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Nome di battaglia: Avesta Harun

di Elisabetta Rosaspina

Quando Avesta si chiamava ancora Filiz, la sua battaglia non interessava granché l’Occidente. Era una questione fra il suo popolo, i curdi del sud est anatolico, in lotta per l’indipendenza, e la Turchia, la seconda potenza militare (dopo gli Usa) della Nato. Tra il gruppo di fuoco del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, con la sua sanguinosa catena di attentati (generalmente, va precisato, contro obiettivi militari e non civili) e un Paese alleato che offre basi strategiche per le operazioni in Medio Oriente, l’Europa e gli Stati Uniti non avevano avuto dubbi nel scegliere con chi stare: dalla parte di Ankara contro quelli che molti Stati hanno deciso o accettato di inserire nella lista delle organizzazioni terroristiche.

Lì sarebbero rimasti: una sigla fra tante e una formazione di idealisti male armati e più o meno irriducibili, infrattati nelle loro montagne, evocati a ogni esplosione di un ordigno, contro un autobus di soldati, una caserma o una stazione della polizia turca. O a ogni ipotesi di un cessate il fuoco e di una concessione politica ai rappresentanti curdi. Finché sul Medio Oriente e sull’Europa non si è stagliata l’ombra di un nemico molto più feroce, molto più efficace nel colpire e nel diffondere il terrore. E molto più abile nel reclutare nuovi seguaci, nel dotarsi di armi e mezzi sofisticati, nel conquistare e controllare territori sempre più ampi, nell’ autofinanziarsi con il traffico di petrolio e reperti archeologici, o con i rapimenti, nel progredire insomma con l’anacronistico delirio di onnipotenza pseudoreligiosa del suo Califfo.

Filiz si era già data il nome di battaglia di Avesta Harun, quando nell’estate del 2014 il mondo scoprì che quel manipolo di guerriglieri, fissati da quasi 40 anni con l’indipendenza del Kurdistan, era in grado di dare filo da torcere ai tagliagole dell’Isis e di bloccarne l’avanzata, molto meglio dei bombardieri occidentali, e a prezzo esclusivamente del suo sangue, ma a vantaggio di città e villaggi che gli eserciti regolari della Siria e dell’Iraq avevano dovuto abbandonare alle stragi jihadiste. Difendono il loro territorio, Avesta e gli altri, si battono per quel Kurdistan che la comunità internazionale non si sogna di riconoscere, ma sono diventati anche un baluardo a difesa dell’oriente europeo, i vendicatori delle atrocità commesse dall’Isis, i liberatori degli yazidi sequestrati e ridotti in schiavitù dalla marmaglia jihadista.

Avesta Harun era già al comando di una formazione quando la sua fama ha cominciato a propagarsi al di fuori della provincia di Van, periferia orientale della Turchia, vicino al confine con l’Iran, e al di là dei monti del Qandil, alla frontiera con l’Iraq. I pochi giornalisti che si avventuravano nelle montagne alla ricerca dei guerriglieri curdi volevano incontrare soprattutto quella giovane donna carismatica che aveva preso il posto e il nome di battaglia del fratello, Harun, ucciso qualche anno prima dai colpi sparati dagli elicotteri Cobra delle forze turche in tre giorni di caccia all’uomo sopra le valli tra Dersim (per i curdi, ma Tunceli per i turchi) e Bingol, nell’Anatolia orientale.

Avesta era già morta, a soli 24 anni, a fine gennaio 2015, quando la liberazione di Kobane (a nord della Siria, Rojava per i curdi) dall’Isis, dopo quasi 200 giorni di combattimenti e un lungo assedio, trasformò la resistenza curda e in particolare l’Ypj (Unità di difesa delle donne) in un simbolo di coraggio, abnegazione, sacrificio per una causa che non era più soltanto la loro. La guerrigliera dagli occhi verdi, titolo della biografia che Marco Rovelli ha dedicato ad Avesta e che Giunti Editore pubblica l’11 maggio, se n’era andata qualche mese prima, il 12 settembre 2014, mentre guidava un gruppo di otto uomini e donne, in un’azione congiunta (e vittoriosa) contro le milizie islamiche che opprimevano i villaggi attorno al campo profughi di Maxmur, a ovest di Erbil, nel deserto iracheno. Ferita da due cecchini, durante la ritirata degli uomini del Califfo, Avesta è morta quando il pick up che la portava in salvo è saltato su una mina.

Il libro di Marco Rovelli contribuisce a plasmare il monumento che i curdi hanno consacrato alla guerrigliera dallo sguardo di smeraldo. Dall’infanzia, come Filiz, a Mezri, un villaggio di montagna vicino ai boschi, fino alla sua fine, tra le sabbie asciutte di Erbil, come la celebrata “comandante Avesta”. Terrorista, partigiana, eroina: si può chiamarla come si vuole, ma non negarle il merito di aver dimostrato che l’Isis può essere piegato. Anche da una donna.

Elisabetta Rosaspina

Analisi di Elisabetta Rosaspina, giornalista, già inviata del Corriere della Sera

9 maggio 2016

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