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Pensare la pluralità di fronte ai muri dell'odio

Il Socrate di Hannah Arendt

Perché Socrate quando cominciava un dialogo con un ateniese sosteneva di non sapere? Per un motivo molto semplice: non si può conoscere in anticipo l’opinione (la doxa) di un individuo se non si discute con lui in umiltà, perché ogni persona ha una sua particolare visione del mondo e non può mai essere omologato agli altri come se si trattasse di una fotocopia. Ogni essere umano è irripetibile, e fino a quando esisterà il mondo ci saranno sempre opinioni diverse che derivano dall’esperienza di ciascuno. È questa la straordinaria pluralità degli uomini, a cui bisogna sapersi accostare con curiosità e senza pregiudizi. Non si può infatti diventare amico di una persona diversa da noi, se non si dimostra prima di tutto la voglia sincera di conoscerlo in profondità.
È questa la scintilla di un’amicizia e di un qualsiasi rapporto con l’altro.

A questo punto Socrate, senza mai esprimere il suo parere, iniziava con le sue martellanti domande, perché voleva che il suo interlocutore si interrogasse da solo sulla veridicità delle sue affermazioni. Così quell’uomo, pungolato dalle sollecitazioni del filosofo, se capace di mettersi in discussione sarebbe stato in grado di “partorire” un’opinione più veritiera.
E come era possibile realizzare questa maturazione?

L’alchimia di Socrate era quella di costringere il suo interlocutore a vedere il mondo da diversi punti di vista e da una nuova prospettiva, che nasceva dalla considerazione delle opinioni degli altri. In questo modo la soggettività del singolo, senza perdere la sua specificità, si sarebbe dovuta mettere in relazione con il mondo degli altri uomini, trovando così una sua dimensione più universale.

Con questa metodologia - l’arte della maieutica - Socrate definiva il ruolo del filosofo nella società greca, allora attraversata da uno spirito agonale di tutti contro tutti e dal germe dell’invidia e della contrapposizione, che portava alla distruzione della Polis e alle divisioni tra gli Stati del Peloponneso. La grande scommessa era quella della creazione di un mondo comune che superasse gli ego e le rivalità attraverso un processo di crescita morale delle persone.

È questo il Socrate che ci racconta Hannah Arendt, in una lezione del 1954, pubblicata in Italia per la prima volta da Cortina, a cura di Ilaria Possenti, con due bei saggi di Adriana Cavarero e di Simona Forti.
Questa sua lettura originale del filosofo greco è centrale in tutto il pensiero successivo di Hannah Arendt, che lo utilizza per spiegare il meccanismo interiore della nostra coscienza.

Quando noi pensiamo è come se avessimo un Socrate dentro di noi che ci pungola e che ci costringe a metterci in discussione.
Il punto di partenza, come suggerisce la massima iscritta nel tempio di Apollo a Delfi, è il conosci te stesso.

“Soltanto se conosco, sostiene la Arendt, quello che appare a me e solo a me, e che resta quindi legato alla mia esperienza concreta, posso conoscere la verità.
Una verità assoluta, quella verità che sarebbe sempre la stessa per tutti gli uomini e che resterebbe sempre slegata e indipendente dall’esperienza di ciascuno, non può esistere per i mortali.”

Ci accorgiamo però anche, nella nostra solitudine, delle voci degli altri dentro di noi. Non esiste soltanto un nostro io al singolare. La pluralità umana si manifesta, dunque, anche nel nostro pensiero, poiché noi rappresentiamo gli altri nel nostro dialogo interiore. Ecco perché è soltanto una grande illusione immaginare di potere rimanere soli con noi stessi, separati dal resto del mondo.

È questa la dinamica della nostra coscienza. Quando avvertiamo che il nostro io è in contraddizione con la presenza degli altri proviamo un senso di disagio. Abbiamo bisogno di ritrovare l’armonia dentro di noi.
È dunque la dimensione della pluralità che ci salva e che Kant, ripreso dalla Arendt nella sua teoria del giudizio, definisce come una propensione a una mentalità allargata.

Come allora compiere azioni buone in un mondo secolare senza un Dio che ci giudica e senza un riconoscimento della società? Come fare del bene in modo anonimo, soltanto per il gusto di farlo, senza bisogno di qualcuno che ti dica “grazie”?

“La risposta di Socrate - suggerisce la filosofa - è contenuta in un consiglio ai discepoli: “Sii come vorresti apparire agli altri”, cioè appari di fronte a te stesso così come vorresti apparire se gli altri ti vedessero. Anche quando sei solo, non lo sei del tutto; tu stesso puoi essere e devi essere, il testimone della tua realtà… La ragione per cui tu non devi uccidere, neanche quando nessuno può vederti, è che non è possibile che tu voglia vivere con un assassino; e che invece commettendo un omicidio, ti consegnerai per sempre alla compagnia di un assassino.”

Le riflessioni della filosofa tedesca, ebrea e cosmopolita, sono molto attuali in una situazione dove, dal Medio Oriente alla nostra stessa Europa, la diversità non viene considerata come una ricchezza e dove sembrano trionfare coloro che vogliono ancora una volta proporre la verità unica della loro religione, della loro nazione o anche del loro piccolo ego. La Arendt ci ha insegnato, invece, come vivendo insieme la pluralità si costruisca la possibilità di un comune orizzonte e di un mondo comune. E il modo più bello di godere della nostra esistenza, per “il fatto che gli uomini, e non l’Uomo vivono sulla terra e abitano il mondo e nessuno è mai identico ad un altro che visse, vive, o vivrà.”

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

30 ottobre 2015

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