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Non odiare il nemico: la sfida degli uomini Giusti

Considerazioni sull'ultimo libro di Tzvetan Todorov

Zvetan Todorov

Zvetan Todorov

Si è spento oggi Tzvetan Todorov, filosofo bulgaro e grande intellettuale. Vorrei invitare tutti a leggere il suo ultimo libro per ricordare uno dei più grandi intellettuali del Novecento. A lui devo molto del mio pensiero, e di questo gli sarò sempre grato. 

In questo libro, Resistenti, ci offre un contributo molto originale sul tema dei giusti, analizzando il percorso di chi non soltanto resiste ai soprusi e compie azioni in soccorso delle vittime, ma è anche capace - nel momento della resistenza al male - di non cadere nella logica della vendetta e dell’odio, con la creazione di un nuovo nemico.

Per chi soffre, infatti, nelle situazioni più estreme - dai campi di concentramento, alle prigioni, alle persecuzioni, o di fronte a forme violente di pregiudizi e razzismo - la sfida più difficile non è solo la difesa della propria dignità e di quella delle altre vittime, ma la capacità nella propria autodifesa di proporre un mondo non violento e pacificato. Spesso invece accade che da una situazione di sofferenza possano nascere comportamenti che in nome della giustizia, ripropongono nuove forme di persecuzioni. Ne è un esempio il conflitto israeliano palestinese, dove due popoli vittime di ingiustizie si sentono legittimati a compiere azioni che ledono i diritti altrui e non sono capaci di trovare un compromesso.

A Todorov invece interessano i percorsi degli uomini che sono capaci di provare compassione per le vittime, e nello stesso tempo di non odiare e di ricostruire un rapporto con i nemici, sia per ritrovare una conciliazione dopo i conflitti etnici e nazionali, ma anche per aiutare la redenzione di quanti hanno preso anche la più terribile strada sbagliata. Importante non è solo condannare il crimine, ma anche recuperare gli uomini, perché è possibile riaccendere l’anelito al Bene, anche nei peggiori nemici.

Il sopravvissuto che odia per sempre non solo vivrà molto male il resto della sua vita, ma potrebbe innescare uno spirito di rivalsa in grado di provocare la ripresa di nuove violenze. In realtà si ha una effettiva vittoria della giustizia quando finalmente si ricostruisce un’amicizia tra il popolo delle vittime e quello dei carnefici. Un esempio clamoroso è stata la piena assunzione della responsabilità per la sorte degli ebrei da parte della Germania, che ha permesso una riconciliazione tra ebrei e tedeschi. La Germania oggi è un Paese sempre in prima linea nella denuncia dell’antisemitismo, a differenza della situazione di ostilità che continua ancora oggi a perdurare tra turchi e armeni.

Efficace è la definizione di questo particolare spirito morale coniata dal Dalai Lama: “Il disarmo interiore attraverso la riduzione dell’odio e la promozione della compassione.” Il primo precetto, osserva Todorov, si oppone alla logica delle rappresaglie, alimentata dal risentimento e dallo spirito di vendetta; il secondo si applica non solo alle vittime che ci sono vicine, ma anche ai nostri avversari, al fine di ritrovare una soluzione durevole per i conflitti. Chi segue questa logica non è colui che rimuove il male, come potrebbe sembrare, ma chi continua a credere nella possibilità della vittoria dell’umanità, anche nelle situazioni più difficili.

Zvetan Todorov, al pari di Václav Havel, è stato capace di elaborare questa visione originale, a partire dalla sua esperienza personale nei Paesi totalitari. Il comunismo, infatti, in nome della lotta di classe e della giustizia, proponeva sempre la lotta contro i nuovi nemici dell’umanità. Identificandosi infatti strumentalmente con le vittime del capitalismo, giustificava la repressione di ogni forma di pluralità umana e ogni volta teorizzava un male necessario per purificare la società dai cosiddetti nemici del popolo.

Questa visione manichea, nonostante la fine dei regimi comunisti nell’ Europa dell’1989, tende però sempre a ripresentarsi sotto nuove forme, perché il fascino del nemico da eliminare e da sottomettere, come chiave della felicità, attira anche oggi i populisti, i nuovi razzisti in Europa, gli integralisti islamici che sognano un mondo purificato dalla presenza degli infedeli ebrei e cristiani, ma anche di tutti gli eretici musulmani. Perché ciò accade? Quando si combatte contro il nemico, e si divide il mondo tra noi e loro, nascono apparenti forme di solidarietà etnica, religiosa o nazionale. Ma poi nella lotta contro il nemico - sia esso un popolo, una classe, o una componente religiosa - è inevitabile che quell’odio ricada nello stesso campo che lo produce, perché ogni essere umano diventa un potenziale pericolo. A furia di combattere contro i nemici esterni i comunisti cominciarono a sospettare di quanti consideravano traditori nelle loro stesse fila. E già lo si vede oggi, tra i ranghi dell’Isis, che si presenta come la trincea più pura dell’Islam: gli infedeli non solo solo gli occidentali, ma gli stessi musulmani considerati eretici o non sufficientemente allineati alla jihad.

