del mattino ora locale, che ha provocato la morte di 31 soldati armeni, ma anche di una nonna e un bambino di nove anni, in uno dei peggiori episodi di recrudescenza negli ultimi 25 anni di conflitto. Un’intera famiglia, per un totale di 5 persone, ha perso la vita anche da parte azera, mentre sono oltre un centinaio i feriti da entrambe le parti. Sgomento e orrore in una guerra assurda e orribile quant’altre mai, eppure infinita. Che – da un momento all’altro – rischia di ritornare a scoppiare, minacciando la vita di decine di migliaia di persone, nell’indifferenza (o nell’implicita complicità?) di larga parte della comunità internazionale.

Ieri sera, mentre continuavano a piovere bombe, era tutta avvolta dal buio Stepanakert, la piccola, autoproclamata capitale dello stato de facto del Karabakh, che non finiva colpita ormai da un quarto di secolo. Le persone, ancora una volta, si nascondevano in rifugi e nelle cantine nella speranza di sopravvivere, mentre le poche auto in giro procedevano a fari spenti per evitare di essere colpite. Impiego di razzi, aviazione, droni da combattimento e carrarmati, in un attacco, in tutta evidenza, lungamente predisposto e che è avvenuto anche via terra. Da parte armena si parla apertamente di alcune posizioni perse, in un bilancio che, nella quasi completa assenza di giornalisti e osservatori internazionali sul campo, non è ancora possibile stilare in modo completo. La macchina della propaganda della dittatura azera, seppur ignorata dalla larga parte degli analisti, parla di una rappresaglia a una presunta offensiva armena nella notte.

Certo è invece che movimenti di truppe e armamenti, anche da parte della Turchia, forza sempre più attiva in questa guerra, erano visibili da giorni, come anche il dispiegamento in Azerbaijan di milizie jihadiste (300 combattenti, secondo un report) in precedenza attive sul territorio siriano. A nessuno sembra importare che qui sia evidente, a chiunque voglia vedere, che vi è oggi uno stato aggressore ed uno che subisce continui attacchi e stragi. A nessuno, o quasi, importa ricordare che questo è il confronto fra una dittatura fra le più spietate al mondo e una democrazia, quella armena, che ha fatto passi avanti notevoli, nonostante tutte le contraddizioni, a partire dalla corruzione interna, che la segnano ancora oggi.

Da entrambe le parti del conflitto, è stata dichiarata la legge marziale, insieme a una mobilitazione generale e a un coprifuoco. Difficile immaginare che questa nuova escalation, che tutti nella regione chiamano una nuova guerra, possa concludersi nelle prossime ore. Impossibile prevederne gli esiti.

Quello che conta, qui e ora, è una cosa sola: quello che ognuno di noi, nel suo piccolo, può fare per fermate l'ennesima strage (annunciata, eccome) di civili, questa minaccia di cancellare donne e uomini, città, e forse un'intera popolazione. Per quanto ancora potremo continuare a ignorare le cataste di morti che, ogni mese, questo conflitto si lascia alle spalle?

È fondamentale che questo conflitto torni ad essere parte dell’agenda internazionale, e affinché ciò avvenga serve l’impegno della società civile: serve che se ne parli, e servono iniziative che invochino la pace e la riconciliazione, e minaccino sanzioni per chi colpisce. Questo in nome delle centinaia di migliaia di profughi e sfollati, da l’una e dall’altra parte, strappati da decenni dalle loro case, ma anche per le vittime amene e azere di oggi, che sempre più spesso sono anche civili.

Non possiamo più nasconderci dietro a un velo accomodante di indifferenza e cinismo. Se ora ci arrendiamo alla presunta normalità di una nuova guerra ai confini della nostra Europa significa una cosa sola: che tutto quello in cui diciamo di credere (pace, democrazia, diritti umani) è ormai solo vuota retorica, che a breve si ritorcerà contro di noi, svuotando di significato le nostre istituzioni e i nostri valori.

Vediamo anche noi di non perdere quel poco (o tanto) di umanità che ci resta, voltandoci ancora una volta dall'altra parte.

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