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Perché tanto silenzio?

di Silvia Golfera

Martin Heidegger

Martin Heidegger

Hendrik Höfgen, attore salito ai vertici del successo nella Germania nazista, “evitò nel modo più accurato di proferire anche una sola parola di verità” mentre i capi vigilavano affinché “dalle sue labbra sgorgassero esclusivamente menzogne, nient’altro che menzogne; così doveva essere… in tutto il Paese”.

Klaus Mann descrive così, nel suo romanzo Mephisto, la condizione di un uomo che, abbagliato da un insperato successo, mette a tacere la coscienza, per godere delle irresistibili lusinghe del potere. Si tratta naturalmente di finzione letteraria, ma fin troppo fedele a quanto successe nella realtà, in quel tempo e in quel luogo. Non si spiegherebbe diversamente il motivo per cui grandissimi pensatori come Carl Schmitt e Martin Heidegger, per citare solo i più noti, abbiano inneggiato al grande pifferaio del popolo tedesco.

Il 27 maggio del 1933, nel discorso di insediamento in qualità di rettore dell’Università di Friburgo, Martin Heidegger definisce sé stesso “nuovo Führer del mondo accademico”, in uno sventolio di bandiere rosse e nere con la croce uncinata. Che momento doveva essere per lui! Forse andava finalmente realizzandosi il sogno di una vita, il senso di un’immortalità terrena. E nonostante i chiaroscuri del suo rapporto con il governo, pagò regolarmente l’iscrizione annuale al partito nazista fino al 1945.

Forse fu il suo esempio a convincere definitivamente Carl Schmitt a fare il salto. Fatto sta che il 22 aprile Heidegger scrisse al famoso giurista invitandolo a collaborare col nuovo ordine, e questi rispose mettendosi in fila per iscriversi al partito nazionalsocialista, ricevendone la tessera numero 2098860. Negli anni la sua fedeltà al nazismo si fa più radicale, fino ad affermare che “il Führer non è un rappresentante dello Stato…ma il giudice supremo della nazione e il supremo legislatore”.

Queste e tante altre storie sono raccontate da Yvonne Sherratt ne “I filosofi di Hitler”. Negli stessi anni Nadežda Mandel’štam, moglie del poeta Osip Mandel’štam, scomparso in un gulag nel 1938, vaga da una località all’altra della Russia per sfuggire all’arresto in quanto moglie di un rinnegato. Non voglio alludere ad alcun parallelismo – si tratta infatti di storie diverse in contesti diversi - ma qualcosa le avvicina. Nadežda è un membro dell’intelligencija, negli ambienti intellettuali di Mosca e di Leningrado è di casa, eppure sono proprio gli intellettuali i meno disposti ad aiutare un’amica in disgrazia, ingessati dalla paura, ma anche blanditi dal potere.
“Durante il mio peregrinare ho incontrato ogni specie di persone. Erano sempre meglio del cosiddetto fior fiore dell’intelligencija sovietica, che del resto non gradiva molto la mia presenza”. Nadežda viene infatti accolta e protetta da persone semplici, spesso poverissime, con cui può liberamente parlare di argomenti che fra la gente di cultura sono diventati tabù.
A un certo punto troviamo un’osservazione molto interessante: “A proposito dell’antisemitismo, posso dire per esperienza personale che non esiste in basso, arriva sempre dall’alto. Non ho mai nascosto di essere ebrea e in tutte le famiglie di operai, di colcosiani, di piccolissimi impiegati…non ho mai sentito niente di simile a quello che mi toccava sentire…nelle università”.

Vale la pena riflettervi.
Forse non è sempre vero che la cultura ci rende immuni dai pregiudizi. La tentazione di mettersi al servizio del potere, di diventarne la cassa di risonanza, il portavoce o il cane da guardia, a seconda delle circostanze, fa della cultura uno strumento potentissimo per diffondere un’ideologia distruttiva.

In questo periodo di celebrazioni della prima guerra mondiale - e già la parola ‘celebrazione’ stride con l’orrenda carneficina che ha aperto il secolo passato - torna in mente che la quasi totalità degli intellettuali europei ne furono incantati, e molti di loro travolti. La guerra come ‘igiene del mondo’, il ‘bagno di sangue’ auspicato come rigenerazione catartica dei popoli, erano parole d’ordine dei nostri futuristi, da Marinetti a Boccioni, ma tanti altri li seguirono.
Cent’anni fa un esasperato nazionalismo finì con l’inghiottire milioni di giovani, spesso poco più che adolescenti, mentre i governi e i loro portavoce scoprirono il potere della propaganda e se ne servirono massivamente per fomentare l’odio e demonizzare il nemico.
La prima guerra mondiale ha dato l’avvio a un pericolosissimo imbarbarimento sociale e politico, privando gli Stati di una, seppur illusoria, presunzione d’innocenza.

Da allora una brama di sangue e di morte torna periodicamente ad attraversarci.
Prima le ideologie totalitarie, con le ossessioni della razza o dell’appartenenza di classe. Oggi un esasperato radicalismo religioso di matrice islamista, in cui confluiscono rivendicazioni identitarie, frustrazioni politiche e un delirante fanatismo, cerca di riconsegnarci ancora una volta alla paura, all’irrazionale e alla morte, minando le basi stesse di ogni principio di umanità.  Ancora una volta nemici giurati sono la modernità, la libertà, le minoranze, gl’infedeli, le donne, gli ebrei. Quante cose già viste. I nuovi nazisti infiammano il Medio Oriente, stanno conquistando l’Africa, palmo a palmo.

Il mondo della cultura sembra non accorgersene o comunque non aver nulla da dire. Rarissime le prese di posizione, la capacità di indignarsi. Forse si sta vagliando prudentemente con chi convenga schierarsi. Nel silenzio della cultura, speriamo che la parola passi ai tanti che semplicemente vorrebbero vivere in pace.

Analisi di

14 luglio 2014

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