Ma allora quale è il meccanismo che può portare gli uomini che si schierano dalla parte delle vittime a non farsi trascinare dall’odio verso il nemico e a perseguire metodi non violenti di resistenza, non volendo combattere il male con un nuovo male? C’è una via per resistere prima al male e poi all’odio?
Todorov non dà una risposta univoca, ma suggerisce di ragionare su alcune biografie.

Etty Hillesum è la vittima della Shoah che più ha lottato dentro di sé per non farsi trascinare dall’odio verso gli stessi tedeschi all’interno dei campi di concentramento. Il suo diario rappresenta un’esperienza unica, anche se è scritto nel campo olandese di prigionia a Westerbork, e non sappiamo nulla dei suoi pensieri ad Auschwitz. Forse questa sua capacità di non odiare nasce dalla sua visione non esclusiva dell’amore? Etty, nella sua passione nei confronti dello psicanalista Speer, ragiona sul fatto che l’amore non si debba limitare a una sola persona, affinchè possa diventare stimolo per l’amore per gli altri e il mondo intero.

“Non bisogna mai rendere una persona, anche se molto cara, lo scopo della propria vita […] Il fine è la vita stessa, in tutte le sue forme, e ogni uomo sta lì come mediatore tra noi e la vita.”
Forse invece questa sua capacità di autocontrollo nasce da una visione stoica della vita, dove gli uomini impotenti di fronte al male della natura e a quello provocato da altri uomini, devono essere giudicati dalla loro forza di difendere comunque il loro carattere morale.

Ecco allora perché per la Hillesum gli ebrei sarebbero stati sconfitti dal nazismo nella misura in cui avessero nutrito verso i tedeschi lo stesso odio che loro riversavano sugli ebrei.
“Il grande odio verso i tedeschi ci avvelena l’animo… dobbiamo liberarci del marciume che è in noi… ( altrimenti) la barbarie fa sorgere in noi un’identica barbarie che procederebbe con gli stessi metodi, se noi avessimo la possibilità di agire con gli stessi metodi.”

Etty allora non divide il mondo tra nazisti ed ebrei, tra occupanti e sottomessi, ma pensa che la divisione passi solo tra chi ama e chi odia.
La scrittrice olandese troverà poi nell’assistenza e nell’aiuto agli altri prigionieri la condizione della sua resistenza morale, quasi accorgendosi che solo la solidarietà attiva poteva darle forza in quelle condizioni disumane.
Alla fine lei ammette, di fronte alle continue deportazioni che davanti a un male estremo non basta un comportamento etico e comincia a sperare in un bombardamento degli alleati che colpisca i convogli in partenza per la Polonia. È come se si fosse arresa alla necessità della violenza contro la violenza, perché anche il migliore dei comportamenti morali non ha nessun effetto sui nemici degli ebrei.

C’è in questo una contraddizione e un cambiamento di rotta? Todorov non ci dà una risposta, ma ci lascia comprendere che chi come la HIllesum aderisce alla lotta armata come estrema ratio, se ha fatto suo il principio di non odiare, poi dopo la guerra sarà il più propenso a cercare la conciliazione. Del resto, la scrittrice olandese scrive che sarebbe stata la prima a difendere tutti i tedeschi buoni, e a impedire che gli ebrei potessero riversare il loro odio su di loro.

Anche Germaine Tillon, una grande resistente francese, compie un percorso che la porta, durante la guerra d’Algeria nel 1957, a ragionare sulla conciliazione tra i nemici.
Non ha dubbi tra chi scegliere, tra De Gaulle e il generale Petain, al momento dell’occupazione tedesca. Militante nella resistenza clandestina, afferma un principio a cui rimarrà fedele tutta la vita: la difesa della verità in qualsiasi circostanza. “Sul piano delle idee conosciamo soltanto una causa a noi cara, quella della nostra patria. Per amore suo ci siamo uniti, per tentare di mantenere la sua fede e la sua speranza. Ma non vogliamo assolutamente sacrificarle la verità, perché la nostra patria ci è cara, solo a condizione di non doverle sacrificare la verità.”

Così dopo i duri anni della prigionia nel campo di Ravensbruck, nonostante la morte della madre nelle camere a gas, e la perdita della fede in Dio che si è dimostrato assente nel momento più buio dell’umanità, la Tillion compie un atto morale di grande coraggio. Testimonia a favore di due sorveglianti del campo di concentramento, accusate ingiustamente di avere ucciso con una mannaia alcune detenute francesi. “Se dobbiamo continuare a dire la verità, dobbiamo farlo anche quando ci costa”, dichiara a chi non capisce la sua pietas verso i nemici tedeschi.

Sostiene poi l’importanza di dire la verità anche rispetto ai campi sovietici, e polemizza con una compagna di lotta comunista, che si rifiuta di vedere la realtà. Anche chi è stato un resistente può dire delle fesserie e va sempre giudicato per quello che fa e che dice. Nessuno è innocente per meriti pregressi. “Se identifico qualche cosa di mal fatto del mio Paese, cercherò di impedirlo con tutte le forze. Perché vuoi che per l’Unione Sovietica, mi comporti diversamente che per la Francia?”.

Durante la guerra d’Algeria che vuole seguire da vicino, per il suo tentativo di porre termine alla violenza tra le due parti, la Tillion elabora un concetto molto originale, che dà il titolo a un suo libro di riflessione: Nemici complementari. Le torture e la repressione dei francesi legittimano gli atti terroristici, come le violenze dei resistenti algerini giustificano la repressione dei francesi. Per rompere questa spirale senza fine - che si ripresenta del resto oggi nel conflitto tra israeliani e palestinesi, tra armeni ed azeri, tra russi e ucraini - Germain Tillion applaude ai “traditori” nei due campi che hanno il coraggio di non farsi trascinare dalla loro appartenenza e di lottare contro la violenza, come Albert Camus, o i sei ispettori dei campi sociali, per questo assassinati dall’Oas, l’organizzazione terrorista che non tollerava i francesi concilianti.

Per la Tillion le cause per cui si lotta hanno meno valore delle sofferenze subite dagli esseri umani. Dichiara così che “la famiglia umana non ha bandiera” e lei stessa svolge un’attività sul campo, aiutando entrambe le parti in lotta, opponendosi alle condanne a morte, alla tortura, ma anche agli attentati ciechi.
“Non ho “scelto” chi salvare: ho deliberatamente salvato tutti quelli che ho potuto, algerini e francesi di qualsiasi fede”. Difficile trovare, non solo in Italia, una figura terza che abbia il medesimo spirito di fronte al conflitto israeliano palestinese, dove chi ne è interessato si identifica in buona fede soltanto con una delle due parti in lotta.

C’è allora una soluzione quando i popoli e le nazioni diventano nemici complementari? Germain Tillion auspica una politica della conversazione: sedersi intorno allo stesso tavolo, guardarsi reciprocamente negli occhi, rivolgere la parola all’altro e poi ascoltarlo, essere disponibile a vestire provvisoriamente i suoi panni per capire le ragioni che lo muovono. Scommettere dunque sulla comune umanità, piuttosto che sulla fedeltà al gruppo.

È un principio che ha applicato Nelson Mandela, quando è stato capace di evitare una guerra civile in Sudafrica ed è riuscito ad avviare un processo di conciliazione con i bianchi. Le trattative serrate che il leader della lotta all’apartheid ebbe con i dirigenti afrikaner, da Pieter Botha, a Frederik de Klerk, fino allo stesso generale Constand Viljoen - che stava per organizzare una controffensiva armata - sono un grande esempio. Mandela, chiedendo l’uguaglianza, riconosceva sempre il ruolo dei bianchi nella storia del Sudafrica.
Nella sua autobiografia scrive che in una controversia bisogna sempre considerare l’orgoglio e l’onore dell’avversario e mai disprezzarlo, considerandolo inferiore. “Con un atteggiamento aggressivo si respingono gli altri, obbligandoli a combattere.”
Si ottengono i risultati migliori, scommettendo sulla parte migliore che ciascuno ha dentro di sé. “È buona cosa partire dal principio che gli altri sono onesti e degni di rispetto, perché risvegli l’onestà e il rispetto se cerchi queste qualità in coloro che collabori.”

Mandela fu capace di comprendere che la barriera tra i bianchi e neri non era un muro insormontabile, quando si accorse in prigione che non tutti i bianchi erano uguali, e che poteva trovare tante persone con un cuore e un’anima tra i suoi stessi carcerieri. Aveva scoperto che l’odio avrebbe reso difficile la stessa battaglia dei neri e che odiare il nemico non aiuta a vincerlo, ma corrompe la stessa identità di chi combatte per la libertà.

Mandela come Lincoln aveva compreso che per combattere i nemici bisognava trasformarli in amici, perché in tutti gli uomini, se sei capaci di scavare con intelligenza, puoi ritrovare la tua stessa umanità.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

7 febbraio 2017

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